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Hummus
Alla luce dei fatti appena avvenuti, devo ammettere che Lorenzo, così com'era, cicciottello e con la pancetta che sporgeva da sopra la cintura, nonostante le leggere - quasi impercettibili - smagliature ai lati e la leggera cellulite sulle chiappe che mi sono sempre trattenuta dal fargli notare, alla fine mi piaceva lo stesso.
Non cerco di giustificarmi o nulla del genere, ma mi chiedo solo cosa sarebbe successo se gli avessi evitato la pena di seguita quella cavolo di dieta sperimentale. Forse non sarebbe successo niente, o forse sarebbe solo successo più tardi, chi lo sa...
Anzi, no... La dieta probabilmente non centrava un bel niente: la causa potrebbe essere dovuta a qualcosa nell'aria, oppure nell'acqua; si potrebbe perfino dare la colpa a qualche agente chimico, a qualche conservante o un edulcorante presente negli snack che si comprano al supermercato.
Non ha più importanza.
Mi manca Lorenzo, mi manca da morire e mi manca anche Dostoevskij, in nostro labrador.
Cerco di ricordare, cerco di dare a tutto un punto di partenza. Da qualcosa sarà pur iniziato...
Forse era iniziato due settimane fa, quando Lorenzo aveva cominciato a sgarrare con la dieta.
Facemmo la spesa insieme, come ogni venerdì, e tornati a casa, tanto che toglievo la roba dai sacchetti della spesa, mi trovo tra le mani questa confezione formato gigante di wurstel di suino.
Persi la calma, e togliendo la confezione dal sacchetto tenendolo con le dita come schifata gli chiedo, urlando:
"E questo che cazzo è?"
Lorenzo mi guarda spaventato e colpevole, con la stessa faccia di un bambino che è stato beccato con dei giornaletti porno o non so cosa e mi fa:
"È il fine settimana. Posso, no?"
Senza far passare un secondo gli urlo ancora:
"No che non puoi. Riesci a prendere qualcosa sul serio per una volta?"
"Non ti sembra di esagerare?"
"Non ti senti un debole?"
Quando mi arrabbio esagero; forse esagero un po' troppo. Ma lui ci teneva a perdere quella pancetta, ci teneva tantissimo.
Certe volte lo beccavo a torso nudo davanti allo specchio in corridoio a guardarsi la pancia con aria rassegnata, per poi rimettersi subito la maglietta e camminare disinvolto appena si accorgeva della mia presenza.
Non lo volevo più vedere così triste, e lui si era stancato di starci male, così m'impegnai per tenerlo a dieta e ad abituarlo a uno stile di vita più sano: attività fisica tre volte alla settimana, niente alcol, a parte un bicchiere di vino bianco il sabato o nelle occasioni speciali.
Io avrei seguito lo stesso programma, così che potesse sentirsi più spronato a continuare.
Sinceramente parlando, mi ero anche stancata di certe domande da femminuccia come: "mettiamo caso che ingrassi o che resti così? Mi terresti?", "Ti affascino, ti piaccio ancora?" e così via...
Lui era stanco di stare male, quasi nello stesso momento in cui io mi ero stancata di essere l'uomo della famiglia, per ciò capitava che avessi delle reazioni "eccessive a certi suoi sgarri.
Tenendo la confezione di wurstel tra l'indice e il pollice, chiamai Dostoevskij. Arrivò in un attimo, affannato per il peso che era costretto a trascinare quotidianamente da un lato all'altro della casa.
Si fermò davanti a me, scodinzolante e con la lingua a penzoloni, il naso puntato in alto verso i wurstel con già litri e litri di bava che gli colavano dalla bocca.
Presi un paio di forbici dal cassetto, mentre Lorenzo si avvicinava per fermarmi.
"No, aspetta...", disse tendendo le braccia verso di me come un disperato.
Gli voltai le spalle, aprì la confezione e lanciai i wurstel a Dostoevskij. Un paio li afferrò al volo, gli altri scivolarono poco lontano da lui, rotolando verso la piccola pozza di bava che si era formata tra le sue zampe.
Lorenzo mi guardò come se fossi totalmente impazzita. In quel momento potevo esserlo, certo, ma la rabbia e la delusione presero il sopravvento.
Gli volevo bene, altre volte lo amavo, e in ogni caso, lo facevo per lui, in virtù dei sentimenti che ci legavano.
"Ti sembra normale?", prese ad urlarmi addosso con rabbia, anche se traspariva una certa paura e insicurezza nel suo sguardo.
"Mi sembra giusto", gli dissi, "se fai così prendi in giro me, che mi metto a dieta con te per darti coraggio, e prendi in giro anche te stesso".
