I. Dopo la fine del mondo.
Il giorno dopo "la fine del mondo", Lorenzo Damiani si ritrovò il corpo completamente ricoperto da denti.
Accadde tutto un martedì mattina, pochi giorni dopo la festa tema "Anni '40" del sesto piano. Origliando dal tavolino della sala ristoro dal piano terra dello Zeitgeist Hotel, venne a sapere che buona parte della gioventù di Parma si era riunita per festeggiare tutta la settimana i pochi giorni rimasti prima dell'annunciata fine del mondo. Il perché gli invitati dovessero obbligatoriamente vestirsi come i loro nonni non era dato saperlo.
La fine del mondo non arrivò, ma quella data per Lorenzo coincise con "la fine del lungo dolore".
Bordate possenti di musica elettronica e swing l'hotel cinque lunghissimi giorni, finché martedì mattina, tutto d'un colpo, la musica cessò.
Aprì gli occhi, cullato da un silenzio fino quel giorno solo immaginato e sorrise.
Alzò la schiena dal letto e si sedette sul bordo del materasso, resistendo alla tentazione di tornare e stendersi e dormire per un altro paio d'ore. La colazione continentale che lo attendeva alla sala ristoro era un buon incentivo per tentare almeno un rapido cambio d'abito e gustarsi pane, prosciutto e formaggio accompagnati da un buon numero di bicchieri di succo d'arancia.
Guardò la luce pallida del giorno filtrare attraverso le persiane dell'unica finestrella di cui disponeva la camera. Si guardò intorno, come se si fosse ritrovato catapultato in quella stanza per la prima volta in vita sua.
Passò in rassegna i muri di legno scuro, scricchiolanti e gonfi d'umidità, e i pochi brandelli di carta da parati color crema che pendevano dai muri.
Un leggero sorriso gli sgranchì la guancia alla vista dello specchio ovale contornato di arabeschi dorati posto sul muro spoglio davanti al letto, appeso troppo in alto perché qualcuno vi si potesse specchiare.
Alla vista del sottile computer portatile nero che occupava la scrivani appoggiata vicino alla porta, trovò l'impulso che gli permise di alzarsi e portare la sua carne dolorante verso il bagno.
Sentiva i muscoli più stanchi e intorpiditi del solito, come se un acido denso riempisse lo spazio tra una fibra e l'altra del suo corpo. Diede la colpa allo scarso riposo e alle limitata libertà di entrata e di uscita dalla camera imposta dall'Azienda.
Nessun contatto, a meno che non fosse strettamente necessario e, soprattutto, pochi, se non sporadici escursioni fuori dall'area di lavoro. Sembrava legittimo. Poteva accadere che per saziare la voglia di un gelato o di una semplice passeggiata si potesse perdere di vista il proprio obiettivo (per quanto ne sapeva, questo era già accaduto).
Accese la luce del bagno e aprì il rubinetto. Il bocchettone vomitò due fiotti di acqua giallognola finché le tubature ruggirono facendo tremare le piastrelle, e dell'acqua più limpida e fresca non prese a scorrere a intermittenza.
Rimirò il suo visto stanco e stropicciato dal sonno, si accarezzò il mento a punta, si levò la maglietta e il mondo si bloccò.
Un laccio invisibile gli si strinse intorno al collo e un urlo di disgusto si spezzò precipitando nel petto.
Il suo torso muscoloso e abbronzato era completamente ricoperto da denti luci e smaglianti che spuntavano come scogliere su un mare di pelle arrossata.
Indietreggiò, lontano da quel riflesso raccapricciante, sbattendo con foga le palpebre, passandosi le mani sul viso, nella speranza residua che forse solo un cattivo gioco di luci e sonno.
Indietreggiò fino a colpire qualcosa di duro e freddo. I suoi piedi si sollevarono dal pavimento e scivolò dentro la vasca da bagno.
Lorenzo si dimenò impazzito come un serpente, come cercando di togliersi di dosso il suono gracchiante dei ticchettii sulle porcellana.
Un dolore acceso esplose nel polpaccio destro e si fece strada lungo la coscia. Cercò di girarsi sulla schiena, rigando la porcellana con i denti, si stese di schiena e prese a piegare e stendere la gamba per far svanire il crampo.
Lorenzo prese un bel respiro, assicurò la presa delle dita lungo i bordi e strisciò via lentamente dalla vasca, portandosi dietro uno stridio acuto provocato dal raschiare dei denti sulla lavagna.
Appoggiò con premura un piede sul tappetino, poi l'altro. L'acqua schizzò via dal tappetino e piccole pozzettine d'acqua torbida emersero dalla formarono intorno ai suoi piedi. Il bagno prese a girare intorno Lorenzo. Strinse i denti e cercò di controllare la nausea e le vertigini.
