Il neon emetteva dei sinistri bagliori intermittenti, creando un curioso effetto psichedelico che lo stava letteralmente facendo impazzire. E quel ronzio, poi, come se un'immensa zanzara gli volteggiasse nel cervello, alla disperata ricerca di una via d'uscita.
Sudava copiosamente, il cuore stava lentamente riacquisendo il suo ritmo normale, ma respirava ancora con affanno. Giaceva così, in mezzo alla stanza, le mani sulle ginocchia, boccheggiante, nel vano tentativo di recuperare le forze. L'odore acre, tipico di ambienti scarsamente areati come quello, penetrava dalle narici fin dentro i polmoni, provocandogli degli sporadici spasmi.
Avrebbe dovuto fuggire, ma le gambe avevano improvvisamente perso gran parte della loro agilità. Una goccia di sudore gli percorse lentamente la fronte, scivolò rapida sul naso fin sulla guancia, poi spiccò un audace salto verso il pavimento, tuffandosi in mezzo a una pozza di sangue ancora fresco. La mano destra reggeva il coltello, tanto forte che le unghie erano diventate più bianche della neve appena caduta. Un tempo quel coltello aveva affettato tacchini o aperto bottiglie di raffinato spumante: nessuno poteva immaginare che un giorno sarebbe servito per uccidere un uomo.
L'oscurità, ferita di tanto in tanto dalla fredda luce del neon, lo avvolgeva come un sudario. Dalle tenebre, un ragazzino lo fissava ansimare. Avrà avuto tredici anni. Ostentava un portamento serio, impettito, sebbene nei suoi occhi brillasse quella vivace scintilla che solo un adolescente può avere. Indossava un elegante vestito grigio. Grigio, come la foto che lo ritraeva. La guardò, e rise amaramente tra sé: suo fratello, eternamente giovane in quello scatto di non molti anni prima, era l'unico testimone di quell'assurdo omicidio.
Cominciò a piangere: lacrime, sudore e sangue, gli ingredienti della disperazione. Per un attimo gli sembrò che la stanza gemesse con lui, ma chissà, forse era semplicemente la sua immaginazione. Il fratello lo osservava ancora, fiero, elegante, felice. E morto. Sedette di schianto, improvvisamente abbandonato da ogni sorta di forza. Cadde sulla pozza di sangue, qualche schizzo si levò in aria, uno di essi macchiò la foto, disegnando sulla faccia del ragazzino un'inquietante lacrima rossa. Ma lui non la vide, un po' per colpa del buio, un po' perché la sua mente era altrove.
A tre anni prima, precisamente. Charlie, si chiamava. Aveva sempre sofferto d'asma, suo fratello. Anche quella sera di tanto tempo fa' aveva avuto un attacco. Mentre Charlie soffocava, lui tentava di convincere il padre che NON stava fingendo, che non era come quella volta dalla zia Sara, che questa volta era VERO, dannazione, ed era grave, e bisognava chiamare l'ospedale, e piangeva mentre lo diceva, mentre lo gridava. Poi Charlie aveva improvvisamente smesso di dimenarsi. Non era propriamente svenuto, era come se si fosse afflosciato. La testa gli era caduta nel piatto della minestra, comico epilogo di una tragica morte.
Prima la madre, poi il fratello. Con lei ci aveva pensato il cancro. Poi era stato il padre, con la sua testardaggine, la sua leggerezza, la sua insensibilità, a portargli via anche il fratello. Ci aveva provato a perdonarlo, seriamente. Ma non sempre le buone intenzioni preludono a un lieto fine. Con estrema difficoltà si alzò, fissò ancora una volta il quadro, si soffermò quindi sul corpo esanime, disteso a terra, a pancia sotto. "Scusa, papà" disse, con voce tremante. Poi, ancora piangendo, corse via.