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L'ultimo salto
A Barcellona, in Spagna, nell'estate del 1979 faceva molto caldo. Un'umidità asfissiante che non concedeva la minima tregua. L'unica speranza era che ogni tanto arrivasse un refolo di vento dal mare a rendere le giornate un po' più sopportabili. E anche il 22 Luglio non era da meno. Un giorno qualsiasi per tanti, ma non per un signore di quasi cinquant'anni. Li avrebbe compiuti due mesi più tardi. Infatti, aveva deciso che quel giorno, quel 22 Luglio 1979, sarebbe stato l'ultimo della sua tanto bella quanto dolorosa vita. Quell'uomo non ce la faceva più, aveva detto basta a quel male incurabile che lo stava divorando dentro. Basta a tutti quei sedativi che gli davano un sollievo temporaneo. Basta a quel cancro allo stomaco che gli era stato diagnosticato qualche tempo prima e che lo aveva inchiodato ad un letto dell'Hospital de la Santa Creu i Sant Pau. Così, aveva deciso di racimolare le ultime forze - il dolore era sempre forte - di alzarsi, di prendere la sedia che stava lì vicino e di andare verso la finestra. Era talmente debole che aveva difficoltà ad aprirla, dopo qualche sforzo ci era riuscito. Aveva appoggiato la sedia in modo da poterci salire sopra. In quel mentre, un soffio di aria calda e umida lo investiva, facendogli assaporare per l'ultima volta l'odore del mare. Aveva chiuso gli occhi e riempito i polmoni. Una volta riaperti, scrutava quella città, che lo aveva adottato negli ultimi vent'anni, nella quale aveva sperato di ritrovare quella serenità che da tempo ormai aveva perso. Nonostante la gente lo considerasse un mito, e lui in effetti lo era. Lo avevano visto segnare ben 42 gol in 75 partite con la maglia del prestigioso Barcellona. Addirittura pochi per uno come lui, che prima di trasferirsi li, era abituato a farne a valanghe. Perché lui era stato il grande attaccante dell'Aranycsapat, la cosiddetta Squadra d'Oro, quell'imbattibile Ungheria che dal 1950 al 1954 aveva fatto tremare tutto il mondo. Lui era il leggendario Sandor Kocsis.
Molto probabilmente in quegli ultimi frangenti, stava pensando che il destino era stato beffardo con lui, perché il suo declino era iniziato proprio nel mese di Luglio, ma di 25 anni prima. Per l'esattezza il 4 Luglio 1954, al momento del fischio finale di Germania Ovest-Ungheria. La partita che i giornalisti dell'epoca ribattezzarono "Il Miracolo di Berna".
In quell'anno in Svizzera si svolsero i Campionati mondiali di calcio. Le nazioni iscritte furono 16 tra cui i campioni in carica dell'Uruguay di Schiaffino e Borges, il fortissimo Brasile di Didì e Djalma Santos, l'Italia di Giampiero Boniperti, la Francia di Kopa, l'arrogante Inghilterra di Stanley Matthews, l'Austria di Probst e Stojaspal e la Germania Ovest, indecifrabile per i pronostici visto che non presentava dei grandi campioni. Ma queste squadre non erano le favorite per la vittoria finale, queste non erano altro che le possibili sfidanti dell'unica vera grande candidata alla conquista del trofeo: l'imbattibile Ungheria.
Quella squadra, infatti, non perdeva da ben ventotto partite, avendo collezionato 24 vittorie e solo 4 pareggi. Quell'incredibile ciclo iniziò a Varsavia in Polonia, dove gli ungheresi asfaltarono i padroni di casa per 5-2, il 4 giugno 1950. Addirittura quattro anni senza sconfitte! In quel periodo, la squadra magiara vinse un oro olimpico, con cinque vittorie in altrettanti incontri, realizzando la bellezza di 20 reti, subendone due appena, e la Coppa Internazionale, una specie di Campionato europeo riservato solamente alle nazioni dell'Europa Centrale, rifilando quattro gol alla Svizzera e tre all'Italia, le due altre favorite. Ma la soddisfazione maggiore, in quegli anni, fu sicuramente quella di diventare la prima squadra della storia a sconfiggere l'Inghilterra, che si vantava di essere la patria del calcio e di giocarlo meglio di tutti tanto da rifiutare di partecipare ai Mondiali fin lì organizzati per una convinta manifesta superiorità, in casa propria. A Londra, nello stadio di Wembley, il tempio del calcio, il 25 novembre 1953, gli ungheresi umiliarono i maestri inglesi 6-3, interrompendo il cosiddetto "Home record", l'imbattibilità casalinga dei britannici che durava da 90 anni. La superiorità fu talmente evidente, che il competente pubblico londinese applaudì a lungo lo squadrone magiaro, rendendo onore alle loro gesta, tanto da meritare da quella sera l'appellativo di Aranycsapat (in ungherese Squadra d'oro). L'Inghilterra chiese la rivincita convinta di potersi vendicare dello smacco subito. Ma il 23 Maggio 1954, a Budapest, la figura fu ancor più magra, visto che l'Ungheria si impose con un perentorio 7-1. Ennesima prova di forza che portò la squadra allenata dal geniale Gusztav Sebes ad avere obbligatoriamente i favori del pronostico alla vigilia del Mondiale svizzero.