Avanzò barcollando fino al letto con le braccia tese verso l'esterno per tenere l'equilibrio. I denti pulsarono in sincronia con il battito del suo cuore, scricchiolando contro la carne e le ossa. Ogni pulsazione corrispondeva a una sensazione calda che gli invadeva i muscoli e gli annebbiava la vista, celando la stanza dietro una patina opaca e impenetrabile.
Si buttò seduto sul letto, stremato e afferrò la cornetta del telefono prima ancora di appoggiare il didietro sul materasso. Le vertigini aumentarono e le pulsazioni frenetiche del cuore producevano macchioline nere e viola che gli oscuravano la vista. Cercando di risparmiare le energia, premette quattro volte il tasto "0" sulla tastiera del telefono.
Dopo due squilli, rispose la voce nasale e apatica di Marcellino, il concierge grasso e brufoloso che lo aveva accompagnato nella sua stanza qualche giorno prima.
"Pronto?"
Lorenzo aprì la bocca ma ne uscì soltanto un suono stridulo e spezzato.
"Signor Damiani?"
Il terrore gli serrò la gola e gli seccò la bocca. La lingua secca scivolava raspando contro il palato, cercò di deglutire ma ingoiò soltanto una palla d'aria che quasi lo fece soffocare.
"Signor Damiani?".
"Marcellino", disse, "Ho bisogno...".
Le rigide regole dell'Azienda gli ritornarono alla mente. Nessun contatto con l'esterno, nemmeno in casi speciali o di emergenza, ma immaginò che i suoi superiori non avessero messo in conto eventuali deformazioni del corpo umano.
"Sono l'inquilino della stanza 347", riprese.
"Lo so benissimo, Signor Damiani".
"Ho un malore, non lo so... ho bisogno di un'ambulanza, al più presto".
"Può essere più specifico?"
"Scusa?"
"Che cos'ha? Perché dobbiamo chiamare un'ambulanza".
Lorenzo rimase in silenzio, formulando nella sua testa le parole giuste da abbinare per formare la frase giusta da dire in quel momento.
Il mio corpo è pieno di denti. Scricchiolano e fanno un male bestia. Chiamate un medico, o un dentista.
Pensò che potesse essere una frase accettabile. Senza senso per una persona normale, certamente, ma semplice e diretta. Oppure, poteva semplicemente chiedere di chiamare un'ambulanza e basta.
"Signor Damiani?".
"Si".
"Mi dica di cosa ha bisogno".
"Il mio corpo..."
"Si...?"
"C'è qualcosa di strano".
"Ad esempio?".
"Ad esempio...", Lorenzo prese a boccheggiare e a guardarsi intorno spaesato.
"Ci tengo a sottolineare che eventuali deformazioni del corpo, apparizioni, decessi improvvisi, resurrezioni e tentati suicidi di massa non sono di mia competenza. A quello pensa il mio superiore e adesso non è qui. Le ho fatto firmare il foglio che ci escludeva da ogni responsabilità, se lo ricorda?".
"Ho bisogno di un medico".
Marcellino non rispose, lasciando spazio al ronzio sottile e meccanico della cornetta.
"Dubito seriamente che un medico la possa aiutare".
"Non sai neanche cos'ho! Passami un superiore!"
"Le ho già detto che non c'è nessuno dei miei superiori al momento".
"Chiama un'ambulanza, almeno", chiese Lorenzo cercando di non far trasparire la paura dalla sua voce.
"Temo non sia possibile".
"Come non è possibile?"
"Non è possibile".
"La pago io l'ambulanza. Se non la chiamate voi la chiamo io".
"Faccia come vuole. È solo una questione di fisica. Dubito potrebbero mai giungere fino a qui".
"Ma lo sai con chi stai parlando?", disse Lorenzo, ruggendo.
"Signor Damiani..."
"Cosa?"
"Forse l'unica cosa che può fare e sedersi, respirare e riflettere sui suoi peccati. Mi chiami quando e se ci saranno degli sviluppi".
Marcellino riattaccò. Lorenzo rimase seduto a fissare il muro con la cornetta ancora appiccicata contro l'orecchio.
La stanza prese a muoversi intorno a lui. Sentì il corpo più leggero e freddo. Si vide galleggiare sopra al letto mentre i contorni delle cose intorno a lui si facevano sempre più sottili fino a svanire. Poi tutto si oscurò in una lenta dissolvenza, e svenne con il telefono ancora stretto nella mano.
I giorni passarono e i denti rimasero saldi al loro posto, splendendo orgogliosi e sani alla luce del sole.
