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Dimmi che ti batte ancora forte il cuore
Era attaccato alla rete e guardava con quegli occhioni sbarrati. Nell'età che lo sguardo sembra voler catturare il mondo, insaziabile di novità, mentre la meraviglia registra avida ogni momento. Osservava quei corpi dalla pelle scura. Gli uomini dall'espressione persa nel nulla; le donne attente a piccole faccende; i bambini a giocare con niente. E quelle case, così squadrate e spoglie. Come anonime scatole. L'uomo gli si avvicinò, posandogli la mano sulla testa. Gli accarezzò i capelli. Nell'aria c'era una leggera brezza e un forte profumo di mare.
- Babbo, cos' hanno fatto quelle persone?
- Niente...
- E allora perché stanno chiusi lì dentro? Sono in prigione?
- In un certo senso...
- E noi perché siamo liberi? Siamo più bravi?
- No, Andrea, solo più fortunati.
Camminavo trasognato e senza meta sulla battigia. Soffiava vento caldo da sud. Scirocco credo. E portava con sè polvere d'Africa. Di tanto in tanto mi entrava negli occhi. Così da scuotere la mente dal torpore che la imprigionava. E mi diceva parole conosciute. Disperate. Parole di rabbia. Tentavo di scacciarle, pensando ad altro. Invano. Loro tornavano insistenti a soffiare. E pensavo all'età della mia disperazione. Della mia rabbia. Quando nessuno sembrava ascoltarmi. E allora mi dicevo: chissà come sarà laggiù, a due passi da noi. Così lontano dagli occhi. Non hanno anche loro diritto di sedersi al banchetto del mondo? Basta stringersi un po': si trova posto per tutti. E, in ogni caso, ne vantano il diritto. Lo reclamano a gran voce ormai. E intanto gli occhi s'inumidivano. Ma resistevo. Tentavo di allontanare quei suoni. Non pensarci, mi dicevo... è solo polvere d'Africa.
Non erano più gli anni della Milano da bere. Dei socialisti che mangiavano a quattro palmenti. Che arraffavano tutto quello che gli capitava a tiro. Quando il Cavaliere tesseva le sue sordide trame di potere. Avevamo già scollinato da un po' nel nuovo secolo.
La sala riunioni era in penombra. Eravamo soli: Il presidente della megacompany ed io, direttore creativo per legittima difesa.
- Mi interessa il suo punto di vista. Cosa ne direbbe se togliessimo un po' di olio d'oliva e lasciassimo inalterato il prezzo... l'aspetto sarebbe lo stesso... sa, i costi salgono.
Fottiti, pensavo, cosa ne diresti se ti togliessimo una palla. Il tuo aspetto rimarrebbe inalterato. O se... se eliminassimo la ruota di scorta della tua prossima Jaguar. Così, per non ritoccare il listino?
- Perché, vede, altrimenti non rimane che aumentare il prezzo. Ma poi le vendite... la quota di mercato...
Si fottano anche loro. Le vendite e i venditori. E pure il mercato! Poi mi assalì il pensiero del mio stipendio e a malincuore bofonchiai, un po' rosso in volto.
- Presidente, non saprei... io lascerei stare l'olio e cercherei di tenere invariato il prezzo. Mi accollerei, volevo dire, cercherei di assorbire l'aumento. Perché impoverire il prodotto? Imbrogliare il consumatore? A forza di togliere se ne accorgerà, e allora... altro che quota!
Avrei dovuto mordermi la lingua: non sono tagliato per il marketing. E a malapena riesco a nascondere i sentimenti.
Era sconvolto. Letteralmente. Eppure quella cosa la doveva fare a tutti i costi, ma non riusciva a decidersi. Erano già due giorni che rimandava. Batti il ferro finché è caldo, si diceva. Chi ha tempo non aspetti tempo, lo incalzava fin da bambino il pressante adagio. Non rimandare a domani quello che potresti fare oggi, gli suggeriva saggia l'età della ragione. Poi le budella s'intorcigliavano, la pancia cominciava a borbottare, una mano lo afferrava alla gola e gli toglieva il respiro.
Non poteva andare avanti così. Aveva pure smesso di mangiare. S'era dato una scadenza: quella mattina o mai più. L'ora X stava per scoccare. Fece due passi nel corridoio, infilò la testa dentro un ufficio, a caso, salutò con aria ridanciana e gioviale - un po' sopra tono - le due ragazze, e se ne uscì mentre le gambe stavano per cedere. Inspirò profondamente, il pancreas ebbe uno spasmo, trattenuto a stento da un diaframma rigido come stoccafisso. Un nervo cominciò a ticchettare ritmicamente sulla guancia che pareva un isterico telegrafo. La palpebra a pulsare. Il cuore batteva a più non posso. Adesso ostruiva la gola. Come una sfera di chewing-gum risucchiata all'improvviso. Prese la cornetta, compose il numero, e aspettò. Il punto di non ritorno era superato ormai. Sembravano attimi interminabili. Poi, finalmente, una voce femminile.
- Pronto? chi parla?
-... ciao... sono io... l'altra sera non avevi detto che... ecco è il mio caso... cosa ne diresti se ci vedessimo?
