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Magnifico ribelle parte I
"Se un uomo non lotta per le sue idee, o non vale l'uomo, o non valgono le idee"
Platone
Fortezza di Pizzo Calabro, 13 ottobre 1815
- Ah, foudre (1)! Una commissione militare! A me, una commissione militare! E che, sono forse un brigante?- tuonò Gioacchino Murat, disgustato, gettando a terra una berretta di seta nera da casa (2) e facendo quasi rimbombare l'appartamento in cui era stato rinchiuso. Gli ufficiali borbonici che erano venuti a comunicargli quale sarebbe stato il suo destino, pur non riuscendo a comprendere le sue ragioni, non poterono fare a meno di sussultare, tanto quell'uomo era impressionante.
Gioacchino non era più un giovanotto. Qualche filo d'argento si mischiava al giaietto dei suoi ricci folti; il suo viso, pur piacente ed espressivo, era segnato dagli anni passati in guerra ed anche un po' provato dagli ultimi eventi, gravato dalla preoccupazione e graffiato com'era dalla lotta che aveva preceduto la sua cattura. Era ancora vestito a mezzo, con abiti borghesi che gli erano stati prestati: la sua alta uniforme dell'esercito di Napoli con cui era sbarcato era stata fatta a pezzi. Ma questi particolari diventavano insignificanti quando si considerava nell'insieme la figura imponente e come pronta a scattare, il portamento vigoroso ed elegante, l'aria ardita, il colorito tendente al bruno ora accesso dall'alterco, gli occhi fieri d'un azzurro limpido, quella criniera da Sansone, i baffi potenti, i grandi e lunghi favoriti. Aveva ben ragione di indignarsi; più che offeso, era ferito. Lo volevano processare da invasore, non da re! Ma cosa pensavano, che si sarebbe prestato a quella farsa, a quell'apparato scenico? Lo sapeva quanto loro, adesso, che lo volevano morto! Lo sospettava ancora prima di tentare di salvare Napoli! Nondimeno, era stato un ritorno che aveva dovuto assolutamente rischiare, perché non poteva abbandonare al suo destino un popolo che aveva imparato ad amare, non poteva permettere il ritorno dei Borboni e degli Asburgo in Italia. Le carogne, per di più, l'avevano incastrato anche formalmente: poiché il capo d'accusa imputatogli era quello di aver attentato alla sicurezza del regno, cioè violava una legge che aveva istituito lui stesso e che i Borboni, per la paura che tornasse, avevano evidentemente conservato. Volevano usare una legge legittima per la tutela del paese come mezzo per assasinarlo forse quel giorno stesso!
In altri tempi avrebbe ribaltato quei quattro ed era tentato di lanciarsi a briglia sciolta come spesso tendeva a fare. Ma ora non era il caso, rifletté amaramente, di trattarli male. Non perché fossero i suoi carcerieri, per di più ottusi come sassi e molto puntigliosi sulle procedure; ma perché erano i loro superiori, che li manovravano, che avrebbero avuto sulla coscienza un peso più grosso. Del resto non era più il tempo di prendere tutto di petto senza curarsi dei guai come faceva da ragazzo; soprattutto non era più un allegro scapolo scapestrato e impenitente. Lo scoppio di indignazione passò del tutto in secondo piano appena prese consapevolezza delle immediate conseguenze. La morte per lui non era nulla: ma l'idea improvvisa non vedere più Carolina e i loro figli gli tolse il respiro. Era impulsivo e un gran testardo, ma non era mai stato un avventuriero senza scrupoli e non era responsabile solo di se stesso, come padre di famiglia prima ancora che come re. Forse poteva trattare e tirarsi fuori di lì, fintanto che aveva la possibilità di un colloquio. D'altronde, valutò rapidamente, da quella fortezza da solo non aveva nessuna possibilità di fuggire; ma se fosse riuscito a persuaderli della colpa di cui stavano per