Col tempo, imparò a gestire la sua routine di allenamenti quotidiana nel suo nuovo corpo. Le scariche di dolore elettrico che lo attraversarono si trasformarono in leggeri pizzichi che non lasciavano niente più che un leggerissimo senso di intorpidimento alle braccia e alle gambe.
Per i primi giorni le flessioni risultavano leggermente più complicate. Ad esempio, capitava che i denti finissero per sfiorare il pavimento e provocare una sensazione fastidiosa simile a una scarica elettrica. Al minimo contatto con il legno, i denti si ritiravano verso l'interno e tremavano costringendo Lorenzo a prendersi un attimo e attendere finché i denti non si fossero decisi a riemergere, e poi ricominciare con una nuova serie di flessioni. Per quello che riguardava gli addominali, invece, capitava che i denti che ricoprivano il petto combaciassero perfettamente con quelli degli addominali, lasciandolo incastrato in quella posizione da tortura medievale a cercare di divincolarsi senza scheggiarsi i denti.
Dopo ogni allenamento, si rimirava nudo allo specchio, nudo. Cominciò a vedere la cosa sotto un'altra prospettiva. In un certo senso, se si dispone di un accentuato senso del macabro, si poteva dire che quei denti li donassero.
Quella nuova dentatura, abbinata a un corpo massiccio, da guerriero greco-romano, gli conferiva una certa aria minacciosa, possente, monumentale, temibile.
Si guardò provando varie espressioni davanti allo specchio. Provò prima uno sguardo duro e impassibile, poi un altro più fiero ed eroico, degno di un guerriero degli inferi, e infine uno più placido e rilassato, da tutti giorni.
Si voltò di lato, prima il profilo destro e poi il sinistro, si passo le mani lungo il torso e sorrise soddisfatto.
Cominciava a prendere la cosa con filosofia. Sarebbe stato il suo ultimo incarico, e come ogni lavoro su commissione, l'etica gli imponeva di non avere contatti esterni con nessuno, senza eccezioni. Cosa importava alla fine? Non gli facevano nemmeno male, non come prima.
Tanto che si rimirava, un rumore di passi riecheggiò nel corridoio e si fermarono davanti alla porta della camera. Lorenzo riprese la sua posizione iniziale, fiero e dritto davanti lo specchio e guardò dritto davanti a se, senza guardare nient'altro se non il riflesso delle sue pupille scure nello specchio.
I passi si fermarono. Si sentì un leggero fruscio di vestiti, un cappotto che veniva spostato, uno stropicciare di fogli, la suola di una scarpa che strisciava lungo il pavimento.
Una cartelletta sottile di carta marrone scivolò da sotto la porta. I passi si allontanarono in fretta, correndo, e sparirono giù lungo le scale.
Lorenzo contò fino a trenta e si mosse in direzione della cartelletta. La presa in mano e cominciò a sfogliarla senza degnarle di uno sguardo. Avvicinò un orecchio alla porta, si accertò che non ci fosse più nessuno nei paraggi e, allontanandosi con cautela dalla porta, cominciò a prestare attenzione a ciò che conteneva la cartelletta.
Trovò una serie di foto in bianco e nero ritraenti un ometto sulla settantina, basso, tarchiato, con pochi capelli radi che formavano una coroncina intorno alla testa. Sorriso furbo e sottile, occhi piccoli e infossati nel viso paffuto. Sorrise, pensando a come quel vecchietto assomigliasse a Winston Churchill.
Le foto erano accompagnate da un foglio contenente i dati anagrafici del signore. Il sosia di Churchill rispondeva al nome si Fortunato Lucarelli, nato a Pistoia nel 1941, attualmente residente a Parma. Faceva il libero professionista di professione. Oltre alle foto e ai dati anagrafici dell'obiettivo, avevano lasciato allegati una serie di documenti falsi tenuti insieme da un elastico: Carta d'identità, passaporto, tessera sanitaria, addirittura una tessera della biblioteca comunale.
Per quella settimana, Lorenzo si sarebbe chiamato Francesco Schiarelli.
Chiuse la cartelletta e la buttò accanto al computer. Si piegò sulle ginocchia e tirò fuori una grossa custodia nera con i bordi in metallo.
Fece scattare i lucchetti, l'aprì ed estrasse un grosso oggetto lungo avvolto in un panno sgualcito color verde acqua. Prese dal bagno un panno scamosciato e del detersivo, i sedette sul letto, aprì il panno ed estrasse uno a uno i pezzi che costituivano il suo fucile da cecchino. Li lucidò accuratamente uno ad uno: la canna, il manico, il piccolo telescopio, lo montò e si avvicinò alla finestra.
La camera dava esattamente sulla piazza.
Imbracciò il fucile e rimase in posizione rigida e tesa, tenendo l'occhio vicino al piccolo telescopio piazzato sopra la canna.
