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FELICIA E IL COMANDANTE.
Nel chiaroscuro della stanza i due corpi si dividevano, sottraendosi finalmente a quel vapore reciproco.
Felicia dopo qualche secondo si alzò dal letto avvolgendo il suo corpo da gatta nel lenzuolo.
Il comandante la guardò voltando di poco il capo e dopo la prima tirata di un sigaro puzzolente appena acceso esclamò: “Che fai ti copri? Penso di avere visto già abbastanza, non credi?” "Lei si girò di scatto e lo guardò con occhi severi: “Ecco bravo hai visto anche troppo allora! Il mio letto ti ha offerto il privilegio, ma solo il mio letto, e questo non ti da il diritto di guardare oltre quello che io voglio.” Disse lei.
Felicia, l’india, l’eterno sospiro dietro i suoi passi, gli sguardi bramosi di ogni uomo della città.
Il comandante si rivestì, indossò la sua divisa, i suoi stivali polverosi come la sua esistenza, e infine la pistola posata precedentemente sul comodino vicino al letto.
“Felicia, Felicia,” la chiamò, mentre lei dalle trasparenze di una tenda faceva intravedere il suo profilo sinuoso levarsi di dosso con acqua e sapone quel pomeriggio di sudore e sesso, che con l’amore aveva poco in comune.
Lei non rispose. Canticchiava una vecchia canzone che sentiva sempre da sua madre quando lei ancora ragazzina si faceva spazzolare i suoi ricci capelli.
Il comandante allora uscì, lasciandosi alle spalle l’odore di muffa e sudore della casa di Felicia, portandosi dietro una sensazione di vuoto, come se avesse tentato di pescare un pesce con le sole mani. Tutto quello che aveva di Felicia era solo il ricordo breve del suo odore, della sua pelle, ma niente di più. Forse era quello che voleva, solo qualche ora da dedicare ai suoi sensi e solo ai suoi.
Del resto era il comandante della caserma non l’ultimo dei soldati e poi sua moglie non era più così giovane e soprattutto non era, e mai sarebbe potuta essere, Felicia. Perché chiedere qualcosa che sapeva di non poter ottenere? Andava bene anche così.
Il sole del pomeriggio si insinuava sotto il suo berretto militare, ancora forte, insolente, tanto da far lacrimare gl’occhi. E la strada polverosa, come sempre in questo periodo, bianca, farinosa, amplificava il bagliore del cielo.
La gente cominciava a riversarsi per le vie: del resto la siesta era terminata e chi aveva qualcosa da fare cominciava a farla, e chi non aveva niente da fare lo faceva lo stesso.
Il comandante nel suo tragitto riceveva saluti ai quali rispondeva frettolosamente. La gente non lo amava particolarmente ma in un posto come questo l’autorità incute sempre una certa riverenza.
Mentre si dirigeva alla caserma pensò di fermarsi un attimo nella taverna di Manuel Mendoza.
Il caldo implacabile imponeva una sosta per un bicchiere di limonata ghiacciata, un po’di frescura del gigantesco ventilatore della taverna e, nel frattempo, indagare velatamente sulla rissa della sera precedente.
Pare che dopo un’accesa discussione amplificata dall’alcool, nella taverna, qualcuno abbia tirato fuori un coltello e minacciato pesantemente qualcun altro.
La gente mormorava che questa volta Luis il marinaio avesse esagerato, e che questa volta non l’avrebbe passata liscia.
Luis aveva origini irlandesi. Era arrivato in città qualche anno addietro con una nave mercantile e da allora non era più ripartito.
Il mare non lo aveva più voluto con sé: pare che durante una notte di febbre gli fosse comparso in sogno un demone e gli avesse predetto una morte terribile scomparendo tra gli abissi del mare.
Da allora Luis non mise più piede su un’imbarcazione. Era un uomo dal fisico possente e questo lo portò a mettere in pratica un’arte che aveva imparato nelle taverne dei porti di mezzo mondo. Battersi, spesso e volentieri, cercando sempre il più forte per confermare la sua forza fisica nonostante la grosse quantità di alcool ingerite.
E con questi mezzi sbarcava il lunario anche da queste parti; per qualche banconota si batteva contro chiunque su ring improbabili, con incontri da baraccone da circo.
Una volta affrontò perfino un orso mezzo addormentato, una farsa che fece sbadigliare lo sparuto gruppo di spettatori arrivato ad assistere all’avvenimento.
Il suo problema però stava nel fatto che era pronto a menare le mani anche fuori dal ring.
E proprio nella taverna di Manuel Mendoza, per una discussione politica, aveva minacciato con un coltello in mano Diego da Silva.
Diego da Silva viveva ancora della fama di uno dei più coraggiosi rivoluzionari della città.
Ai tempi della guerra civile si era distinto per aver tenuto in scacco per una settimana un’intera guarnigione governativa, capeggiando un gruppo di soli quindici uomini.
Diego non era nuovo a queste imprese e su di lui si era creata, tra legenda e verità, un’intera letteratura locale.
Col passare del tempo le cose si misero in sesto, chi doveva governare governò, la guerra civile si addormentò e Diego si dedicò all’allevamento di galli da combattimento: la sua indole da capo bene si sposava con questo genere di cose.
Nel tempo libero approfondiva letture dal sapore anarchico o palesemente comunista: dentro di sé non si era mai assopito il brivido rivoluzionario e, se fosse accaduto, voleva presentarsi pronto a coinvolgere le masse sia con i cannoni che con le parole.
Era questo forse il vero interesse del comandante, coltelli in giro se ne vedevano tanti, perché preoccuparsi proprio di quello comparso la sera prima nella taverna di Manuel Mendoza?