macchiarsi, a trovare un alleato o un compiacente che chiudesse un occhio... Le possibilità erano minime perché ormai dubitava che quegli uomini, sia come ufficiali borbonici sia come italiani, l'avrebbero capito. Si rendeva conto che al di fuori degli intellettuali, gli italiani non erano entusiati all'idea di essere di nuovo dei sudditi dei Borboni, degli Asburgo e dei vari reucci, ma nemmeno avevano ancora una coscienza nazionale come avevano già dimostrato i tedeschi o i polacchi; insomma non erano pronti a ribellarsi. Rischiava di bruciare le sue possibilità del tutto, ma aveva il dovere di non lasciare nulla d'intentato. Perciò, poiché sentiva le lacrime pungergli gli occhi, prese tempo per ricomporsi e terminò di vestirsi con una marsina blu; poi fece segno agli ufficiali di seguirlo nell'altra stanza col pretesto di voler parlare del processo. Quindi per prima cosa tastò il terreno cercando di capire se fossero entrati nell'esercito durante il suo regno. Apprese che erano vi entrati qualche anno prima, quando egli aveva cercato di liberare la Sicilia (3) e che tutti dal ritorno dei Borboni non avveno fatto grandi scatti di carriera. "Tipico del vecchio regime; di sicuro adeso vanno avanti solo quelli che hanno avuto la fortuna di avere abbastanza quarti di nobiltà da entrare in accademia e da poter fare la corte al re, com'era una volta anche in Francia" pensò. Commentò quindi che sotto il suo comando era e sarebbe stato molto diverso. Era una pura constatazione, ma gli ufficiali si irrigidirono, prendendolo per un tentativo di corruzione. Lo incalzarono poi dicendo che essendosi la commissione già riunita ormai mancava che si presentasse per poter cominciare e che quindi doveva nominare un avvocato. Gioacchino, un po' perché sapeva che era un farsa e un po' per cercare di capire quanta fretta avessero di giudicarlo, fece il nome di un legale che abitava a Napoli e che quindi non sarebbe arrivato a Pizzo prima di qualche giorno. I quattro abboccarono e rivelarono le effettive intenzioni del governo borbonico: risposero che non si poteva accettare quella nomina perché non c'era tempo, secondo la procedura il processo doveva cominciare immediatamente. Gioacchino rispose che poiché era evidente che lo si voleva mandare a morte non avrebbe avuto bisogno di un avvocato, che non aveva intenzione di presentarsi perché non riconosceva il tribunale come competente, non avendo esso il diritto di giudicarlo (e pergiunta facendo finta, aggiunse tra sé) . Ribadì che non era un generale nemico e non avendo mai voluto arrecare alcun danno al regno di Napoli. Gli ufficiali allora tornarono a fargli delle domande circa il suo sbarco, a cui aveva già risposto per iscritto nei giorni precedenti. Allora però aveva cambiato furbescamente un po' i fatti, perché ancora sperava che lo lasciassero andare. Ma adesso non era più tempo di nascondersi; era arrivato il momento di protestare le sue vere intenzioni. Se avessero capito e l'avessero aiutato, bene. Se no, avrebbe affrontato il suo destino. D'altronde anche se che non era più re, era rimasto pur sempre un giacobino e anche quello temevano. Rivelò che non aveva mai rinunciato ai suoi diritti come re di Napoli. Ma gli ufficiali confermarono che riconoscevano come re soltanto Ferdinando. Allora Gioacchino giocò la sua ultima carta, cercando di far capire che dalla sua morte non avrebbero ricavato alcun vantaggio, anzi solo discredito su tutto il regno per una macchia irreparabile. Ferdinando doveva guardare all'esempio delle altre potenze, che dopo la sua sconfitta a Tolentino l'avevano lasciato libero; gli avevano perfino dato dei regolari passaporti e lasciapassare, come potevano verificare dalle carte requisitegli.