Passò in rassegna l'intera piazza: il municipio, la scuola, la fontana e poi l'ortofrutta.
Trovò il signor Lucarelli di fronte al bancone dei cocomeri, intento a constatarne la maturità, picchiando timidamente con le nocche sopra la buccia verdastra di ciascun cocomero.
Prese un taccuino e segnò la sua presenza all'ortofrutta per le 14. 45.
Smontò il fucile, lo ripose nella cassa e infilò di nuovo tutto sotto il letto.
"Questa è la segreteria telefonica del numero 349087****. Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico".
Lorenzo udì a malapena il beep del segnale acustico. Girò intorno alla piccola isoletta di pavimento tra il bagno e il letto rosicchiandosi l'unghia dell'indice, finché un leggero formicolio intorno ai denti che circondavano il capezzolo non lo risvegliò.
"Oi, Natasha. Sono io. Immagino tu sia al lavoro adesso", si fermò su due piedi, serrò le mascelle e, senza accorgersene, trovò il pugno gli tremava stretto contro la coscia destra, "sono al lavoro anch'io", riprese cercando di mantenere un tono sereno, "ci sono più o meno da quattro giorni, in attesa del nostro cliente. Sai, è successa una cosa buffa... Mi hanno mandato nel paesino dove siamo cresciuti, Castelchiasso, ti ricordi?", ci fu un altro beep e cadde la linea.
Guardò immediatamente lo schermo verde del cellulare, temendo che l'Agenzia avesse intercettato e tagliato la chiamata. Digitò nuovamente il numero e attese.
"Questa è la segreteria telefonica del numero 349087****. Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico".
tirò un sospiro di sollievo e continuò:
"Ti dicevo che mi è successa una cosa buffa. Ho avuto una specie...", senza nemmeno accorgersene, si ritrovò ad accarezzare i bordi dentellati dei un dente sul petto. Un leggero brivido di piacere gli attraverso la schiena e culminò in un lieve sorriso, "... di infortunio sul lavoro. Roba da nulla, non ti preoccupare, ma...". La linea cadde di nuovo. Senza preoccupazioni né esitazioni digitò ancora il numero e attese il messaggio della segreteria.
"Eccomi. No, comunque è un infortunio da nulla, non so nemmeno perché sto qui a parlartene. Mi sento diverso, questa si che è una cosa nuova. Sono più sereno, ma mi manchi tu".
Si sedette sul divano e guardò la luce dorata del mattino filtrare debolmente dalle persiane. Il sorriso si espanse fino a tirargli il viso e pensò alla luce del primo mattino in cui scoprì i suoi nuovi denti. Gli parve una luce totalmente nuova che diffondeva sulla pelle un tepore avvolgente, rispetto al manto gelido di qualche giorno prima.
"Mi sento nuovo. Non vedo l'ora di parlarti. Non vedo l'ora di vederti, magari dal vero stavolta, senza skype o... altre cazzate. Vorrei tanto che vedessi come sono nuovo, adesso". Il suo viso tornò serio. I tremarono tremarono nell'aria tiepida e pesante della stanza.
"Quando vuoi sono qui. Chiamami".
Iniziò un'altra mattinata di lavoro. Lorenzo si mise seduto davanti alla finestra con il fucile da cecchino ben saldo sulla spalla a osservare la piazza.
Il "Falso Churchill"si muoveva seguendo il copione quotidiano. Un caffè ai tavolini del bar della piazza, un salto in tabaccheria a comprare il tabacco per la pipa e di nuovo dal fruttivendolo a tastare e picchiettare angurie.
"Praticamente", disse fra sé e sé con l'occhio infilato nel cannocchiale, con la voce ovattata dalla sigaretta che stringeva tra i denti, "passi le giornate a fumare e a palpare angurie?".
Lo vide avvicinarsi verso l'anziana fruttivendola con i capelli tinti di rosso acceso artificiale stringendo una banconota da cinque euro.
La donna gli portò l'anguria con entrambe le braccia e la passò accuratamente nelle braccia del Falso Churchill, che se ne andò con un ampio sorriso soddisfatto che gli gonfiava la faccia.
"Ciccione di merda...", sussurrò Lorenzo.
Una nuova cartelletta marrone strisciò da sotto la porta, in solitaria, senza l'eco dei passi che riecheggiavano per il corridoio ad accompagnarla.
Lorenzo rimase seduto a guardare la cartelletta sul pavimento, perplesso. Attese qualche attimo, si guardò intorno circospetto e si trascinò con la sedia verso la cartelletta. Appena sfiorata la cartelletta, i denti cominciarono a tremare e a battere tra di loro dolcemente, come percorsi da una brezza leggera. L'aprì, e fu come se qualcosa avesse succhiato via l'aria nella stanza. Fissò la prima foto, immobile, mentre l'ultimo respiro gli moriva in gola.