"Il venerdì faccio quel cazzo che mi pare"
Presi un bel respiro, mi appoggiai al tavolo e decisi di parlare da adulta calma e riflessiva:
"Il maiale no, Lorenzo... La carne di maiale non la puoi mangiare. Ti ho preso il petto di pollo e ti ho preso i ceci per fare l'hummus. Ti piace l'hummus, no? Me l'hai detto tu."
"Voglio i wurstel", l'insicurezza svanì del tutto. Lo disse quasi ringhiando e i suoi occhi si svuotarono completamente. Sembrava fuori di testa, come sotto ipnosi o non lo so. Forse era già iniziata o forse era solo una sana astinenza da carne, non ne ho idea. Tutto sembrava così normale prima, non saprei a cosa ricondurlo...
Rimase a guardarmi in cagnesco per qualche secondo, mentre io cercavo di mantenere uno sguardo fermo e deciso. Incrociai le braccia e arricciai le labbra; di solito cedeva quando lo facevo...
Alla fine si calmò, buttò fuori aria dal naso come un toro inferocito e se ne andò in camera.
Per strada trovò Dostoevskij, tutto raggomitolato su se stesso a mangiarsi i suoi wurstel. Mi sporsi leggermente dalla porta della cucina per vedere cosa stesse facendo, e lo trovai in piedi, rigido davanti a lui, con i pugni chiusi e stretti lungo i fianchi che gli tremavano dalla rabbia.
Fece un leggero passo all'indietro e tese la gamba, come pronto a dargli un calcio.
Si rilassò quando mi vide con la coda dell'occhio, riportò la gamba in avanti, rilassò le spalle, guardò il cane e i wurstel per un ultimo attimo e prima di andare in camera mi disse:
"Per coerenza potresti mettere a dieta anche questa palla di merda, così magari arriva a leccarsi le palle senza rischiare si soffocarsi ogni volta."
Aspettai un paio d'ore, giusto il tempo per fare del hummus e rilassarmi un attimino. Preparai una decina di crostini, cinque per me e cinque per lui, e gli portai il piattino in camera.
Lo trovai a letto sotto le coperte con la schiena rivolta alla porta. Era rigido, immobile, segno che non stava dormendo, ma bussai comunque, con delicatezza. Diedi due colpi timidi e lo chiamai:
"Orsacchiotto?"
Rimase immobile. Feci passare qualche secondo e riprovai con:
"Involtino?"
"Si. Sono sveglio. Non chiamarmi così...", mi risponde tutto serio.
Accesi la luce e mi avvicinai. Mi sedetti vicino a lui e gli dissi, tutta timida e timorosa, così da fargli capire che mi sentivo in colpa (era abbastanza vero, in quel momento):
"Non vuoi sgranocchiare qualcosa?"
Si mosse un po' sotto le coperte e si girò, sempre tenendo il naso sotto le lenzuola. Sgranò leggermente gli occhi, si mise a sedere e prese il primo crostino senza nemmeno guardarmi negli occhi.
"Mi dispiace", iniziai mentre prendeva già il secondo, "so che ci tieni. Non mi piace vederti fallire".
Mi guardò di traverso, infilandosi il terzo crostino in bocca.
"Amore, attento che così... ti strozzi...", gli dissi tra il sorpreso e lo schifato.
"Non so che mi prenda", disse con la bocca mezza piena.
"Non so cosa prenda a me, amore..."
"No, voglio dire...", s'interruppe per infilarsi in bocca il quarto crostino, mentre con la mano si avventava sul piatto per afferrare il quinto, "che non riesco a controllarmi."
"Ce la fai benissimo. Sono qui per darti una mano"
"Li mangi quelli?", mi chiese indicando con il dito i cinque crostini rimasti.
"No", gli dissi leggermente sbalordita, "prendi, tanto ce n'è una ciotola piena in cucina. Ne abbiamo per un esercito..."
"Ho continuamente fame", continuò tra un morso e l'altro, a volte senza nemmeno aspettare per deglutire, "come se avessi un buco nello stomaco"
"È gola, non è fame. La tua è solo una golosità"
"È fame..."
"Ha te sembra fame, ma è una cosa psicologica. Ho letto una volta..."
"È fame. Lo so. Conosco il mio corpo", disse abbaiandomi addosso.
Mi sentì impotente. Mi rispose con una ferocia e un accanimento che non avevo mai pensato di poter sentire nella sua voce. Mi spaventava.