Come comandante della locale stazione di polizia sentiva l’esigenza di tenere d’occhio qualsiasi rigurgito rivoluzionario, e le voci che giravano sui due contendenti lo allarmavano soltanto per il fatto che uno dei due era Diego da Silva.
Tornò in caserma senza niente di più di quanto avesse sentito durante il giorno sull’episodio: un pensiero veloce a Felicia, una telefonata alla moglie, qualcosa di burocratico da sbrigare in ufficio per poi rincasare per cena, dove qualche bicchiere di vino e le solite discussioni noiose con la moglie, lo accompagnarono al sonno profondo della notte.
Passarono così alcuni giorni. La città inghiottiva le pagine del calendario lentamente, tutto si annientava nella nebbia della polvere e di quel caldo costante che neanche la vicinanza del mare riusciva a mitigare.
I ricordi si accavallavano e la gente faceva presto a dimenticare ogni cosa e a dimenticarsi, trascinata da quella clessidra che rigirandosi ogni volta trascinava i destini di ogni anima della città in un futuro scarso di sorprese.
Solo Felicia aveva desiderato un altro mondo: aveva sentito parlare di posti lontani dove lei, così bella, avrebbe potuto sposare uomini ben vestiti, e vivere in case bellissime dove alle cinque la gente beve il thè con deliziosi pasticcini e le donne parlano di vestiti all’ultima moda.
Ma quanto più sentiva questi racconti e più si sentiva come un animale in gabbia.
Fu proprio questo sentimento che la spinse qualche giorno prima a presentarsi nell’ufficio del comandante.
Si presentò al suo cospetto col fare sicuro che tutti conoscevano e forte della sua immensa e fiera bellezza, guardando dritta negl’occhi il comandante disse:- “Sono stanca di respirare la polvere di questa città morta, ho bisogno di un documento per partire”.
“Cosa, cosa? Sentono bene le mie orecchie? La nostra Felicia vuole lasciarci? Per andare dove?
E per fare cosa poi? Felicia, tu sei il nostro monumento vivente”. Disse il comandante accompagnando il tutto con una fragorosa risata.
Lei non rise, e mentre il comandante le si avvicinava posandole una mano su un braccio, comprese dallo sguardo sulla scollatura del vestitino che il comandante, forse, avrebbe fatto qualcosa per lei.
“Ne parleremo meglio con più calma cara, passerò da te e vedremo cosa si può fare” disse lui.
“Cara è la vita, quando vale la pena viverla” rispose Felicia abbandonando la stanza.
L’episodio della taverna era stato ormai rimpiazzato da nuove risse e, alle scommesse sulla sorte brutta che sarebbe toccata a Luis per mano di Diego, ne erano subentrate altre.
Il tempo si portava via ogni cosa nel ripetere le sue giornate, come fotografie ingiallite, sempre le stesse.
E tra quelle foto stavano tutti: Luis, il marinaio di terra che si ripeteva nei suoi incontri e nelle sue risse; Diego il rivoluzionario che continuava ad allevare galli e a leggere sulla rivoluzione; Il comandante, che continuava a vigilare sul sonno della città.
E così tutti gl’altri, fotocopie della loro esistenza.
Solo Felicia aveva provato a strappare la sua foto.
Per altre volte ancora aveva chiesto aiuto al comandante, ma ormai da quella sera che era stato nel suo letto, ogni volta che lei varcava la porta del suo ufficio, lui, la liquidava frettoloso, promettendo che se avesse permesso ancora di farlo entrare in casa, le cose si sarebbero messe a posto velocemente.
Passò ancora del tempo, troppo, pensò Felicia. Fu così che diede appuntamento al comandante per risolvere la cosa una volta per tutte, ma non nella sua casa, non nel suo letto, quello era stato una volta e mai più.
Si videro a notte fonda, dalle parti del porto vecchio, poco frequentato e dove solo la voce del mare
reclamava rispetto alla sua forza naturale mentre si infrangeva contro la scogliera sottostante.
Lei arrivò mentre lui accendeva il suo solito sigaro puzzolente.
La luna accompagnava il suo incedere solenne, mentre il vestitino che indossava accentuava il marmo bruno delle sue gambe.
“Cazzo, che mi venga un colpo, questa donna è la dea di tutte le dee, è la venere nera, la perla bruna che nessun mortale ha mai posseduto”. Tutto questo pensava il comandante mentre sentiva il cuore esplodergli nel petto.
“Comandante” disse lei facendo brillare il suo immenso sorriso, “allora siete venuto, bene. Siete in debito con me” aggiunse severa cambiando espressione. “Mi avete venduto la mia speranza a caro prezzo e io ho pagato! Siete entrato nella mia camera da letto portando solo l’arroganza dei vostri stivali e nient’altro. Io ho pagato e voi non avete consegnato la merce. Adesso dovete rispondere per la vostra mancanza, comandante. Ora dovete pagare”.
Il comandante non ebbe il tempo di capire, si ritrovò Felicia attaccata a sé, una mano dietro la nuca e la sua bocca vicino all’orecchio che pronunciava parole indistinte come dignità.
E nello stesso tempo una lama nello stomaco lo spingeva verso la scogliera.
Il comandante si sentì mancare il respiro mentre la terra sotto i suoi stivali si sgretolava.
Il ruggito del mare lo accolse e lo portò via con sé.
Felicia consegnò alle onde anche il coltello, si fermò un secondo a guardare verso l’orizzonte, respirò l’alito del mare a pieni polmoni e rivolse i suoi passi verso la città.
La città dimenticò presto la scomparsa del comandante: un altro prese il suo posto e dopo pochi giorni Felicia entrò nel suo ufficio per chiedere un documento.
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