La prima di una serie di foto in bianco e nero raffigurava due cadaveri carbonizzati stesi davanti una cascina in pietra e mattoni, circondati solo di cenere e fuliggine.
Le braccia e le gambe carbonizzate dei due corpi sporgevano da sotto un telo bianco, troppo corto per poterli coprire del tutto, mentre il fumo usciva dalla cascina in spesse colonne scure che inghiottivano l'edera scura che ricopriva i muri e le finestre.
Pian piano, Lorenzo tornò lentamente a respirare. Quell'immagine gli parve nuova e antica allo stesso tempo, come il frammento di un ricordo rimosso, troppo doloroso per restare nella memoria. Poteva quasi sentire l'odore famigliare dei mattoni e della carne bruciata, un fumo tanto denso da farlo lacrimare, lì seduto al centro della stanza.
Scartò la prima foto, ripugnato e sconvolto, mentre la paura avanzava strisciando sotto la pelle, timoroso di vedere il soggetto raccapricciante che lo attendeva nella seconda foto, ma gli si presentò una copia della prima, soltanto leggermente più sbiadita, come se una luce accecante avanzasse lentamente per inghiottire in un colpo solo quell'angolo di campagna.
Foto dopo foto, la luce avanzava facendo svanire pian piano ogni cosa, rendendo l'immagine sempre più granulosa e indefinita fino a lasciare giusto qualche contorno scuro e indefinito galleggiare in uno spazio bianco e inerte.
Man mano che l'immagine andava sparendo, il tremolio dei denti aumento, fino a che il loro ticchettio incessante non prese la forma di un ritmo spastico e disarticolato.
I denti scattarono all'interno, affondando dolorosamente nella carne. La cartelletta gli scivolò dalle dita torte dal dolore e scivolò dalla sedia in preda alle convulsioni e agli spasmi dolorosi che esplodevano per tutto il corpo.
Le labbra vennero sommerse da un'ondata di saliva calda e schiumosa. La stanza si allontanò da lui e sparì inghiottita dal buio.
Lorenzo si risvegliò sotto la luce tiepida del tramonto. C'era ancora qualche macchiolina nera che svolazzava senza logica davanti ai suoi occhi, ma il peggio sembrava essere passato.
Ruotò gli occhi verso l'alto, e vide le lenzuola vibrare leggermente sopra il cellulare che squillava.
Si alzò con fatica e zoppicò verso il letto, stringendo i denti a ogni fitta di dolore che gli esplodeva nel petto e nel ventre.
Arrivò al materasso giusto in tempo per vedere il telefono placarsi e illuminarsi a intermittenza, esibendo sul display il messaggio "1 chiamata persa".
Clicco sotto la dicitura "visualizza" e comparve il numero di Natasha.
Sedette sul letto e richiamò il numero, solo per poter sentire di nuovo la segreteria telefonica.
I denti sussultarono facendogli scricchiolare qualche osso ancora indolenzito, come a volergli ricordare che erano ancora lì con lui, saldamente attaccati alla sua carne.
C'era qualcosa di nuovo nei loro scricchiolii. Non si trattava più di uno scatto secco, ma assomigliava più a un suono viscido, vischioso. Anche il dolore era totalmente nuovo. Invece di spegnersi ed accendersi in totale armonia con il loro sussultare, il dolore permaneva e s'intensificava minuto dopo minuto.
Alzò la maglietta con cautela e si guardò il petto. Trovò i denti completamente ingrigiti, simili a piccoli sassolini, con i bordi spezzati e appuntiti e lo smalto eroso da carie e tartaro. Una leggera patina biancastra intorno alla base dei denti luccicava sotto la luce del sole. Passò un dito intorno a uno dei denti incastonati nell'addome, raccolse un po' di quel liquido vischioso e lo schiacciò tra i polpastrelli, spiaccicandone i piccoli grumi di cui era composto e facendone colare un po' lungo il dorso della mano. Si avvicinò le dita al naso e si ritrasse di colpo cercando di trattenere i conati. Emanava un odore penetrante, malato, che gli sarebbe rimasto appiccicato alle mucose per tutte la sera come un promemoria.
Si alzò di scatto e prese a vagare per la stanza respirando profondamente e disegnando ampi archi nell'aria, come gli avevano insegnato da bambino per calmarsi e far ossigenare i tessuti.
Ogni volta che passava per il letto, l'occhio gli cadeva prima sul cellulare che spuntava tra le lenzuola sfatte, un po' sul computer e poi sulle foto rovesciate sul pavimento di fronte al bagno.