"Va bene... facciamo così"
"Facciamo come vuoi tu", disse arreso, quasi sull'orlo delle lacrime, togliendosi con le dita i rimasugli di crostini che erano rimasti impigliati tra i denti, "Facciamo come vuoi tu, so che funzionerà, devo imparare un po' di disciplina".
Sorrisi, con già nella testa l'immagine della sua faccia al solo sentirmi dire:
"La imparerai la settimana prossima".
Si girò per guardarmi con aria confusa e continuai:
"Stasera andiamo al cinese"
I suoi occhi s'illuminarono, solo... non esattamente nella maniera che m'immaginavo. Mi ricordava l'espressione che avevano certi miei amici tossici quando, nei bei tempi andati, a una di quelle feste noiose organizzate da certe nostre compagne di università noiose, mi presentavo a certi miei compagni con un sacchettino di coca in una mano e uno di erba nell'altro.
Per un attimo, quell'espressione mi mise soggezione, anche perché Lorenzo, già di per sé, aveva degli occhi molto grandi, tondi e di un azzurro tanto chiaro che sembravano di ghiaccio. Immaginatelo camminare la mattina per la strada con quella faccia da pazzo che la natura gli aveva regalato.
"Oggi è venerdì, no?", continuai, "e il venerdì sera c'è il menù senza limiti."
"Ma la dieta..."
"Fai progressi. Oggi notavo che il cappotto ti stava un po' meglio del mese scorso. Almeno, i bottoni non sono a un passo dall'esplodere. Ti meriti un premio. Non avrei dovuto trattarti così, voglio farmi perdonare".
Fece un sorriso tra il dolce e l'eccitato, mi abbracciò, mi bacio le guance, la fronte, la bocca e mi abbracciò di nuovo.
"E offro io", dissi fiera di me, "a meno che tu non cambi idea"
"Vedremo...", mi disse in tono ironico.
Restammo a guardarci in silenzio, uno stretto all'altro. Lorenzo si guardò intorno come a cercare qualche frase per rompere e il ghiaccio e mi chiese:
"Allora, dicevi che c'era dell'altro hummus, vero?"
Il menù senza limiti del venerdì sera è una tradizione da anni, per noi. Un rito che perdura da anni prima, da prima che stessimo insieme, quando ci si andava con tutta la compagnia.
Eravamo partiti come al solito: rilassati, eccitati per la cena e la serata che si prospettava; Lori era anche più eccitato di quanto non fossi io di solito, ma quella sera diedi la colpa alla confezione da quattro di Red Bull che si era fatto fuori durante la giornata, e le cinque (forse sei) tazze di caffè americano che aveva trangugiato tra un'esame da correggere e l'altro.
Lo sguardo da vampiro insonne che aveva appiccicato addosso pareva, se era possibile, ancora più malata e affamata di quanto non fosse di solito.
Non appena la giovane gestrice del ristorante arrivò raggiante e sorridente verso di noi tenendo due menù rilegati in cuoio stretti contro il petto, Lorenzo disse di colpo, quasi urlando:
"Per due! Un tavolo per due! Quello lì, il solito!", indicando il nostro tavolo, sotto il bassorilievo in legno di un monastero giapponese.
Con un certo imbarazzo la gestrice disse:
"Sono occupati, signori, ma c'è posto nel cortile"
"Non possono andarci loro in cortile?", chiese Lorenzo con una scortesia e un'agitazione che, di solito, non gli si addicevano.
"I due signori hanno chiesto un posto in sala, signore, ma in cortile ci sono posti a volontà"
"Vanno benissimo", intervenni prima che Lorenzo potesse essere più scortese.
Reggendo il sorriso a fatica, la ragazza ci accompagno nel cortile. Era un cortile splendido, umile, intimo, illuminato dalla luce fioca e tremolante delle braci fissate ai quattro angoli del pavimento.
Lorenzo sembrava non apprezzare comunque. Si sedette per primo, una novità rispetto alle volte in cui s'impegnava a tirarmi indietro alla sedia così che potessi accomodarmi.
Guardò il piatto con fastidio e delusione e senza staccare gli occhi dal piatto vuoto, strappò un menù dalle braccia della ragazza.
"E le nuvole di granchio?", chiese sfogliando il menù.
"Adesso vi portiamo subito l'aperitivo"
"Fresche, mi raccomando. L'ultima volta mi sembrava di mangiare un cartone vecchio"
"Non c'è motivo di essere così scortesi", bisbigliai irritata.
"Suppongo non ci sarà nemmeno bisogno di chiamare l'ispettore sanitario, allora".
La ragazza rimase a guardarlo, stupita del nuovo comportamento di Lorenzo. Fece un cenno con la testa, ci mostrò un sorriso tirato e andò in sala a prenderci agli aperitivi.
