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rotelle
La mia città è: Rotelle.
Rotelle fu chiamata così solo dopo un episodio troppo importante per non essere scolpito sul tempo che corricchia per la stessa strada. C’era gente per tutti i gusti in quella città, ma i più erano matti, poi singoli individui rappresentavano e coprivano le altre tipologie umane. Questi ultimi stavano scomparendo, o perché stanchi della pazzia che li circondava di continuo, o perché stanchi di non essere pazzi. Così, tutta la varietà che rendeva la città unica, pian pianino s’affievolì. La città, negli ultimi anni, era quasi tutta matta; solo tre esemplari (sani al venti per cento), resistevano: il macellaio Capuzzo, l’aggiustabiciclette Gino, e Guglielmo.
Il macellaio, un giorno, si affettò la pancia perché un cliente pazzo lo aveva ossessionato con la storia che era ingrassato (in realtà pesava 71 chili per un metro e ottantotto di tenera carne). Da quel momento, il macellaio s’iscrisse automaticamente al club dei matti che in quella città andava per la maggiore. Rimasero l’aggiustabiciclette e Guglielmo.
Il penultimo, dopo aver aggiustato la forcella di una bicicletta rossa fiammante alta un metro da terra (matta anche lei a farsi mettere le mani addosso da quell’incompetente) le sistemò due rotelle: decise di provare ad andare per la prima volta nella sua vita su una bicicletta. Fece tutto il corso urlando a squarciagola, saltando le lettere inglesi, (perché non le conosceva), e la erre (perché gli veniva floscissima) tutto l’alfabeto. Sterzò di colpo e ingoiò il lungomare, dove da bambino vedeva gareggiare i suoi coetanei con le biciclette, capaci senza rotelle e persino senza mani. Pedalava alla velocità della luce. Pedalava talmente forte che le cosce a forza di sfregare una con l’altra decisero di mettersi a sputare fumo blue oltremare. La bicicletta non andava molto veloce per via delle ruotine, invece secondo Gino quelli erano almeno i cento. Inghiottì il porto, quando i pescatori stavano scaricando il pesce (in realtà lo avevano pescato e ora lo rigettavano in mare: erano pazzi). Li salutò con un gesto, poi si emozionò pensando di poter togliere anche l’altra mano dal manubrio. La tolse, arrivò alla fine del porto dove ad attenderlo c’erano gli scogli. Non si sa se n’era consapevole, fatto sta che tirò dritto. Spiccò un salto incredibile. Senza mani. La gente lo guardò volare per venti metri, un volo lungo e felice.
Esiste la leggenda che la signorina Carmela, addirittura, entrò dal macellaio Capuzzo, che nel frattempo con la sua pazzia aveva tirato su un po’ di quattrini in più del solito, prese il numero, attese il suo turno, si fece servire: salsicce, salsiccette, braciole, capicolli, prosciutti, mortadelle, tutti gli insaccati possibili, spiedini, spiedonzoli, spieducci, salami, polli, alette, costolette, bistecche, ancora spiedini e spieducci, temendo che non le bastasse il chilo e otto di prima (si vede che quella sera aveva fame), pagò, uscì, e trovò ancora lì a mezz’aria Gino, infine abbassò lo sguardo e tornò a casa. Gino, durante il volo non riuscì ad urlare la rabbia che aveva dentro di se o per paura o per quello che i Rotelliensi solevano chiamare ‘la steterostincatezzatura’ (tradotto il nodo alla gola).
Gino l’aggiustabiciclette atterrò nell’acqua e benché esperto nuotatore annegò. Il nodo non lo aveva preso alla sola gola, bensì a tutto il corpo: gli impedì di muoversi.
C’è chi dice di aver visto ancora una volta, Gino. Lì. A mezz’aria… sospeso… nel suo equilibrio tremendamente precario. La voce della visione si sparse molto velocemente, e ben presto per gli abitanti Rotelliensi, un po’ picchiatelli come al solito, divenne realtà.
L’ultimo protagonista della vicenda è Giglielmo: il vecchio tecnologico. Era un ex-notaio: un sereno depresso. Dopo qualche anno di riflessione, incominciò a centouno anni sette mesi e qualche giorno ad interessarsi alla fotografia. Cominciò a studiare con assidua regolarità nientemeno che la tecnologia. In particolare: la fotografia digitale. Cominciò a girare per le strade e scattare fotografie con apparecchi e fronzoli giapponesi, cinesi, tedeschi, appesi al collo in maniera da accentuare all’impossibile la sua gobba.
Era alto due metri, (senza contare la gobba), uno e sessantotto (contando la gobba), ottantadue chili di ciccetta cadente assai, cappellino verde-pino con alucce copriorecchie immancabilmente tirate all’insù, neo folgorante al centro del naso, pastrano giallo canarino per la serie “non diamo nell’occhio”, pantaloni del pigiama rigorosamente rossi, scarpe da scarpagnatore pulite per la prima e ultima volta alla stazione terminale della catena di montaggio in una fabbrica cinese, se ne girava guardando per terra a causa della gobba. Da un pezzo (più o meno grande così a questa parte), a causa della gobba, le cose più alte del metro e cinquanta non riusciva a guardarle. Proprio lui: il fotografo della città.
I-Pod nelle orecchie e Caparezza a palla, fotografava alzando la macchina, così, verso l’alto, senza sapere cosa fotografava. Era un gesto bellissimo. Senza sapere, quando sentiva una scossa dentro di se, alzava la macchina sopra la sua testa e scattava, senza la benché minima idea di cosa l’obbiettivo della sua macchina, ultimo grido della potenza invettiva Giapponese, comprata su e-bay, stesse inquadrando.
Sviluppava e finalmente guardava la sua opera. Soddisfatto, la catalogava in un album.
Un giorno sentì una scarica più forte del solito. Alzò e cliccò il suo attrezzo. Non fotografò mai più niente. Sviluppò e osservò: un ragazzino era lì sospeso a mezza’aria su una biciclettina da bambino.
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