Pensò a quanto avrebbe voluto avere Natasha con sé a consolarlo e dirgli che sarebbe andato tutto bene, che il dolore sarebbe passato.
Guardò di nuovo il computer. Se avesse voluto sentirla, se avesse voluto vederla esattamente come se l'era sempre immaginata, allora c'era una strada più facile e meno patetica.
Un'altra fitta di dolore esplose e gli fece tremare gli ossicini delle orecchie. I denti nella bocca scricchiolarono fino a fargli lacrimare gli occhi. Guardò il telefono sul materasso oltre il velo di lacrime, cercando di respingere il desiderio di accasciarsi a terra per il dolore.
Si avvicinò al letto, prese il telefono, selezionò l'ultimo dei tre numeri registrati in rubrica e attese.
Dopo il primo squillo, una voce stridula e nasale rispose.
"Lollone?".
Lorenzo digrignò i denti per il fastidio.
"Tartaruga...".
Un attimo di silenzio imbarazzato. In sottofondo si sentiva rumore di risata sguaiate e tintinnio di bicchieri.
"Che c'è?", chiese Tartaruga con voce affannata.
"Ho bisogno di aiuto... aiuto medico. Sono allo Zeitgeist Hotel, a Castelchiasso, dopo Langhirano. Riesci a raggiungermi? ".
"Ok, certo, Lollone... ehi, basta basta. Devo andare al lavoro, davvero", sussurrò Tartaruga rivolgendosi a una delle risate che lo circondavano, "sto arrivando".
Il tempo di riattaccare e prendere un paio di respiri profondi, e Tartaruga bussò alla porta.
"Arrivo!", urlò Lorenzo precipitandosi in bagno a prendere l'accappatoio bianco appesa di fianco alla vasca.
Tartaruga si fece trovare sulla soglia, impegnato a sostenere il peso di una vecchia borsa da medico in cuoio nero logora e floscia.
Dopo una lunga occhiata, Tartaruga ruppe il ghiaccio: "Che brutto aspetto, Lollone. Ma mangi, almeno? sembri sciupato".
"Già qua?".
"Certo! Sono un professionista, io".
Lorenzo rimase a squadrarlo con sguardo interrogativo.
"È una procedura standard, Lollone. In quanto medico di campo devo sempre trovarmi nell'area assegnata al mio agente. Devo saperle queste cose se voglio tenermi stretto il mio lavoro. Posso entrare?"
Non doveva essere alto più di un metro e mezzo. Forse senza l'enorme gobba che lo costringeva a stare curvo verso il pavimento sarebbe arrivato a un metro e sessanta.
Pochi capelli crespi e sottili gli circondavano la pelata sempre arrossata e lucida di sudore, macchiata da un fitto arcipelago di larghi nei marroncini.
Il suo viso lasciava la strada aperta decine di possibili soprannomi: per gli occhi tondi e privi di emozioni che gli uscivano dalle orbite poteva essere soprannominata "ranocchio". Per le guance molli e grasse che pendevano fin sotto il mento poteva essere anche chiamato "mastino" o "bulldog", ma sarebbe stato un nome troppo deciso per uno che pareva stare al mondo solo per rubare l'aria altrui.
La gobba, che era quasi sul punto di stracciare la solita giacca da sera nera che indossava da anni, distoglieva l'attenzione da qualunque altro particolare, stesso dicasi per il collo sottile, rugoso e pieno di vene che gli sorreggeva la grossa testa ovale.
Con piccoli passi svelti e misurati, Tartaruga corse ciondolando verso il letto e con un lamento liberatorio buttò la borsa sul materasso. Tirò fuori un fazzoletto di stoffa e si asciugò la fronte e il collo, passando in rassegna la stanza con i grandi occhi a palla.
"Che tugurio...", bisbigliò con tono innocente, come se non volesse ferire i sentimenti di Lorenzo.
"Dillo anche ad alta voce. Tanto non mi offendo".
"Questo posto è spaventoso. Le altre camere non sono così".
"Come fai a saperlo? Hai la bottega aperta", disse Lorenzo.
Tartaruga puntò gli occhi verso il basso e li ritirò su lentamente, guardando Lorenzo mostrando un sorriso sornione e leccandosi avidamente le labbra.
"Non me n'ero accorto", disse tirandosi su la lampo, "sai perché ho la bottega aperta?"
"Non me ne frega niente..."
"Troie...", disse con tono eccitato. Sgambettò ciondolando verso Lorenzo e lo afferrò con forza per la manica dell'accappatoio, "questo posto è pieno di troie, bello! Anzi, escort, che sono tutta un'altra cosa. Non fanno domande. Non giudicano e se ne fottono dell'aspetto. Non hanno né occhi, né orecchie, solo una gran fica sempre umida e aperta. Sono fuori di testa, Lollone, completamente fuori di testa", disse leccandosi le lebbra come un formichiere.