Rimasi a guardarlo a bocca aperta, mentre lui sfogliava il menù tenendo il broncio.
Mantenni lo sguardo, in attesa che cominciasse a sentirsi osservato. Non ottenendo una reazione, diedi un colpo di tosse.
Lorenzo alzò gli occhi dal menù e mi guardò con impazienza.
"Che cazzo c'hai?", gli chiesi.
"Ho fame."
"Perché sei così scortese? Ci conoscono qua"
"Ho fame", disse scandendo parola per parola.
La ragazza arrivò con le nuvole di granchio e due bicchierini di ginger. Appoggiò il piatto e i bicchieri, ci sorrise in uno sforzo disumano di cortesia e fece per andarsene quando Lorenzo sbottò:
"Aspetta. Ordiniamo."
Gli feci notare che non avevo ancora aperto il menù, ma m'interruppe dicendo:
"Tanto prendiamo sempre le stesse cose."
Non me la sentii di dirgli niente. Aveva ragione, ho sempre voglia delle solite cose.
Io e la ragazza lo guardammo come si poteva guardare un alcolista in crisi di astinenza.
La ragazza tirò fuori penna e blocco dal grembiule e disse:
"Ditemi..."
"Allora...", iniziai, "Un misto di antipasti caldi..."
"Due menù senza limiti", m'interruppe, "precisiamo..."
Ordinai il solito: gli antipasti misti caldi, gli spaghetti ai frutti di mare dei sashimi misti.
Lui ordinò lo stesso, aggiungendoci il pollo alle mandorle, gamberetti di bamboo e funghi, riso alla cantonese, i gamberoni in salsa curry, spiedini di pollo in salsa teriyaki, maiale in salsa agrodolce, polpette thailandesi, involtini alla thailandese, spaghetti alla thailandese, risotto con sashimi di salmone e tonno, tempura, sushi con tempura, un barcone di sushi misto, zuppa di miso, gelato fritto, gelato di ceci e grappa alle rose.
I camerieri ci portarono tutto, convinti che avremmo diviso quel banchetto, o che avremmo spiluccato un pochino uno dal piatto dell'altro, giusto per assaggiare.
Inutile dirvi che ogni volta che chiedevo un boccone di qualcosa che m'incuriosiva, lui mi guardava come se gli chiedessi di assaggiare un pezzo della sua gamba, o di un braccio o un pezzettino del suo occhio.
Di tanto in tanto gli capitava di gettare un occhio su una coppia seduta al tavolo di fianco. Erano grassi, enormi, talmente grassi che a ogni morso, risata e addirittura quando si piegavano a prendere la forchetta, la pappagorgia sotto il mento si agitava come un enorme budino.
Li guardava con un misto di terrore e disgusto, mangiando con più voracità a ogni occhiata furtiva.
Cercai di deviare la serata su altri lidi. Parlai di lavoro, di cosa mi era successo in facoltà, gli chiesi se avevamo per caso degli studenti in comune, visto che certi studenti non sembravano avere alcuna difficoltà a interpretare in russo alcune delle poesie lasciate a lezione.
La coppia di fianco a noi se ne andò, lasciando parecchi avanzi tra tonno, sushi e altri piatti ancora fumanti.
Il giovane cameriere si precipito a testa bassa a sparecchiare la tavola con movimenti rapidi e meccanici, come un'automa, quando Lorenzo lo fermò all'improvviso.
"Ehi! Ehi, scusa!", gridò alzando la mano e pulendosi la bocca, "Li porti via quelli?"
Il ragazzo guardò prima lui e poi la gestrice alla cassa con fare interrogativo e lievemente spaventato.
"Porta qua! Dai!".
La gestrice, sconsolata, fece cenno di si con la testa, e il ragazzo portò gli avanzi in tavola, cercando di ignorarmi mentre mi infilavi i capelli tra le dita,, nervosa e sorridente, cercando di dissimulare l'imbarazzo.
Non fece in tempo ad appoggiare i piatti che Lori si avventò sul pollo con mandorle e latte.
Assomigliava a un cane idrofobo, con tutto il latte che gli colava e gorgogliava tra le labbra e lo sguardo da folle.
Esaurì la pazienza, tirai fuori il portafoglio e feci per andarmene.
Lorenzo mi chiamò, sputando il pollo masticato nel piatto per liberare la bocca, mi prese per un braccio e con aria preoccupata mi chiese di restare.
Quegli occhi a palla... certe volte, potevano spaventarti tanto da farti promettere di dormire con un coltello sotto il cuscino e un occhio aperto, e altre volte t'intenerivano a tal punto che non potevi rimproverargli niente, nemmeno abbuffarsi tanto da poter disgustare un bambinetto del Biafra.
