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La strada della chiesa
Ora che sono più attempato che saggio.
Ora che sono più stanco che riflessivo.
Ora che ho imparato a sostituire il rancore con l'indifferenza, la rabbia con il fatalismo, la smania con la pazienza, scopro che invecchiare non è stata proprio una gran furbizia, e che, tutto quel che ho appreso in questi anni, non è altro che un enorme cumulo di cazzate.
L'unico risultato che ho ottenuto, è quello di sentirmi calare addosso il peso di una stanchezza infinita.
Esattamente come mi capitava anche da bambino, quando nelle giornate d'inverno la mamma troppo premurosa, mi costringeva ad andare in chiesa indossando lo splendido cappotto di cammello che tanto detestavo, e che era stato comprato apposta per farmi fare bella figura nei giorni di festa.
Quanto odiavo quello stupido soprabito, tanto costoso quanto pesante, che m'impacciava in tutti i movimenti, e quanto detestavo l'odore della chiesa e la lungaggine monotona della funzione, a cui partecipavo sotto l'obbligo del rispetto della forma.
Me la ricordo bene la strada che portava alla chiesa di Possaccio.
Stava addossata al paese a mezza costa della montagna, sul versante umido che dava sulla valle stretta e scura del S. Giovanni.
Un paese squallido fatto d'operai, che lavoravano nella cartiera, o per attività ad essa collaterali.
Il fiume, imbrattato dalla carta di scarto, con le acque sporche di patina e cellulosa.
Un corso d'acqua nel quale i pesci, stupidi com'erano, si ostinavano a vivere tra la melma e i fanghi di fabbrica che ne soffocavano le branchie e in cui, disperatamente, si affannavano a cercare un po' d'ossigeno da respirare, filtrandolo faticosamente da quel liquido biancastro.
Le case grigie e scarne, disposte lungo la strada principale, sulla quale scorrazzavano i camion carichi di cellulosa, che scaricavano nell'aria del paese nuvole di diesel mal combusto e monossido di carbonio.
Un paese dove le baracche dei pollai costruiti artigianalmente, si appoggiavano al retro delle case, che erano disposte sul territorio in un ordine puramente pratico che non aveva né armonia né gusto.
Tutto ruotava intorno allo stabilimento, e i tempi della vita quotidiana erano scanditi dal lugubre suono della sirena, che chiamava gli operai al lavoro e che, la sera, decretava la fine della giornata lavorativa, rimandando a casa frotte d'uomini sudati e stanchi, maleodoranti d'acido e caolino.
Possaccio era un piccolo paese di poche centinaia d'anime che vivevano un'esistenza di dignitosa mediocrità, ostinata e meschina in egual misura.
Ricordo, di quel periodo della mia vita, la stupefatta commiserazione che provavo guardando i miei compaesani prodigarsi nel patetico tentativo di sottrarsi a quella devastante desolazione.
Lo si poteva notare soprattutto in occasione delle ricorrenze e delle celebrazioni, durante le quali la voglia di uscire dallo squallore quotidiano sfociava in un fiorire di comitati organizzativi costituiti per ogni evento: comitato per i festeggiamenti del giorno della liberazione, comitato per le rappresentazioni natalizie, comitato per la festa di S. Gaudenzio, associazione per la promozione del teatro paesano, comitato per l'organizzazione del grande carnevale possaccese.
Io li osservavo nel loro testardo e stupido affaccendarsi, guardandoli come da dietro un vetro, e in me sentivo un misto di compassione e tristezza, mescolata ad una punta di disprezzo.
Quelle piccole e ostinate persone, indaffarate come api operose, intente a dare il meglio di se stesse, senza riuscire, neppure per un istante, a sollevarsi dalla mediocrità.
Il più delle volte tutto questo prodigarsi sfociava in una rappresentazione al limite del ridicolo, fatta di costumi rappezzati, d'attori improvvisati e balbuzienti, di bande musicali stonate e fracassone, di fuochi d'artificio umidicci e fumacchiosi, che però tutti si ostinavano a voler applaudire, sforzandosi in Oh! di meraviglia, tanto esagerati quanto fasulli.
A volte, un po' spinto dall'insistenza dei miei compaesani, un po' perché io stesso tentavo disperatamente di inserirmi, d'essere anch'io facente parte del mondo paesano, capitava anche a me di farmi invischiare in una qualche attività sociale, e così, mi ritrovavo coinvolto in quell'atmosfera patetica di falso trasporto, dalla quale restavo però intimamente escluso.
Che tristezza era, per me, trovarsi come un corpo estraneo all'interno di una macchina organizzativa tanto frenetica quanto vana, a dare il mio apporto distaccato, senza riuscire a divenirne partecipe neppure per un agognato misero istante.
Eppure, dentro di me, un poco invidiavo quelle persone, come se nel mio Io più recondito condividessi quell'attaccamento alle cose semplici, e apprezzassi lo spirito genuino di quel brulicare d'attività ritenute socialmente utili.
Stupide persone di uno stupido paese, senza identità, senza valore, senza talento, eppure tanto orgogliose da combattere con accanimento una battaglia che sapevano, ma che si rifiutavano di ammettere, essere già persa in partenza.
Tornando alla strada della chiesa, che si snodava prima tra i prati, e poi nei vicoli del paese, ricordo la rampa di scale che portava al sagrato, dove i miei passi strascicati e poco entusiasti facevano scricchiolare la ghiaia, ed incontravano l'odore dell'incenso che ardeva nell'aspersorio, e rammento il rumore sordo della porta che s'apriva alla penombra fresca dell'interno.