Gli fecero osservare cha ancora un verdetto non c'era; cosa che all'apparenza sembrava incotestabile, ma che vista in prospettiva rivelava quanto non avessero idea di quel che stava succedendo o che facessero finta di non capire. Al che Gioacchino comprese che ogni via era preclusa, che parlarci era impossibile o per stupidità ovina o per complicità consapevole e scoprì tutte le sue carte esclamando:- A me venite a insegnare cos'è una commissione militare? Questi sono sempre casi di morte! Questo è un assassinio!-
Andò nell'altra stanza come una furia, seguito a ruota dagli ufficiali che temevano volesse fare qualche sciocchezza, vedendolo così alterato. Gioacchino invece afferrò da un tavolino un orologio con la sua catena; da essa pendeva un grosso sigillo di corniola che staccò. Era un ritratto della moglie che aveva sempre con sé. Era eseguito di profilo, con un intaglio all'antica di finissima qualità montato in oro, che poteva anche servirgli da sigillo per le lettere private(4). Dimentico di tutto, lo guardò con doloroso trasporto e se lo portò alle labbra. Poiché non cessava di baciarlo e ribaciarlo tra i sospiri, e si era evidentemente perso nel contemplarlo, un tenente cercò di richiamarlo, dicendogli sinceramente commosso di lasciare stare quel sigillo se lo tormentava.
- Lasciarlo! E come lasciarlo! Questa è la mia cara: questa è mia moglie, ecco, vedetela! Ah, mia cara Carolina, moglie mia, figli miei... -
Si mise a parlare di loro, della loro giovane età, con molto affetto e quell'orgoglio che ha ogni genitore quando può parlare dei propri pargoli che sono sempre i migliori del mondo. Poi soggiunse: -Ah, figli: tra poco non avrete più un padre!-
Di nuovo gli ufficiali pensarono che fosse un tentativo di persuasione; ma semplicemente l'aveva assalito di nuovo il dolore di non vedere più i suoi cari. Si presentò infine, come un ultimo assalto, l'ufficiale relatore (5) mandato dalla Commissione per fargli firmare della carte; ma poiché lo aveva chiamato generale, Gioacchino rispose: - Se cercate il generale Murat, qui non c'è; il re Gioacchino forse lo troverete.-
Rifiutò di firmare; l'ufficiale relatore insistette, ma Gioacchino fu irremovibile. Tutti gli ufficiali alla fine uscirono. Rimasto solo, andò alla finestra. Erano ben fornite tanto di vetri quanto di grate e molto piccole, poiché dava sull'esterno della fortezza. Guardando fuori non riusciva a scorgere l'insieme della costa, che ben conosceva poiché a Pizzo ci era stato più volte. Nondimeno, malgrado le preoccupazioni, dagli scorci che poteva cogliere non poté fare a meno di pensare che magnifico paese fosse il regno di Napoli e quanto se ne fosse innamorato a prima vista. Pizzo forse non reggeva il confronto con la sua diletta Castellabate; ma aveva un suo non so che anche quel semplice paesotto di contadini e pescatori, dalle case di pietre a secco o dall'intonaco scalcinato dal sole, strette le une alle altre in un gomitolo di viuzze fatte a sassi che si arrampicavano sulla collina. Era un paese che dipendeva dal mare, sia per i commerci che per la pesca, ma che sembrava avere ancora un paura atavica delle invasioni, arroccato com'era attorno a quella rude fortezza piantata secca come un no sulla costa tutta frastagliata e a scogli. Da quel lato della Calabria, il clima era più temperato e nell'entroterra la macchia mediterranea era più rigogliosa, non bruciata dal sole che in piena estate pareva picchiare su tutto, forse anche sui cervelli. La giornata era tiepida e limpida; era un chiaro mattino che pareva quasi un ultimo scampolo d'estate. Il mare presso la costa aveva il colore di una