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I dolori pagati
I miei passi erano pesanti, i miei piedi cadevano sul suolo come se dovessero schiacciare cicche di sigarette ancora fumanti. Tutto del mio corpo mi diceva che stavo facendo un grosso errore, che nessun senso umanamente accettabile poteva avvallare una tale pazzia e nessun uomo su questa terra mi avrebbe giudicato se fossi ritornato sui miei passi, se avessi cambiato idea e fossi rientrato a casa. Cosa mi giocavo: l’onore? Il nome? Una promessa che quella voce accorata e languida di persona cara mi aveva strappato?... Niente ugualmente valeva tanto dolore, tanto sacrificio che andavo faticosamente a sopportare.
Nel mare dei miei pensieri naufragai incosciente alla meta rassegnata. La porta era incastonata in un muro bianchissimo, che sprigionava un candore paradossale, quasi ridicolo se considerato l’antro di un patibolo. Il suono del campanello mi risuonò stridente fin nelle viscere e la risposta dell’apertura automatica fu un eco vibrante nelle vene. Entrai, con la fronte imperlata di sudore. L’uomo che in piedi mi aspettava all’interno della prima sala mi salutò con sorriso forzato.
«È in ritardo», mi disse. Indossava una veste bianca, e con sarcasmo pensai che i boia moderni hanno un assurdo gusto dell’orrido che ti gettano in faccia crudelmente.
L’uomo mi osservò mentre lentamente toglievo il soprabito e la sciarpa. Poi aggiunse: «Oggi le faremo un po’ male…», e rise acidamente.
Alzò il braccio, e con l’indice teso mi indicò il corridoio alla mia destra: «La prima a sinistra, prego». Mi avviai verso la porta: non una goccia di saliva inumidiva la mia bocca. Entrai, e senza guardare i due uomini che si trovavano nella piccola stanza, andai dritto verso la seduta che mi spettava. La vista sembrava appannarsi lentamente.
Accade spesso che, quando siamo presi da forti emozioni, e ancor più quando una forte agitazione ci attanaglia, facciamo delle cose stupide, gesti insensati che speriamo ritardino il momento che sappiamo di dover affrontare di lì a poco. Nella feroce ansia del momento mi tolsi gli occhiali e, senza necessità, li pulii con un lembo della maglietta nera che indossavo, l’unica macchia di colore di tutto quel posto candido e luminoso, bianco a tal punto da riuscire a fatica a riconoscere la linea di confine tra le pareti e il soffitto.
Quando nuovamente indossai gli occhiali cominciai a prendere coscienza di quanto mi attorniava: mensole piene di arnesi di ogni misura e forma; un contenitore alla mia sinistra, chiuso malamente, faceva intravedere uno straccio macchiato di rosso, e accanto una fila di buste di plastica bianca, più o meno gonfie e grandi a seconda del contenuto, con targhette di nomi incollate sul bordo alto.
Riuscii a leggere appena il nome della busta più vicina a me, e rimasi sconvolto: si trattava di un professore della mia scuola, un brav’uomo che, al contrario di altri suoi colleghi, non mi aveva mai fatto pesare la mia condizione di uomo della pulizie. Mi salutava sempre, con sorriso gentile, e a volte si fermava a far due chiacchiere, chiedendo sempre con cortesia di mia moglie e dei miei due bambini. L’ultima volta gli avevo confidato di aver qualche problema, e lui, con sguardo più rassegnato, aveva messo la sua mano sulla mia spalla, l’aveva stretta fortemente, come a trasmettermi comprensione, e mi aveva lasciato senza dir nulla. Lì per lì, devo esser sincero, avevo pensato fosse stato un po’ freddo, indifferente nel suo non chieder nulla, ma quando vidi il suo nome scritto su quella busta, in questo posto di dolori caramente pagati, capii che la sua stretta era piena della sua stessa condizione.
Stavo appena muovendomi per leggere il contenuto della busta, che era scritto a caratteri molto più piccoli, ma uno dei due uomini si frappose tra me e il mobile; serio mi guardò negli occhi e mi disse: «È ora». Feci un passo indietro, guardai la sedia e lentamente mi appoggiai. Avrei voluto deglutire, ma sembrava non avessi il controllo dei miei movimenti.