La Squadra d'Oro era composta da veri campioni a partire dal portiere Gyula Grosics, detto Fekete Parduc (Pantera Nera), il primo della storia del calcio a giocare da difensore aggiunto viste le sue grandi doti nelle uscite e nel gioco con i piedi, una rarità in quegli anni. La difesa era sorretta da Jero Buzanszky, Gyula Lorànt e Mihaly Lantos. La coppia di centrocampo era formata dal mediano Jozsef Zakarias e da Jozsef Bozsik, il classico regista dall'ottima tecnica, eccellente visione di gioco e facilità nel fornire assist ai propri compagni. L'ala destra era Laszlo Budai, giocatore dotato di un buon dribbling e una discreta tecnica. Una volta letta la formazione fino a questo punto, si trattava di una buona squadra con qualche interessante individualità, ma il bello doveva ancora venire. La fase offensiva, infatti, era affidata a quattro giocatori che non avevano rivali in nessuna squadra al mondo. Club o nazionali che fossero. Con loro in campo i gol erano inevitabili. L'ala sinistra era Zoltan Czibor, immarcabile, di bassa statura, faceva della velocità palla al piede la sua caratteristica peculiare, saltava sempre l'avversario diretto e accentrandosi segnava parecchio. Ancor più fenomeni di lui erano le tre punte. Nandor Hidegkuti era l'unico a giocare in un ruolo effettivamente non suo. Infatti, era un centrocampista dotato di ottima tecnica, nulla più. Ma in una partita, contro la Svizzera, valevole per la Coppa Internazionale, l'Ungheria era sotto 2-0. A quel punto, il tecnico Sebes ebbe un'intuizione geniale e decise di spostarlo dal centro del campo in attacco. Il buon Nandor guardò stranito il suo allenatore, effettivamente come poteva giocare di punta lui, che innanzitutto non era un attaccante e inoltre era alto un metro e 76, di testa non avrebbe preso una palla. Ma Sebes, vecchia volpe, gli disse che doveva fare il finto centravanti, ovvero staccarsi dalla marcatura e giocare sulla trequarti, proprio nello spazio tra i centrocampisti e i difensori avversari. Fu una strategia illuminante perché Hidegkuti con questo movimento a rientrare per creare i varchi per le incursioni dei compagni, in apparenza paradossale perché un attaccante che invece di puntare la porta si portasse proprio nella direzione opposta arretrando fuori area non si era mai visto, fece la fortuna sua e di tutta la squadra, non solo in quella partita contro gli elvetici, vinta 4-2 in rimonta. E pure l'Inghilterra successivamente pagò a caro prezzo la libertà di azione concessa a questo grande giocatore. Negli spazi creati da Hidegkuti si infilavano a meraviglia i due campionissimi in attacco, le due bocche da fuoco per eccellenza, Ferenc Puskas e Sandor Kocsis. Il primo detto il Colonnello era l'elemento di maggior classe e carisma, giocava seconda punta ed era dotato di un tiro eccezionale, potente e preciso allo stesso tempo. E soprattutto non si era mai visto fino a quell'ora un giocatore di così immensa tecnica ma con una grande potenza fisica nonostante la bassa statura. Di certo il più forte giocatore di calcio che si fosse mai presentato su un campo da gioco. Il secondo, detto Testina d'oro, era il vero centravanti della squadra. Non era altissimo, 1 metro e 76, ma era formidabile nel gioco aereo, abilità che gli permise di segnare di testa metà dei propri gol e di guadagnarsi quel soprannome. Grazie alla reattività nel capire dove potesse arrivare il pallone crossato dai compagni, poteva anticipare i difensori avversari, certamente più robusti, lenti e goffi di lui. L'esplosività delle gambe e la notevole elevazione nel saltare contribuivano a renderlo immarcabile in area di rigore.
