La villa Cordova è il piccolo parco della mia infanzia, quello dove mia madre mi portava a giocare sulle giostre e dove mio padre mi comprava, nei giorni della festa dell'Unità, il panino con la quaglia (che se non stavo attento rischiavo di morire soffocato a causa degli ossicini).
Adesso è solo un luogo sinistro popolato da gente scura e annoiata, curdi, somali, disoccupati, un luogo dove piccole donne rumene portano a spasso chihuahua malinconici. Le giostre sono scomparse e anche il campetto di bocce dove mio padre andava a giocare.
La mia piccola città, come tutte le città dell'anima, nasconde strati su strati, simile alle pareti delle vecchie stanze dove sotto la carta da parati a fiori si cela uno strato di vernice azzurra e sotto ancora c'è muffa o ruggine. Ricordo quando il servizio degli autobus era efficiente e florido, adesso è raro veder circolare un'autobus e i pochissimi in giro somigliano a piccoli furgoni dove c'è spazio solo per cinque o sei persone.
Eppure, a guardarla dall'esterno sembra ancora la stessa città: il bizzarro cimitero a destra, i vari quartieri disposti su più livelli, le colline e l'antenna RAI che con i suoi 286 metri di altezza detiene ancora il primato della struttura più alta in Italia. Ricordo che da bambino avrei voluto salire sulla cima di quella nostra Tour Eiffel, chissà come mi sarebbe apparsa la città, cosa avrebbero svelato le sue strade, la sua gente pettegola.