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Libertà era giocare coi cani.
Quando Marge uscì di prigione il mondo le sembrò diverso. Certo, c’erano sempre i panni tesi alle finestre, c’erano sempre quei gatti puzzolenti che pisciavano ovunque, c’erano sempre i bar dalle insegne brillanti. Ma il baraccone si reggeva ancora in piedi, e la gente che ci viveva non era poi tanto cambiata. Marge se li immaginò tutti lì, davanti al televisore, a scurreggiare e a bere vodka liscia mentre pensavano al modo migliore per ingannare la vita. E per ritardare la morte. Erano i piccoli dettagli ad apparire diversi, o forse era cambiata lei, dopo ventitré anni fra quelle pareti unte e arrabbiate.
La notte tentava di nascondere i cambiamenti. I lampioni illuminavano sempre la stessa porzione di mondo, come se ciò che rimaneva al buio non avesse ragione di essere visto. Lassù, la luna dalla faccia rugosa sembrava invecchiata. Marge si guardò ancora intorno, e pensò che aveva voglia di una bella bistecca grondante sangue, di un bel bicchierone di whiskey&acqua, e di farsi una bella dormita. La libertà fisica era di nuovo sua, ma era ancora prigioniera dei desideri del corpo. Scese lungo la Western senza fretta, gustandosi a pieno l’idea di poter camminare dritta dopo anni di passeggiate circolari e senza meta. Dentro le auto, sugli autobus, a piedi o in bicicletta, gli altri esseri umani che popolavano Los Angeles sembravano ignorarla senza difficoltà. Correvano affaccendati qua e là, apparentemente attenti a non sciupare la loro parentesi di vita, concedendosi a mala pena il tempo per tirar giù un bicchiere o per grattarsi sotto le ascelle sudate. Marge li invidiò. Una parte della sua parentesi l’aveva passata a farsi violentare da quel sacco di merda che i documenti indicavano come suo padre. Poi, un bel giorno, aveva deciso di chiudere la parentesi e gli aveva tagliato l’uccello di netto con un bel coltellone da cucina affilato e lucente. Il pene se ne stava lì a terra, fermo immobile dopo anni di gran baldoria. Sembrava volersi riposare in quella pozza di sangue bluastro, mentre Marge rideva e suo padre urlava di dolore. Non contenta Marge aveva colpito il padre all’addome, al cuore, ai polmoni, al fegato e via dicendo, in una crisi assassina anatomicamente perfetta. L’altra parentesi si era aperta in quel carcere triste, fatto di lenzuola giallognole e capelli abbracciati nel brodo, di vecchie bavose con la fica asciutta e di giovani vogliose e manesche. Marge si era fatta rispettare, aveva grinta cazzo, sapeva menar le mani quando ce n’era bisogno. Col passare degli anni era diventata una specie di leader silenziosa, contava qualcosa in quel letamaio grigiastro. Se ne stava spesso da sola in cella a scrivere poesie, o in cortile, a specchiarsi in pozze di piscio e acqua piovana che le restituivano, in combutta con la sua mente, l’immagine ingannevole di una regina in abiti sfarzosi. Quando il vento incrinava quello specchio liquido e deforme la regina se ne andava, e tornava il fotogramma sbiadito di una donna magra e pallida, decorata da anonime righe verticali. Nessuna amicizia, o meglio, amica di tutte quelle farfalle che il destino aveva deciso di imprigionare là dentro. Amicizie senza emozione, senza passato, presente e futuro. Amicizie di nottate trascorse a parlare attraverso un buco nel muro, tra una cella e l’altra, per sentirsi meno sole. Amicizie destinate all’ergastolo, destinate a non uscire da lì. Tutte le donne che Marge aveva incontrato avevano una storia da raccontare, e come sempre, erano tutte limpide e innocenti come una bottiglia di gin. Si convinse di essere l’unica puttana colpevole ad aver varcato quel dannato cancello. Poi, come tutte, imparò a dipingere. Nei suoi racconti pennellava il proprio passato, rendendo brillante e policromatica la sua vita esterna, nelle lunghe chiacchierate notturne creava avventure piene di colori e linee da pittore. Il carcere era così: un grosso quadro in bianco e nero attaccato su una parete di mille tonalità. Dentro c’era il grigiume. Fuori, anche per chi non avrebbe mai avuto prospettive, un mondo caleidoscopico e invitante.
Adesso quel mondo colorato era lì, ai suoi piedi, pronto a rivederla di nuovo in pista. Sopra la sua testa, dietro le case, la scritta Hollywood sembrava un po’ sporca. Una melodia jazz, fine e malinconica, attirò Marge lungo il marciapiede di destra della Russel. Il jazzista stava suonando all’angolo con Alvarado, la sua musica era bella come un tappeto di lusso. Dietro di lui un bar poco illuminato e per niente rumoroso. Marge entrò nel locale, respirò il fumo denso e l’atmosfera di libertà. Si sedette al bancone, ordinò da mangiare e da bere, distese le gambe e rimase ad ascoltare il jazzista. La sua musica vagava libera per Los Angeles. Marge chiuse gli occhi. Era libera. Mangiò e bevve, rise delle battute degli uomini e delle calze a rete delle puttane. Poi uscì fuori. Libertà era camminare dritto. Libertà era grattarsi la punta del naso. Libertà era attraversare la strada correndo. Libertà era giocare coi cani. Ne passò uno sul marciapiede. Marge gli toccò il naso. Lui tirò fuori la lingua e le leccò la mano. Era lunga e ruvida.
Sapeva di libertà.
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