"Devono esserlo per forza...".
Balzava subito all'occhio come quell'argomento favorisse ad aumentare la sua sudorazione. Lorenzo poté a stento trattenere un'espressione disgustata.
"Quelle troie... te le paga l'Azienda? "
"Escort... No. Non che loro sappiano".
I denti ebbero un leggero scatto, accompagnato dal consueto scricchiolio. Lorenzo strinse le mascelle e schiuse gli occhi.
Tartaruga lo guardò meravigliato. Allungò il collo verso di lui e lo studiò, piegando la testa incuriosito prima a destra e poi a sinistra, come un cagnolino.
Chiuse la bocca prima che un rivolo di saliva gli colasse dal labbro e chiese:
"Perché sono qui, Lollone?"
"Se tu non mi chiami "Lollone", io non ti chiamo "Tartaruga""
"Affare fatto", disse senza levare l'espressione compiaciuta dalla faccia, "e allora, come mi chiamerai?"
Lorenzo lo trafisse con lo sguardo. In un lampo di cieca violenza, desiderò avere dei denti sulle nocche, così da fargli anche più male del dolore minimo necessario a farlo tacere.
Drizzò la schiena, cercando di ignorare gli scricchiolii, slacciò l'accappatoio e lo lasciò cadere a terra.
Un rivolo di saliva cadde dalla bocca spalancata di Tartaruga. Lorenzo sfoggiò un sorriso sarcastico.
"Ti chiamerò "Dottore" se mi fai un bel lavoretto fino di quelli che sai fare tu".
Tartaruga fece un passio indietro e incrociò le braccia dietro la schiena, pronto ad esaminare qualunque cose fosse comparso sul corpo del suo paziente.
Dopo aver superato una certa insicurezza, Lorenzo slacciò la cintura dell'accappatoio e i denti apparvero in tutto il loro decaduto splendore.
Tartaruga strabuzzò gli occhi e fece un altro passo indietro. Il suo stomaco vibrò in un profondo gorgoglio che mosse la pancia tonda e gonfia che la camicia bianca stropicciata tratteneva a stento.
"Allora, pensi di poterci cavare qualcosa? ".
Tartaruga fece un veloce cenno della testa. Gonfiò le guance mollicce e dalla piccola bocca rossastra eruttò un fiotto di vomitò giallastro e grumoso che andò a schiantarsi sui piedi nudi di Lorenzo.
Messo a sedere il paziente su uno sgabello di legno trovato in bagno, il Dottore diede iniziò all'operazione. Stese un panno macchiato di grasso sul letto e appoggiò gli attrezzi necessari: Una pinza da idraulico, una forbice da cucina, delle garze eccezionalmente pulite, ago e filo.
"Ma invece di pagarti le troie, non potresti spendere qualche soldo per degli strumenti decenti?"
"Son un sentimentale, Lollo", disse Tartaruga camminando intorno al paziente, "sono i miei primi strumenti. Sono un pezzo di cuore".
Lorenzo diede un'altra occhiata scettica agli strumenti. "La metafora fila...".
La luce della stanza regalava alla pelle di Tartaruga un aspetto ancora più sporco e malaticcio. Lorenzo smise di distinguere un tremore dall'altro, anche se la scelta era ampia: poteva tremare per i denti che si ammalavano ora dopo ora, o forse per le foto della cascina e per chiunque gliele abbia scattate e lasciate sotto la porta. Anche l'attesa per l'operazione chirurgica era un ottimo motivo per tremare.
"Allora...", iniziò Lorenzo timoroso, "c'hai idea di cosa sia questa cosa. Cioé... l'hai mai vista prima?"
"Ho visto un sacco di cose assurde. Questo potrebbe essere un difetto genetico, tipo..."
"Un difetto genetico?"
"Si."
"'Sta roba che mi spunta dal nulla, Tartaruga? Che cazzo di difetto genetico è?"
"Non sei né un medico né uno scienziato, Lollone. Le vie della scienza sono infinite".
"E tu le conosci quelle vie".
"Se no non farei il mestiere che faccio. Tanto adesso ti togliamo tutto caro mio, quindi stai lì dove sei, dolce e tranquillo, e rilassati un po'".
Lorenzo cercò di seguire il consiglio. Era nelle sue mani, lo aveva chiamato lui, non poteva fare molto altro.
"Ma tu che facevi prima?", chiese a Tartaruga cercando di apparire disinteressato.
"Prima di questo?"
"Si".
"Il macellaio".