Cercai comunque d'impormi e mi sedetti mal volentieri, mi versai un bicchiere di bianco e lo guardai con sguardo deciso, il solito, quello da maestrina.
Scoppiò a piangere tenendo tra le dita uno spiedino di pollo, sbavando e lamentandosi come un cagnolino, ma non senza smettere di mangiare né di sbavare.
Tra un piagnisteo e l'altro mi sembrava di averli sentito sussurrare "curami", ma non ne fui tanto sicura...
Il massimo che potei fare fu allungarmi per prendergli la mani, accarezzarlo e chiederli se volesse tornare a casa.
Mi guardò imbarazzato e mi chiese:
"Prendiamo un ultima cosa? L'ultima, davvero...".
Feci per chiedere un menù, ma Lorenzo mi fermò e chiese:
"Delle chele di granchio e poi... abbiamo finito", chiese con un sorriso timido e dolce.
Il cameriere fece un cenno affermativo carico di sollievo e corse in cucina.
Passò qualche minuto, in cui Lorenzo si asciugò le lacrime e cercò di ricomporsi, quando tornò il cameriere. Biascicò qualcosa d'incomprensibile. Vedendo i nostri sguardi interrogativi, riprese e ripeté scandendo parola per parola:
"Abbiamo finito le chele di granchio, signori"
Il viso di Lorenzo si fece rigido tutto d'un colpo.
"Che vuol dire che le avete finite?"
"Le abbiamo finite, signori. Molta gente li vuole..."
"Fottiti, quelli cosa sono?", chiese Lorenzo indicando l'acquario dentro cui nuotavano un paio di granchi.
"Non si mangiano quelli, signore. Sono per bellezza."
Lorenzo fece per alzarsi, ma li misi una mano sul braccio per farlo tornare a sedere.
"Fa nulla, ci porti il conto per favore."
Lorenzo rimase seduto, rigido, a guardarsi intorno infastidito, sbuffando come un cane rabbioso. Poi, scrutando la sala ormai vuota in cerca di qualcosa da rubare e sgranocchiare, i suoi occhi incontrarono i miei, ed ecco che fece ritorno quell'alone di senso di colpa.
Sorrise debolmente e con un cenno della testa suggerì di alzarsi e dirigersi verso la cassa per pagare.
Passando davanti all'acquario, guardò i granchi con sguardo carico di sfida e disprezzo. Aprì il portafoglio e mi lasciò la carta di credito, dicendo di aver dimenticato la giacca sulla sedia.
Passò qualche secondo, e un fracasso di urla, acqua, sedie che cadono e vetri rotti esplose dietro di me.
Trovai Lorenzo con entrambe le braccia affondate nell'armadio, circondato da tre camerieri che cercavano di tirarlo fuori da lì. Cercarono di trattenerlo più che poterono, ma Lori riusci a spingerli via con una sola poderosa spallata.
Afferrò uno dei granchi, orse in fondo alla sala e si rannicchiò in un angolino tenendolo stretto al petto. Guardò il granchio intensamente, stringendolo tra le mani e con un grido animalesco, fece pressione con le dita fino a stritolarlo e prese a succhiarne la polpa che colava tra le spaccature della corazza, prima i cuochi e la moglie della proprietaria lo raggiungessero per riempirlo di botte.
La situazione peggiorò ulteriormente nel corso delle settimane successive.
In soli quattordici giorni, Lorenzo ingrassò di una trentina di chili, superando i limiti fisici del suo corpo.
Mangiare e riempirsi la pancia fino a farsi piegare in due dai crampi era diventato lo scopo della sua giornata, della sua giornata, la prima cosa da fare appena aperti gli occhi, l'ultima cosa da fare prima di chiuderli.
Non gli stava più una sola camicia, i pantaloni si chiudevano con fatica, lasciandogli lunghi solchi profondi e rossi intorno alla vita.
Si vergognava ad uscire di casa, evitava qualunque contatto esterno (fatta eccezione dello speedy pizza). Ero rimasto il suo unico contatto con la realtà, con cui comunicava solo per poter piangere e e lamentarsi della sua dipendenza, della sua fame insaziabile. Stanco di vedere i vestiti esplodergli sopra la pelle, cominciò a girare nudo per casa.
A ogni passo stanco e pesante, piccole onde di carne si formavano da sotto la pancia e si allargavano lungo tutto il corpo, sparendo e infrangendosi sotto i rotoli.
Un budino di carne parlante e col volto rigato di lacrime aveva invaso casa mia.