Il fatto che quasi tutti i giocatori provenissero dallo stesso club, l'Honved Budapest, contribuì ad amalgamare ulteriormente il gruppo, creando dei veri rapporti d'amicizia che andavano oltre l'essere semplici compagni di squadra. Il gioco era talmente fluido, si trovavano talmente a memoria, che più che una squadra di calcio, quell'Ungheria ricordava un'orchestra in cui ognuno sapeva cosa e come doveva fare, con quei solisti, esaltati dal sistema impeccabile di squadra, che liberavano quel talento e quella fantasia, così che risultava impossibile batterli.
Il primo turno del Mondiale rispettò fedelmente i pronostici. Anzi, l'Ungheria andò ben oltre. All'esordio, sconfisse la malcapitata Corea del Sud con un eloquente 9-0, con tripletta di Kocsis e doppietta di Puskas. La seconda partita, che doveva essere più complicata, contro la Germania Ovest, risultò tuttavia molto agevole, in quanto i tedeschi schierarono le riserve a sorpresa, in modo da non scoprire le proprie carte per il cammino futuro del torneo. In ogni caso fu un'altra prova di forza dei magiari che vinsero addirittura 8-3, con Sandor Kocsis a segno ben quattro volte. E per lui a referto c'erano già 7 gol in 2 partite, niente male. Alla fine passarono entrambe le compagini al turno successivo. La nota stonata fu l'infortunio alla caviglia occorso a Puskas, dovuto ad un folle intervento in scivolata di un difensore tedesco, che lo costrinse a saltare i due impegni successivi. Negli altri gironi le uniche sorprese arrivarono dalle eliminazioni di Italia e Francia. Nei quarti di finale, la sfida di maggior fascino era senza dubbio quella tra il Brasile e l'Aranycsapat, le due più accreditate alla conquista del trofeo. La partita fu durissima, i sudamericani volevano vendicare la clamorosa sconfitta nella finale del Mondiale casalingo di quattro anni prima patita contro l'Uruguay, l'ormai celebre O' Maracanaço (Disastro al Maracanà), e quindi diedero sfogo a tutta la loro rabbia. Quando la palla si trovava tra i piedi dei giocatori ungheresi partiva una specie di caccia all'uomo, con falli, spintoni e scorrettezze di vario genere. Più che una partita di calcio sembrava una corrida. L'Ungheria si impose per 4-2, con grande fatica soprattutto dal punto di vista fisico, con le botte subite sia durante che dopo la gara, per lo scoppio di una rissa a causa del troppo nervosismo, con tanto di cazzotti e bottigliate in testa. Neanche a dirlo, la vittoria fu suggellata dalla doppietta di Kocsis. Le altre nazionali vittoriose furono la Germania Ovest, l'Austria e l'Uruguay. E proprio la Celeste era il prossimo avversario dello squadrone magiaro in semifinale. Era la sfida più attesa di tutto il Mondiale, perchè poneva di fronte i campioni in carica a quelli futuri con tutta probabilità. Fu una grande partita, giocata in modo eccellente da entrambe le squadre. Sotto una pioggia torrenziale, allo stadio di Losanna, si stava compiendo la miglior partita che un campionato mondiale avesse mai presentato. Occasioni da entrambe le parti, gioco pulito e corretto, al contrario della sfida con il Brasile. A un quarto d'ora dalla fine, l'Ungheria conduceva 2-0 grazie alle reti di Czibor e Hidegkuti, ma l'orgoglio intramontabile degli uruguaiani riportò la gara in parità con la doppietta di Hohberg, con il secondo gol segnato solamente a quattro minuti dal novantesimo. E addirittura nell'ultimo minuto, Schiaffino scoccò un tiro angolatissimo che Grosics non poteva parare. Sembrava fatta per l'Uruguay ma ci pensò una pozzanghera, a pochi centimetri dalla linea di porta, a bloccare il pallone, impedendogli di entrare. Nei tempi supplementari, con i giocatori ormai allo stremo, Sandor Kocsis firmò la doppietta che consentì agli ungheresi di qualificarsi alla finale. I protagonisti di entrambe le fila uscirono abbracciati dal campo, consapevoli di aver regalato ai presenti uno spettacolo di inestimabile valore calcistico. La finale venne raggiunta anche dalla Germania Ovest che annientò l'Austria con un tennistico 6-1. Per l'Aranycsapat, dopo aver eliminato gli squadroni sudamericani, sembrava un gioco da ragazzi battere i tedeschi, visto che in girone furono sconfitti sonoramente. Il 4 Luglio 1954 alle ore 17 l'arbitro, l'inglese