purissima acquamarina; più in là sfumava in blu profondo e insondabile, percorso dalla bianca spuma delle increspature o da pagliuzze d'oro e pareva correre verso l'infinito facendo a gara col cielo. Forse erano i colori, il gioco dei riflessi, la luce che rendevano tutto così vibrante, così pieno di vita e quell'infinità così piena di pace. Non avevano nulla da invidiare a quelli del suo Midi. Peccato soltanto che la vista era sciupata dalle navi inglesi, arrivate a portare rinforzi ai Borboni, che stazionavano ormai lì da un paio di giorni a ricordargli che era circondato ovunque volgesse lo sguardo. Gioacchino ridacchò sprezzante pensando che evidentemente a loro non era mai andata giù che li avesse cacciati da Capri, costringendo alla resa due interi reggimenti con poche centinaia di uomini e uno sbarco notturno ben congegnato. Non erano reggimenti di prima scelta e il colonnello che li comandava era stato troppo sicuro sul fatto che l'isola avesse solo due punti adatti allo sbarco; perciò lui ne aveva fatto scovare un terzo difficile da risalire ma sguarnito, soprattutto di notte. Aveva scelto una notte di luna piena; le sue truppe erano nascoste nell'ombra mentre il nemico si era trovato in campo aperto e visibile. Appena le perdite erano cominciate ad essere preoccupanti, il colonello era andato nel panico. Che scorno doeva essere stato sapere che erano scappati davanti sì a dei francesi ma anche a dei carabinieri napoletani e a un contingente del regno d'Italia, quindi davanti ad unità che avevano ripagato la sua fiducia ma all'estero non avevano mai avuto una gran che di reputazione. Forse startegicamente Capri non era così indispensabile, ma lui non si era sentito tranquillo a saperli lì con una possibile base a uno sputo da Napoli; alla peggio avrebebro contuinato apagre fior di quattrini per mantenre i due reggimenti; ma era stata una lezione e il piano l'aveva anche pensato da solo, col supporto tecnico del suo stato maggiore napoletano. E adesso venivanoi a fargli marameo i vigliacchi, venivano a ricordargli anche i disastri come Aboukir e Trafalgar e che i padroni del mare alla fine erano ancora loro. Ah, se fosse stato uno di quegli uccelli marini che vedeva cacciare scendendo potentemente in picchiata, librarsi in aria e planare sulle onde fino a sfiorarle con leggerezza, in tutti i casi con manovre precise, come si sarebbe preso gioco di loro! Gioacchino si era incupito; tremava diper la fruitazione fisica, i baffi parevano inarcati come quelli di una tigre furibonda. Ma no, era inutile pestare i piedi e comunque che andassero pure al diavolo. Chissà se almeno Carolina e i bambini a Trieste potevano andare a camminare e svagarsi liberamente. Era già tanto duro saperli in esilio; figurarsi se poi non fossero stati liberi di avere occasioni per distrarsi, per avere conforto e trovare persone amiche. L'ultima volta che li aveva visti era stata a maggio, prima che fuggissero per Venezia; ma gli austriaci li avevano intercettati e una nave inglese li aveva condotti a Trieste, dove erano sotto sorveglianza. Carolina gli aveva scritto tutto e di come si fossa chiusa in cabina per protesta tutto il tempo del viaggio. Ignorava però, essendo le comnicazioni difficili, se ci fossero state delle novità.
"E così è finita, amore mio. Possibile che ci dividano così? Che non vedrò più il tuo eterno e sicuro sorriso? Che vogliano fare tanto male alla nostra famiglia? Morire... Per me, davvero, la prima cosa che significa è lasciarti. Lasciare sola te, Achille, Letizia, Luisa, Luciano.. . Ho sfidato troppe volte la morte per temerla. Però... Però non è proprio giusto..."