Non voglio sentire commenti sul quanto sia stata insensibile e superficiale ad averlo lasciato da solo in quello stato.
Come ho già detto, amavo il mio fidanzato e lo avevo perso, e anche se potrei capire certe uscite come "dietro quei rotoloni di grasso c'era un uomo che chiedeva il tuo aiuto", vi ignorerei.
Non c'era più il mio uomo là sotto, se n'era andato, affogato in un mare di carne e cibi precotti. Non volevo essere complice del suo suicidio, dovevo sopravvivere.
"Così mi uccidi!", urlo con la voce goffa e grassa, adagiato sul divano con le labbra scintillanti di unto rossastro.
"Sei già impazzito, e tu stai uccidendo me!", gli risposi tra le lacrime.
Sono stata anche troppo buona a nutrirlo, a veder sparire la spesa di una settimana in una manciata di ore.
Vederlo rubare il cibo dalla ciotola di Dostoevskij fu l'ultima goccia.
Me ne andai in fretta e furia, promettendogli che sarei ritornata nel giro di un paio di giorni per riprendere la mia roba, il mio cane e portando con me il numero di uno psicologo, o di un dietologo, insomma, chiunque potesse minimamente aiutarlo.
Mi rifugiai da mia madre per una decina di giorni. Volli piangere, ci provai, ma quella sensazione di sollievo, di essere uscita da qualcosa che poteva trasformarsi in un incubo, prevaleva su tutto.
Mantenni la promessa e poco giorni dopo andai a riprendermi Dostoevskij.
Aprì, preparandomi in testa l'immagine di una casa ridotta a un tugurio, con cibo e scatolette vuote per terra, piani cottura incrostati di unto e ditate di salsa sui muri, ma la trovai quasi più pulita dell'ultima volta che ci passai la notte, a parte, ovviamente, per quell'odore nauseabondo che rendeva l'aria irrespirabile.
Feci due passi all'interno dell'appartamento, chiusi la porta alle mie spalle (lasciandomi anche spaventare dal botto della porta blindata, come una scema...) e chiamai prima Lorenzo e poi Dostoevskij.
La voce mi tremava, un po' perché trattenevo il fiato, un po' per l'atmosfera lugubre che regnava in casa.
Aveva abbassato tutte le tapparelle, lasciando che pochi spiragli di luce passassero attraverso le fessure, lasciano l'appartamento in una penombra che mi ricordava quella dei film dell'orrore, e quell'odore di marcio e decomposta di certo non aiutava.
Cominciai a muovermi lentamente, guardandomi intorno con la coda dell'occhio. Prima la cucina, con i piatti di plastica sporchi di sugo lasciati sul tavolo ad ammucchiarsi.
Mi accorsi di respirare con affanno e cercai di calmarmi. Man mano che mi avvicinavo al bagno, l'odore di marcio si facevo più intenso e pungente.
Ad esso si mescolava un altro odore, simile a quello del pelo bagnato di Dostoevskij di quando gli facevo il bagno.
La luce del bagno filtrava da sotto la porta, illuminando il tappeto di lattine accartocciate di Red Bull che ricopriva il pavimento del corridoio.
Mi tolsi le scarpe ed entrai in corridoio, scalciando e pestando le lattine per potermi fare strada.
Da dietro la porta arrivavano diversi suoni confusi, a volte simili a qualcosa che veniva strappato con violenza, altre volte di qualcuno che masticava qualcosa di molle e viscido.
Quando mi trovai a qualche metro dalla porta, allungai il braccio verso la maniglia. Non mi accorsi nemmeno di quanto stavo tremando. La mia testa si era completamente svuotata, c'era solo il corridoio e la la luce debole del bagno nella mia testa, nient'altro.
Non mi fermai nemmeno ad immaginare quello che avrei potuto trovare là dietro.
Un minuto primo ero a camminare furtiva nel corridoio di casa mia, e quello dopo mi trovavo davanti al mio vecchio bagno, tutto impiastricciato di sangue rappreso, con al centro il mio ragazzo, piegato sopra il corpo squarciato del mio labrador con la bocca piena delle sue interiora.
Qualcosa mi esplose in gola e senza nemmeno accorgermene, come se stessi vedendo il tutto come una spettatrice passiva, mi ritrovai ad urlare:
"Dostoevskij!"
Lorenzo si voltò di scatto verso di me, grugnendo e stringendo l'intestino di Dostoevskij tra i denti come un cane rabbioso. Bisbigliai il suo nome, e i suoi occhi s'intristirono di colpo, carichi di vergogna.
Strisciò con le ginocchia nella confusione di sangue e viscere sul pavimento. Circumnavigò la carcassa di Dostoevskij e si raggomitolò contro il muro.
