È scritto in vecchi saggi di di autori dimenticati, raccolte in biblioteche dai capelli bianchi consultabili nei bar del porto. Difficilmente visibili durante le ore diurne costringono il lettore neofita ad un pazienza propria delle querce più che degli uomini - o così si racconta, senza curarsi dell'atletica leggera, del bowling, del pattinaggio artistico e dei mille mestieri cui le querce si dedicano con arborea solerzia quando sanno di non essere osservate, quando lo sguardo si fa vacuo e distante. E questo, credetemi, accade più spesso di quanto si possa immaginare. Hanno certo un sorriso stanco, e un ordine segreto. È scritto, si dice, che sia da accostarsi con cortesia l'orecchio al cuore della madre in silenzio, in terre immacolate di lingue nere, terre in cui sia ancora il tempo estraneo alla logica e virtuoso di confortante pazienza.
E così è capitato a me. Ho ascoltato in ore cupe e raggianti cartoline dall'ultima Thule. Ho disegnato strade nelle loro parole, e visto figli cadere da sere piovose. Ho visto, e voglio raccontare, palazzi e torri diroccate, sbarrati alle porte, preclusi al tatto. Voglio raccontare le serrature forzate e gli atri in penombra. Il regno di polvere e crepe alla foce di fiumi innominati. Le piante rampicanti e i muschi ben stretti e fusi ai massi, egoisti in dimensioni chiuse e distanti. E ricordare parole di folta barba sotto un cielo strappato di galeoni e Dresda in fiamme, in precipizio verso una morte liquida di notte profonda. Stringere la mano al tempo degli addii e vederlo nuotare in oceani lontani dal risveglio.
Lettere floreali di sogno parassita e nemmeno un gatto che riposi sul petto.