Dopo quasi trent'anni passati da soldato e un'intera vita d'avventure e di ogni sorta d'esperienza, con i suoi i trionfi e le sue cadute, avrebbe dovuto sentirsi subito pronto. Già due volte aveva rischiato il patibolo perché giacobino, dopo la caduta di Robespierre e quando aveva appoggiato il colpo di stato di Napoleone. Si poteva anche mettere nel conto quando era andato con lui e gli altri ufficiali nel lazzaretto a Giaffa -dove tra le truppe era scoppiata la peste, sparita da un pezzo in Europa ma non al di fuori- malgrado nessuno di loro fosse immune. Una volta solo per un soffio non era salto per aria quando i realisti avevano attentato alla vita di Napoleone; se aveva avuto un brivido gelato era perché in carrozza con lui c'era Carolina incinta del loro primo figlio. Innumerevoli erano le volte che le pallottole lo avevano sfiorato, da come si era limitato a constatare alla fine delle battaglie trovando i fori nella divisa. Per lui e gli altri soldati di Napoleone, erano poi solo proiettili, non spazzatura, come aveva detto il colonello Lepic ai suoi granatieri della Guardia ad Eylau (7). Decine erano state le sere passato in un bivacco prima di una battaglia, quando non c'era altro da fare che aspettare nella propria tenda o di fianco a un fuoco e scrivere a casa. C'era chi si distraeva nel chiasso col gioco, fumando, bevendo, riminzandosi con qualche gallina rubacchiata o amoreggiando con le vivandiere, ma i più discorrevano dei loro paesi e famiglie o tacevano pensandoci. Decine erano state le volte in cui, alla testa dei suoi squadroni di cavalleria pesante, aveva dovuto infrangere quell'attimo prima di lanciarsi nella carica; quell'attimo in cui si guarda le file nemiche con il cuore che quasi scoppia tra l'esaltazione e la consapevolezza di non poter tornare indietro. Tutto questo però ora pareva non contare nulla.
"È che adesso non posso più dire o la va, o la spacca. Prima non ero chiuso qui dentro. Mi sento un galeone chiuso in uno stagno. Quando mi vogliono mettere il morso, mi manca l'aria. E poi sul campo di battaglia ero faccia a faccia con un nemico di idee opposte alle mie ma che mi affrontava a viso aperto, non che aspettava di mordermi a tradimento come una serpe. E come se non bastasse, adesso mi sento al bivio tra il dovere di marito, di padre e quello di re, di maresciallo di Francia, di giacobino. Che fare, cercare di cavarmela, fuggire per riabbracciarvi, o restare con onore? Già una volta mi sono trovato a scegliere ciò che mi pareva incompatibile, tra Napoleone e l'Italia, un dubbio funesto che non riesco ancora a perdonarmi e che non so a come rimediare. Perchè io devo riavere la stima di Napoleone, devo!"
Gioacchino sospirò e andò a mettersi di traverso sul letto. Gli era stato assegnato una sorta di appartamento fornito di camera, anticamera e una sorta di spogliato per il suo domestico. Era spoglio e non molto luminoso ma pulito; il resto del mobilio erano una seggiola, un paio di tavolini, qualche candeliere e dei pezzi di vasellame. Il tutto aveva l'aria di essere stato ricavato in uno dei due torrioni rotondi già per altri prigionieri scomodi. Lo sorvegliavano costantemente. L'unica sua distrazione in quei cinque giorni di prigionia era venuta dalla compagnia del suo domestico; nonché dei generali Franceschini e Natali che erano stati catturati con lui, finché non erano stati separati. Ma soprattutto l'aveva accompagnato e sostenuto in quei giorni un volume del Metastasio capitatogli in mano non sapeva come. Era stato molto colpito dal "Temistocle". Gioacchino non poteva farsi passare per colto e non era un esperto delle vite dei condottieri antichi come Napoleone che poteva citare Plutarco quasi a memoria. Però non era neanche vero che l'unico libro che avesse mai letto fosse il manuale di cavalleria come dicevano i maligni. Gli era sempre piaciuto molto il teatro e talvolta gli capitava perfino di leggere ad alta voce i passaggi in cui si ritrovava. Gli era piaciuto perfino Shakespeare che pure sul continente non era molto rappresentato. Per l'appunto aveva potuto