Magro com'era, sembrava ancora più fragile e impaurito. Le guance scavate, gli zigomi sporgenti e le occhiaie profonde e nere conferivano ai suoi occhi una luce più allucinata, fuori da ogni logica umana.
Continuava a sussurrare: "Mi dispiace. Mi dispiace tanto", rivolgendo verso di me gli occhi a palla.
Rimasi sulla soglia, immobile a lasciare che quella scena mi restasse impressa nella testa. Cos'altro avrei potuto fare? Sicuramente non avrei potuto salvare il mio Dostoevskij. Chiamare la polizia riuscì a passarmi nemmeno per l'anticamera del cervello, non in quel momento. .
"C'ho provato", continuò a sussurrare dondolando come un ossesso e guardando nel vuoto, "C'ho provato ma evidentemente non era abbastanza, Tesoro. Non era abbastanza, non era abbastanza".
Smise di dondolare di colpo, e cominciò a tossire talmente forte che mi pareva di vedere il suo sterno pulsare fino a lacerargli la pelle e scivolare via.
Si piegò, si mise a quattro zampe e continuò a sputare a tossire, sempre più forte, con urla e grugniti animaleschi che rimbombavano nella stanza.
Alla fine, il suo sterno si mosse davvero, scricchiolando, emettendo un "click" sonoro e orripilante. La pelle si squarciò ai lati dello sterno e il sangue cominciò a zampillare dalle ferite.
Il suo collo si gonfiò, e Lorenzo s'irrigidì di colpo con la bocca spalancata verso il soffitto. Le sue pupille azzurre sparirono, lasciando soltanto il bianco degli occhi, e delle stanghette sottili e marroni simili alle zampette di un insetto gli uscirono dalla bocca.
Prima uscirono fuori dritte, puntando verso la lampada del bagno, poi si piegarono ai lati della bocca e si appoggiarono a quel che era rimasto alle guance di Lorenzo, così da avere un appiglio abbastanza solido per spingere e far sbucare il resto del corpo.
Quello che giusto per darvi un'idea, chiamerò "il trilobite", uscì dalla sua bocca squarciandogli le guance da un orecchio all'altro e tagliandogli la testa in due, saltò in aria e atterro sulla carcassa in decomposizione del cane.
Il trilobite... quella cosa... rimase immobile a fissarmi per pochi attimi con i suoi occhietti neri e tondi, simili a quelli di un'aragosta, poi cominciò a contorcersi e a scuotere il corpicino per levarsi via il sangue da dosso.
Doveva essere lungo mezzo metro, ricoperto da una sorta di esoscheletro marrone, solido e lucente da cui sporgevano una decina di lunghe appendici simili alle zampette di uno scarafaggio.
Le antenne, lunghe quanto il corpo, puntavano dritte verso di me, andando freneticamente su e giù roteando nell'aria puntando. Girarono su se stesse un paio di volte e poi puntarono dritte e rigide verso di me.
La bestia scattò verso di me. Presi a correre, ma dopo pochi passi scivolai su una delle lattina accartocciate sul pavimenti.
Non feci in tempo ad alzarmi che quel coso mi piombò sulla schiena. Allungò le zampette e le strinse intorno alle costole, lacerandomi la pelle e i vestiti.
Gridai. Sentì come una scarica percorrermi tutta la schiena, scuotendo la spina dorsale e le costole. Persi il controllo delle mia braccia, le vidi agitarsi, disegnare ampi cerchi sul pavimento come se stessi nuotando, vidi le mie mani afferrare le lattine e lanciarle alle mie spalle nel disperato tentativo di colpirlo.
Le antenne continuavano ad andare su e giù, infilandosi tra i capelli, graffiandomi la testa.
Il trilobite cominciò a squittire, e le antenne presero a muoversi più velocemente. Tra uno squittio e l'altro della bestia, mi parve di sentire dei profondi sospiri affannati, simili a quelli di un essere umano.
Poi i sospiri si trasformarono in sussurro e quei suoni acutissimi cominciarono a prendere man mano la forma di parole chiare e comprensibili emesse da una voce che cercava di imitare quella di Lorenzo.
"C'ho provato", cominciò a sussurrare, "C'ho provato, ma non era abbastanza. Non era abbastanza."
Sentì un nodo alla gola. Strinsi gli occhi e li riaprì di scatto, convinta che fosse un incubo, ma il peso della bestia gravava ancora sulla mia schiena, e i suoi tentativi di imitare la voce di Lorenzo si facevano sempre più precisi e aderenti all'originale.