Si avvicinarono entrambi a me, uno alla mia destra, l’altro alla mia sinistra. D’improvviso una forte luce fu indirizzata contro i miei occhi: non riuscivo a capire bene cosa doveva accadermi da lì a pochi secondi, ero terrorizzato. La lingua era un peso morto contro la mia gola ormai bruciante di sete, la mandibola cominciò ad intorpidirsi, e pensavo che le labbra asciutte potessero spaccarsi e insanguinarsi da un momento all’altro. Il sudore della mano sinistra aveva creato una macchia sui pantaloni grigi, mentre nella destra stringevo nevroticamente un fazzoletto di carta che sentivo pian piano sgretolarsi tra le dita. Un rumore elettrico, penetrante, mi distolse dalla mia stessa agitazione: mi voltai verso quel rumore infernale e vidi solo una punta metallica che ruotando si avvicinava verso i miei occhi. Lo spaventoso presentimento che mi aveva accompagnato fino a quel punto si trasformò in un fremito isterico dei muscoli delle gambe. Dovevo fermarmi, dovevo fermarlo: perché tutto questo? Cosa poteva valere questo gesto spaventoso? Cosa poteva giustificare il mio silenzio ed un’atroce sofferenza? Forse il mio nome? Forse lo scherno dei miei figli? Forse la vita stessa di un uomo?
«NO!», urlai. «Non posso, non posso!».
Di scatto la punta metallica smise di ruotare, quel rumore rimase solo un’eco nelle mie orecchie, la luce fu distolta dal mio viso. L’uomo alla mia destra mi guardò inorridito, quasi disprezzando il mio grido, la mia resa. Per un breve, lunghissimo e pesante attimo ci guardammo fissi negli occhi, e nei suoi leggevo tutte le conseguenze del mio gesto, tutto il peso che avrei dovuto sopportare da quell’istante.
Poi lui distese le sopracciglia, da dietro la maschera bianca sembrò accennare un riso, o un ghigno. Guardò il suo collega. Poi guardò me. «E sia», disse, «vada per l’anestesia, signor Mansetti. Ma poi non voglio storie!». «Sì dottore, grazie» risposi accorato. «Sa quanto soffro il dolore alle gengive: faccia in modo che non sia per me un martirio tutte le volte che vengo da lei…!».
Dovetti chiudere gli occhi per non vedere l’ago della puntura, ma poi ci distendemmo tranquilli, io e la mia paura del dolore. Il dottore fece un’eccellente otturazione in ceramica.
All’uscita dallo studio chiamai mia moglie.
«Ho sistemato il dente: sei contenta?».
«Finalmente! - rispose. Sembravi più vecchio di dieci anni con quel molare dimezzato… quando sorridevi si vedeva perfettamente! Ma… hai vinto la tua battaglia sanguinaria?!».
«Non ce l’ho fatta, cara. Ho chiesto l’anestesia. Sei delusa?...»
«Ma che diamine ti viene in testa?! Secondo te dovrei essere delusa perché volevi convincerti di resistere al dolore e non ci sei riuscito?! Questo per me era un pensiero inutile in partenza: con tutti i problemi che dobbiamo affrontare ogni giorno e col buon Dio che ci da la forza di andare avanti, tu sprechi preziose energie mentali per affrontare un dentista?!... Dai, ti aspetto a casa. E sorridente! Non vorrai raccontare ai tuoi figli che per due giorni non li hai degnati di un sorriso per questa banalità?!».
Con un sospiro sollevato spensi il cellulare.
Il mondo sembrava diverso: non mi ero neppure accorto del sole, prima! E già che in questa città è un raro vedere: questo sì, era davvero uno spreco!
Inforcai gli occhiali scuri e mi avviai leggero verso casa.
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- racconto piacevole, appassionante.
- Scritto davvero bene, lineare, scorrevole, ti obbliga a stare sul foglio. Finale da... noir. Bravissima.
- prosa lineare ed elegante. Ottima l'iniziale fase introspettiva. Brava
- molto bello, si legge molto bene e ci tiene con il fiato sospeso sino alla fine, mi piace molto anche l'introspezione iniziale, ciao Nella
- Era quello che speravo. Grazie!
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