leggere la storia di un grande che secoli prima aveva già dovuto sopportare un destino simile al suo. A colui che aveva salvato la libertà di Atene e di tutta la Grecia, al vincitore dell'immane armata persiana, era toccato di non essere capito dai suoi fino ad essere accusato di tirannia e tradimento; abbandonato, scacciato come un cane per un duro esilio, non aveva avuto altre risorse che la propria virtù e costanza. Infine- lì le strade differivano- era stato soccorso e accolto proprio da chi aveva sconfitto e che era stato nobile abbastanza da ammirarlo o almeno non portargli rancore. Che gigante di dignità era stato Temistocle sia nella fama sia nella sventura, mai superbo né supplice. Erano pagine che sembravano volergli dire: va' fino in fondo e non cedere alle umiliazioni; il saggio accetta la sua sorte; bisogna far quello che è giusto senza far conto del volubile plauso altrui e del guadagno; forse un giorno gli altri vedranno quel che hanno perduto, ma tu non maledire né invocare la vendetta, anche se gli uomini sembrano non imparare mai. E se non poteva pretendere di essere stato un'occasione persa per gli italiani, di certo lo era per i Borboni. Per questo, dopo aveva ripreso in mano quel libro per un po', esclamò:
- Sentite che belle pagine del Metastasio! Sentite Serse! Che pagine avrebbe potuto scrivere Ferdinando! Che pagine!-
Non riuscì però a continuare la lettura, perché tutti i suoi pensieri andavano a concentrarsi su quello che gli mancava, su quello che era stato. Si rendeva conto che doveva rifletterci sopra: era doloroso, ma necessario. Soprattutto doveva pensare a come dire addio alla sua famiglia. Sentiva calargli addosso un senso di spossatezza profonda. Era una sensazione che già aveva sentito strisciare-pessima consigliera- dentro di sé dopo la disfatta in Russia, ma adesso gli minacciava di franargli addosso. Era come se avesse sulle spalle molti più dei suoi quarantotto anni. E non era solo perché aveva passato tanto tempo sui campi di battaglia. Era il timore che tutto fosse vano a premerlo di più. Certo non avrebbe più avuto il logorante chiedersi, tentando di prendere sonno, cosa l'aspettava l'indomani; ma il sollievo era illusorio. Più pensava a come poteva cavarsela, più cercava un punto debole in quella fortezza, più aveva l'orribile sensazione di essere con le spalle al muro. Quel castello gli era servito da quartier generale e lo conosceva benissimo; se sia dal mare che da terra un attacco era possibile, per chi vi era intrappolato non c'erano punti deboli. Anche a uscire dalla cella, avrebbe dovuto raggiungere il pian terreno tramite corridoi e scale facilmente piantonabili; anche ammesso a quel punto di sopraffare le guardie senza causare allarme, sarebbe sbucato nel cortile; i muri naturalmente erano impraticabili sia perchè non davano appigli sia perchè le sentinelle potevano tenere il cortile sotto tiro. C'era un piano sotterraneo, ma a quanto rilevato non offriva un passaggio che portasse fuori dal paese; se mai era esistito, era stato murato bene o abbandonato da chissà quanto. Era evidente anche a lui che non era decisamente un genio militare che da ogni parte lo si guardasse, fuggire era un suicidio. Per la prima volta in vita sua, la sua sorte era in mano ad altri. Il volo era finito, l'albatro doveva imparare ad aspettare con la ali piegate. Ma che madornale sciocchezza aveva pensato! Ma come, aveva dimenticato che fintanto che poteva pensare e avere una coscienza, una volontà, una dignità, era libero? Perchè quelle nessuno poteva togliergliele! Che gli facessero pure ogni peggiore ignominia: non glie le avrebebro strappate mai. La noia e la costrizione fisica erano un altro disorso; quello erano un problema di gestione -scarsa- sua. D'altronde gli sarebbe toccato anche affrontando l'esilio e una vita ritirata. Non si era mai immaginato in pantofole: ma prima o poi avrebbe comunque lasciato il servizio oppure se avesse dovuto affrontare l'esilio, se fosse stato necessario per essere accanto alla sua famiglia nelle avversità, per loro l'avrebbe accettato.