Ling, fischiò l'inizio di Ungheria-Germania Ovest. Come d'aspettativa, gli uomini di Sebes, che schierarono Toth al posto di Balai e un Puskas in cattive condizioni fisiche, partirono subito all'attacco e al sesto minuto erano già in vantaggio con il gol del "Colonnello". Addirittura due minuti dopo Czibor raddoppiò. Sembrava già finita, avanti di due reti l'Ungheria sembrava irraggiungibile, come avrebbe potuto ormai perdere quella squadra capace di segnare 25 gol in appena 4 partite fin lì giocate? Ma le battaglie con Brasile e Uruguay si fecero sentire, la stanchezza sia fisica che mentale investì gli ungheresi che subirono le reti di Morlock e Rahn nel primo tempo. La pioggia inoltre, tanto auspicata dai tedeschi, rese il terreno di gioco pesantissimo, tanto che limitò la tecnica sopraffina dei magiari, favorendo il gioco duro dei teutonici. Nonostante la forma fisica in costante peggioramento, l'Ungheria attaccò per tutto il secondo tempo trovando nel portiere Toni Turek e nella sfortuna due baluardi insuperabili. Notevoli furono le parate dell'estremo difensore tedesco e numerosi furono i pali e le traverse colpite. Le occasioni da rete furono molteplici e la scarsa lucidità portò a sprecarne alcune veramente clamorose. E come negli incubi peggiori all'ottantaquattresimo minuto, Helmut Rahn, la veloce ala ambidestra della Germania Ovest, prese palla sulla trequarti, s'accentrò e lasciò partire un tiro nell'angolo più distante che si insaccò alla destra dell'incolpevole Grosics. Gli ungheresi, increduli, non ebbero le forze per reagire e dovettero alzare bandiera bianca. Dopo 32 partite consecutive senza conoscere l'onta della sconfitta, corredate da 28 vittorie, la Squadra d'Oro venne sconfitta nella sfida più importante, la finale del Mondiale di calcio. Da quel giorno, l'evento venne ricordato come Il Miracolo di Berna.
Sandor Kocsis ripensava a quella finale, a quel gol di Rahn a sei minuti dalla fine, a quella traversa presa nel secondo tempo sul punteggio di 2-2 che poteva regalare il titolo ai suoi. Ripensava a quanto fossero risultati inutili gli 11 gol che aveva messo a segno. Gli interessava poco il titolo di capocannoniere del Mondiale se poi la coppa l'avevano alzata gli avversari.
E sicuramente ripensava a come gli avvenimenti precipitarono negli anni successivi a quella partita. Nel 1956 l'Ungheria, la sua patria, venne invasa dall'Unione Sovietica. E lui fu costretto ad espatriare in qualche modo in Svizzera e come lui quasi tutti i suoi compagni di Nazionale che non riuscì più a rivedere. Si ritrovò di colpo senza soldi, senza lavoro, una leggenda vivente del calcio lasciata in clandestinità. Furono anni difficili, la depressione lo portò all'abuso di alcol e di barbiturici.
Che strano il destino, ripensandoci, Sandor avrebbe potuto farla finita già vent'anni prima, ma solo l'amore per la moglie Alice e la figlioletta Agnese lo convinsero a riprovare a ricostruirsi una vita. Barcellona, nel 1958, gli diede questa possibilità, questa seconda vita calcistica. Ma più passava il tempo e più si sentiva morire dentro, nonostante i numerosi successi sportivi con i blaugrana. Lui non si sentiva più quel grande giocatore di qualche anno prima. Gli mancava la sua nazione, la sua Budapest che sembrava averlo dimenticato. Gli mancavano i suoi compagni di squadra, praticamente dei fratelli, ormai sparsi per l'Europa. Quella grande e incompiuta Ungheria, smantellata sul più bello, viveva ormai solo nei ricordi.
E prima di quell'ultimo salto, non più in alto per colpire la palla di testa prima dell'avversario come solo lui sapeva fare, ma in basso, nel vuoto, Sandor Kocsis si era convinto che era morto già il 4 Luglio 1954.
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1 recensioni:
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- La storia di Kocsis "testina d'oro" la sua grandezza e la inesorabile parabola discendente comune a tanti altri campioni dell'epoca (Skoglund e Garrincha fra gli altri) e della mitica Ungheria: un modo diverso epocale di intendere il calcio anche se, a mio giudizio, gli interpreti erano superiori all'idea tattica. Una racconto che hai fatto bene a ricordare. Complimenti.
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