Lei fece un risolino.
- Va bene. Vediamo... facciamo domani sera?
Cazzo, era fatta, aveva preso la decisione giusta. La decisione della sua vita.
Fissava quella bocca. Resa oscena dalle parole che vomitava senza vergogna. Quegli occhi spiritati. Da fatto fino al collo. Ascoltava quel tono che non aveva nulla di umano. Così meccanico, ripetitivo, incalzante, e aggressivo. Che distruggeva ogni cosa al suo passaggio. Stava lì che sembrava annientato, davanti alla tivù. Era solo un attimo di disorientamento, in cui la mente subiva quell'attacco, brutalizzata da quelle argomentazioni che suonavano cosi palesemente false. E per questo così offensive. Anche per una modesta intelligenza come la sua. E mentre cercava di non soccombere sotto quei colpi pesanti come un maglio, il sangue ribolliva.
Poi, via via, il cuore recuperava e adesso, passato al contrattacco, sembrava gridare al piccolo schermo tutta la sua indignazione. La vita ormai agli sgoccioli, tutte le sofferenze patite, tutte le esperienze vissute, invece di dargli la calma dei forti, lo agitavano e nutrivano di rabbia. Le rughe del viso si erano fatte profonde come i solchi di quel terreno appena arato, là fuori, nell'umida e faticosa campagna. Gli occhi lanciavano bagliori di fuoco. No, non si sarebbe arreso. Al dunque, sarebbe salito in soffitta, avrebbe srotolato quel lungo fagotto, e armato il vecchio Carcano 91. Pronto a unirsi a chi, come lui, non era disposto a tollerare più le bugie, le angherie, gli insulti, i continui attentati al suo buonsenso e ai pochi giorni rimasti. Non poteva aver lottato invano. Permettere che una manica di farabutti imbroglioni si facesse beffe della gente come lui e del Paese per cui aveva combattuto. Per quella libertà alla quale tanti avevano sacrificato la vita. C'era un limite a tutto. No. Avrebbe preferito morire con la sua arma in pugno. Per davvero! Non come diceva quel demente, con la lingua fuori e la bocca mezza tòrta, che faceva voce grossa e minacciava a vanvera, con le sue armi caricate a bubbole.
- Te le do' io le armi! minchione! In testa te le do'. Scendi in strada! Prova se sei capace! Troverai pane per i tuoi denti! Dai, prova! ... mi el fusil t'el sciepi sul cù!
La stanza era immersa in una luce irreale. C'era odore di disinfettante, di medicazioni, di ospedale... di tutto, tranne che di vita. Il corpo stava li', immobile, avvolto in quella sorta di sudario. Sondini dappertutto. Macchine provvidenziali e caritatevoli con mille luci e lucine. Impegnate ogni santo giorno nella loro inflessibile routine.
Che stesse respirando lo diceva chiaramente solo il monitor attaccato alla parete, mentre ripeteva il suo solito suono. Le sue monotone immagini. Nonostante fosse un ammasso di cavi e circuiti stampati, anche lui sembrava provare pena, in quell'atmosfera sospesa che durava da anni. Un tempo lungo un secolo. Dove passato, presente, e futuro si confondevano, sempre uguali. In attesa di una decisione pietosa che ponesse fine a quella condizione che non si poteva più chiamare vita, ed era prematuro piangere come morte. Grigio, per nulla dignitoso limbo al confine tra terra e cielo. Di tanto in tanto occhi lucidi entravano a controllare; mani affettuose sistemavano quelle coperte, che non ne avevano alcun bisogno. Tanto non si muoveva nulla. Poi una carezza sulla guancia. Un bacio sulla fronte. Mentre dentro era tenebra. E fuori primavera.
- L'imputato si alzi. In base alla legge degli uomini, viene dichiarato colpevole di aver ceduto ai sentimenti... alle ragioni del cuore... e pertanto, considerato l'art. vattelapesca, le attenuanti generiche, tolta la tara, la bara, la chiara... bla, bla, bla... viene condannato all'asportazione di cento grammi del suddetto organo. Pena da eseguirsi seduta stante. Senza narcosi. Così deciso e sentenziato da questa corte, in nome e per conto di questa nuova società, bla, bla, bla... bla, bla, bla!
Madido di sudore, gli occhi annegati nelle lacrime, il volto contratto, il corpo percorso da spasmi, sentì una voce lontana che gridava: mi fa maleee... mi fa malee... mi fa male! Poi, lentamente, man mano si svegliava, si accorse che era la sua voce. Come quella volta che era uscito dall'anestesia, dopo l'intervento di appendicite. Si asciugò volto e collo con le lenzuola. Aveva avuto un incubo. Cazzo, che incubo! Si alzò, le gambe gli tremavano, andò in cucina e bevve avidamente dal rubinetto. Si toccò più volte il petto. Era tutto a posto. Solo una leggera fitta al cuore. Un vago senso di oppressione. Passando per lo studio, fu attirato da quella targhetta che gli aveva regalato Francesca e che diceva: Dimmi che non baratteresti il tuo cuore per niente al mondo!
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