Passò il resto della mattinata passeggiando irrequieto per quelle due camere e cercando a più riprese di impiegare il tempo leggendo. Prevaleva in lui l'attesa di una qualunque notizia, buona o cattiva, con cui o tentare di salvarsi o prepararsi alla fine. Obiettivamente l'unica speranza era un aiuto dal generale Vito Nunziante. Era il comandante del distretto militare e l'aveva incontrato nei giorni precedenti; era lui l'unico a Pizzo che si era dato da fare perché non gli mancasse nulla. Di fama era un galantuomo molto religioso e Gioacchino sperava che sentisse la contraddizione tra quello che gli si voleva imporre e la sua naturale umanità. Avrebbe passato dei guai coi suoi superiori comunque, pover'uomo. E così fu. Nunziante aveva infatti trovato una scappatoia cercando di imporre la composizione della commissione militare, scegliendo ufficiali che avendo fatto carriera sotto il governo murattiano potessero essergli favorevoli, salvandogli la vita. Il suo tentativo era stato respinto e ai sospetti di questa manovra si sarebbe poi aggiunta la netta contestazione riguardo un trattamento decoroso visto invece come troppo morbido. Fino a pranzo non vennero altri ufficiali o funzionari borbonici. Sentì solo l'alternarsi dei secondini fuori dalla porta, che come tutti i piantoni del modo parevano serissimi; ma come sapeva per esperienza da soldato semplice, in realtà stavano solo morendo di noia, erano tanto abituati a ripetere i medesimi gesti che parevano muoversi come automi. Non notò manovre delle truppe borboniche giunte come rinforzo né delle navi inglesi. La vita della gente di Pizzo pareva andare avanti come se nulla fosse. Tutto restava dolosamente fermo e in sospeso allo stesso tempo. Gioacchino non poteva sapere nulla di quanto avvenisse nella stanza della Commissione né delle comunicazioni tra Pizzo e Napoli. Ma notò che a più riprese gli offrirono da mangiare: era l'ultimo piacere della vita che si soleva offrire a un condannato a morte. Iniziò a sospettare qualcosa quando gli offrirono un caffelatte, che respinse così:- A che serve mangiare quando si sta per morire?-
Chi lo serviva non confermò né smentì, se pur sapeva qualcosa. Ma ebbe la definitiva conferma che non ci sarebbe stata una cena quando gli fu portato il pranzo. Gli furono posti davanti del brodo, del pane già tagliato a pezzi e un piccione disossato. Rivolgendosi al suo domestico, di nuovo, disse:
-Quand'anche non sapessi che sto per morire, eccone dunque la prova.-
Quel pasto era il primo gradino da scendere. Non ne prese che qualche boccone. Non era svogliatezza perché era sovreccitato, non depresso; ma lo stomaco proprio gli si era chiuso.
Dopo, gli toccò di nuovo quel dover attendere. Il tempo ora non passava mai, ora gli sembrava così poco...
A un certo punto sbottò: - Ma quanto tempo impiegano! E quando si sbrigano?-
Se era tutto deciso! Se le testimonianze di cui abbisognavano non mancavano di certo! Dove erano andati a fare l'inchiesta, all'altro capo del regno? Tiravano in lungo perché dovevano far finta di lavorare, o lo facevano apposta? Ad ogni modo, non restava che sopportare quel peso più sciolto che poteva. Pensando a quanto tempo effettivamente poteva avere a disposizione e sapendo ora che lo volevano morto il più presto possibile, non si sarebbe stupito se gli avessero dato appena il tempo di confessarsi appena la sentenza fosse uscita. Di certo dopo la sentenza non avrebbe più avuto il tempo di scrivere la sua ultima lettera: doveva farlo al più presto. Aveva già informato Carolina della cattura, ma di certo la sua lettera non aveva ancora raggiunto Trieste.
"Mia povera, povera Carolina, come me sapevi cosa rischiavo quando ci siamo separati; ma ignara potrai sperare ancora qualche giorno di rivedermi! Se solo dire addio non fosse così maledettamente difficile... "
Tutto quello che gli veniva di scrivere gli sembrava così insufficiente, così scipito, come se venissero fuori ombre di parole o non fossero abbastanza sostanziose da rendere i suoi sentimenti. Doveva riflettere e fare chiarezza, venire a capo di quello che lo tormentava. Tornò a sedersi, con la testa nella mano e la sua mente cominciò ad affollarsi di ricordi che facevano ressa tra loro. Tentando di fare ordine, Gioacchino si concentrò dapprima su quanto accaduto negli ultimi giorni.
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