Era allora che i volti dei vecchi seduti alle prime panche si voltavano verso di me, ad accusarmi con i loro sguardi ammonitori del mio riprovevole ed eretico ritardo.
Rasentando il muro, con il berretto in mano, sfioravo statue di madonne e santi, per andare a sedermi negli ultimi banchi vicino al confessionale di legno scuro, e mi nascondevo agli occhi di Dio e del Prevosto, mescolandomi ad altri ragazzi anch'essi imprigionati in cappotti e in vite troppo pesanti.
Cominciava allora il sermone di Don Ottavio, che esortava i fedeli ad accontentarsi della vita e delle piccole e futili gioie che essa poteva donare loro.
Don Ottavio parlava con voce stentorea ai suoi parrocchiani, ma dai suoi occhi io capivo con chiarezza, che con il suo discorso volesse convincere soprattutto se stesso, di non star sprecando il suo tempo e la sua vita, in quel paese morto ai confini di un mondo, il cui centro era distante migliaia d'anni luce.
Poi la funzione finiva e, dietro alle facce della gente che coscientemente sì auto-convinceva della verità assoluta e indiscutibile delle parole del reverendo, leggevo un maligno astio contro la vita avara, che loro malgrado stavano vivendo, ma dalla quale non avevano nessuna speranza di uscire.
Durava però solo un attimo quella giusta rabbia contro il mondo, poi, lo spirito di sopravvivenza faceva ricominciare quella pantomima di vita, e si finiva tutti a tifare con rinnovato entusiasmo per la squadra di calcio locale, che era composta da vecchi giocatori falliti e da giovani calciatori senza talento, che si sforzavano di prendere a calci quel povero pallone, che non aveva colpa alcuna se non l'essere stato acquistato da quella torma di sciagurati pedatori.
Anche negli occhi del loro allenatore si leggeva la stessa forzata volontà di non-rassegnazione, che pervadeva Don Ottavio.
La si vedeva chiaramente nei modi bruschi con cui dava le disposizioni tattiche ai suoi giocatori, e nella gratuita cattiveria con cui proferiva insulti all'arbitro, che aveva la disgrazia di dirigere l'incontro domenicale.
Il Mister era mortalmente arrabbiato con il suo mediano che, a suo dire, aveva i piedi quadrati e il passo da "vacca stracca"; era furioso con l'arbitro, reo di decisioni nefaste ai suoi danni, furibondo con il presidente della società che non gli procurava l'attrezzatura necessaria agli allenamenti, e stizzito con i tifosi che non comprendevano il suo talento e il suo prodigarsi a beneficio della gioventù della zona.
In realtà egli però non voleva ammettere, neppure a se stesso, di essere in collera con la propria vita. che era così meschina da soffocarlo, rendendolo ogni giorno più acido e cattivo.
Eppure c'erano sere di Maggio in cui la strada della chiesa diveniva un'altra strada; quando, mano nella mano con i primi amori, di ritorno dal rosario, si cercavano angoli di bosco e di paese, nascosti allo sguardo degli altri, e le bocche s'accostavano nel bacio teso e timoroso della gioventù.
Che bello era sentir scivolare lungo il corpo quel brivido nervoso, che attraverso ogni atomo della carne ti trasmetteva messaggi ormonali impazziti.
Quella tenera confusione che inondava la mente, mescolando le parole sulla lingua, che diveniva secca, e che s'incespicava nelle parole, balbettando incomprensibili dichiarazioni d'amore.
Negli occhi d'ogni nuova Lei vedevi chiaro un altro futuro, che sembrava cominciare da quell'eterno attimo in cui la sua saliva si mescolava alla tua, e le mani incerte e tremanti trovavano i primi contatti con la sua vellutata pelle adolescenziale.
Quel turbamento irrequieto che ti pervadeva i piedi e le gambe, lungo la strada di casa, e che t'involava su per le scale, rapido come un furetto, verso la tua stanza, dove avresti navigato con la mente in subbuglio, verso un futuro che t'appariva così nitido da poterlo quasi toccare, allungando solo una mano fuori della finestra.
Che dolce inganno quella promessa di vita, quanto diverso e incerto il cammino che abbiamo da fare verso il divenire che saremo e che si avrà.
Goditi amore di primavera.
Più che puoi; in ogni istante.
Stivati nel cuore tutto l'amore che incontri.
Fa che ogni sguardo e ogni tremore ti resti impresso nella carne, che ogni profumo s'archivi nel tuo vento, che ogni sapore ti resti sulle labbra per sempre.
Saziati ora, d'ansia e d'emozione, perché ti basti più in là.
Se non ne farai scorta sufficiente presto ne resterai senza e,
quando lo cercherai di nuovo, scoprirai che non avrà né lo stesso sapore, né lo stesso profumo, né la stessa struggente emozione, di quell'amore sbocciato tra le rose del tuo giovane cuore.
Abbiate cura di tutto questo amore.
La vita chiederà pedaggio.
Divoratevi l'un l'altro fino a sfinirvi.
Verrà giorno in cui non avrete fame.
Verrà tempo di carestia.
Consumatevi le labbra e il cuore finché vi facciano male, perché ci sarà l'età in cui si intorpidiranno, e sentirete la nostalgia di quel dolce dolore.
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