Presa dalla disperazione, appoggiai i palmi sul pavimento e, urlando e piangendo, spinsi via il trilobite, cogliendolo di sorpresa.
Non appena mi fui liberata, corsi via dal corridoio e mi fermai davanti al baule che avevamo comprato mesi prima in un mercatino dell'usato.
Rimasi imbambolata a fissarlo finché non sentì lo zampettare veloce del mostriciattolo alle mie spalle.
Spinsi via il baule dal muro, lo posizionai al centro del corridoio, lo aprì e ad aspettai dietro alla cassa, pronta alla attacco.
Quella schifezza non si fece attendere troppo. Strisciò veloce verso il baule, saltò stridendo verso di me e, non appena l'ebbi sotto tiro, chiusi il baule, tranciandolo a metà.
Rotta la sua corazza, quello che ne restava erano litri di pus giallognolo e grumoso spalmato sui muri, sul pavimento.
Mi accasciai stremata. Il baule si chiuse e quello che restava del trilobite scricchiolò sotto di esso.
Piansi e risi, in alternanza, fregandomene del pus che mi aveva imbrattato i capelli e i vestiti e che mi era finito in minime parti in bocca.
I carabinieri arrivarono in un oretta, allertati dai vicini che denunciarono un caso di violenza domestica.
Venni a sapere che la signora Cavalieri del terzo piano aveva chiamato le forze dell'ordine convinta che Lorenzo avesse preso a picchiare prima me e poi Dostoevskij, e che in seguito ci fu una colluttazione tra lui e il labrador.
Non me la sento di biasimarli troppo, il quadro non si discostava troppo dalla realtà, e in ogni caso non potevo negare, poiché le autorità hanno fatto pressioni perché tenessi questa come versione ufficiale.
Dopo aver vomitato a turno nella tromba delle scale, i due carabinieri chiamarono la centrale, cercando di descrivere con precisione e dovizia di particolare la scena che gli si parava davanti.
Altre due volanti e un paio di ambulanze arrivarono davanti al condominio a sirene spiegate, o almeno, quelle che credevo fossero due ambulanze.
Uno di questi era un furgone bianco. Quattro scienziati in tuta di plastica bianca e maschera antigas entrarono nell'appartamento, e si affrettarono a prelevare la carcassa del trilobite, vari campioni di pus e il cadavere di Lorenzo.
Quando la barella col suo cadavere passò, ebbi un attimo di lucidità in cui realizzai che il mio Lorenzo non c'era più e non c'era verso di farlo ritornare.
Mi sentì svuotata di colpo, piansi come una disperata. Può sembravi ipocrita, ma... insomma, c'è modo e modo di liberarsi di una persona, no?
Gli squarci lungo le guance formavano un sorriso raccapricciante, in perfetta sintonia con i suoi grandi occhi spalancati verso il nulla.
Mi cacciarono dal mio appartamento e mi misero in quarantena per un paio di notti.
Smisi di mangiare e di bere per una settimana, nutrendomi qualche volta di un paio di frutti e qualche sorso d'acqua quando mi trovavo al limite.
Nel frattempo, gli altri condomini ingrassarono di una ventina di chili in una settimana, così come la gente per strada, i miei colleghi, quelli della municipali, i commessi del mio ortofrutta e stessa cosa vale per me.
Finite le scorte nelle proprie case, la gente prese a rubare il cibo nelle case di loro vicini, e quando questo finiva nelle case altrui, allora arrivava il momento di gettarsi in strada, invadere i supermercati e scagliarsi sugli scaffali pestandosi l'uno con l'altro.
Caddi nello stesso stato di Lorenzo, e questo non mi aiuto di certo ad allontanare il dolore. Un paio di volte, ebbi l'impulso di riempire il vuoto lasciato da Lorenzo e Dostoevskij col cibo, scambiando gli attacchi di fame per depressione. Una fame e profonda e insaziabile mi prese alla gola. Il cibo mi faceva più o meno l'effetto dell'alcol o della morfina, un effetto anestetizzante in cui l'unica cosa che contava era saziare il mio appetito, riempire i vuoti e non lasciarvi passare nulla.
Un paio di volte mi ritrovai senza accorgermene davanti al frigorifero a mangiare a ingozzarmi di schifezze su schifezze, una dietro l'altra, senza nemmeno deglutire o fermarmi per assaporarne il gusto.
Perfino adesso mi viene l'impulso di gettarmi i cucina e rovistare nel frigorifero e, come al solito, finirò per piangere come una disperata, perché qualunque cosa mangerò, in una maniera o nell'altra, per lui non sarà mai abbastanza.
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- beh, cos'era un invasione di alieni
scritto bene, scorre 

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