Lorenzo si voltò di scatto verso di lui e sgranò gli occhi. Tartaruga scoppiò a ridere unendo le mani al petto. Nemmeno "Nosferatu" sarebbe stato un pessimo soprannome, pensandoci.
"Guarda che scherzo, Lollone. Facevo il postino".
Tartaruga avvicinò un dito verso un dente che spuntava sulla spalla. Si avvicinò lentamente e con cautela.
"Tartaruga!", urlò Lorenzo. Il dente cominciò a dondolare e a tremare nella carne, facendo ritrarre Tartaruga per lo spavento. "Non dovresti indossare dei guanti?"
"E a che pro? Tanto son già marci...". Lorenzo scattò in piedi facendo cadere lo sgabello. "Te sei marcio!"
"Sono un medico! Abbi rispetto".
"Rispetto? Ti fai spompinare a morte e poi mi operi senza lavarti le mani!".
"Guarda che sono donne di classe quelle! Robe che neanche ti sogni, te...".
Lorenzo gli prese una mano paffuta, l'annusò e si ritrasse disgustato.
"Vedi che sa ancora di fregna? Dove vuoi trovarla te la classe, Tartaruga!".
Tartaruga s'irrigidì. Serrò le mascelle e la pappagorgia tremò come un budino.
"Mi vieni a parlare di classe, Lorenzo?", si voltò verso il computer e sfoggiò di nuovo il sorriso malefico, "scommetto che se mi metto a curiosare nella cronologia del computer non ti metti più a fare il signore, eh?".
Lorenzo restò ammutolito. Il pugno destro tremò contro la coscia. I muscoli si agitarono, tesi dal desiderio di fondarsi contro Tartaruga.
"Cacciami", disse Tartaruga, "Cacciami via, occupatene per i fatti tuoi. Poi chi chiamiamo a farci togliere quelle schifezze dal corpo, Lollone?"
"Puoi lasciarmi i tuoi arnesi e andare fare in culo. Poi però dovrò aggiornare l'Agenzia".
"E aggiornali! Tanto sono solo..."
Senza preavviso, Lorenzo gli mollò uno schiaffo. Tartaruga lo guardò con gli occhi gonfi di lacrime, accarezzandosi la guancia arrossata.
"Perché siete sempre cattivi con me?", si lagnò guardando in basso.
"Perché sei monnezza, ecco perché".
"Io non sono monnezza!", urlò Tartaruga con voce acuta e stridula, facendo saltare gli impazziti occhi da un lato all'altro della stanza "voi valete quanto me in tutta questa storia. Io...".
Sentì uno scatto metallico. Tartaruga riportò gli occhi su Lorenzo, in piedi con la 9mm stretta nella mano destra.
"Non c'ho molto da perdere, Tartaruga", Il petto di Lorenzo prese a gonfiarsi animatamente, come se stesse cercando di respirare con un macigno appoggiato sullo sterno, "ora andrai a lavarti quelle mani schifose, Tartaruga, mi opererai e ti magnerai anche una bella cucchiaiata di cazzi tuoi. Intesi? Se no facciamo rapporto."
Tartaruga rimase a guardarlo con uno sguardo carico di terrore e senso di colpa.
"Intesi?". Tartaruga saltò portandosi le mani cinte al petto. Girò il bacino tenendo gli occhi su Lorenzo. Il suono della sicura che scattava gli diede la spinta di correre in bagno e lavarsi le mani.
Dal bagno, Lorenzo sentì tartaruga frugare tra i cassetti ed esultare sorpreso.
"Ecco qua", Tartaruga uscì infilandosi due guanti di plastica gialli, di quelli che le loro madri usavano per lavare i piatti, "ti senti più al sicuro con questi?".
L'operazione in sé risultò abbastanza semplice.
"Senti qualcosa?", chiese a Lorenzo con voce sforzata estraendo il dente con la pinza.
"Vai, bello. Vai, vai, vai..."
Il dente si staccò con un suono viscido e secco, portandosi dietro un filo rossastro di sangue denso mescolato a una sostanza trasparente e appiccicosa. Dalla ferita fresca e pulsante si diffuse un odore marcio e malato, lo stesso che non voleva saperne di staccarsi dal naso di Lorenzo.
Nel giro di una mezz'ora, lottando tra urla e spasmi, riuscirono a liberare la spalla sinistra, lasciando che tra un dente e l'altro Lorenzo avesse il tipo di assorbire il dolore.
Tartaruga sfogliò la sua lista mentale di argomenti interessanti che potevano distrarlo dal dolore. Gli scartò tutti uno ad uno, sicuro che Lorenzo non avrebbe gradito nessuno di essi e che avrebbe rifuggito ogni contatto che esulasse quello medico-paziente; esattamente come tutti gli altri.
Nel giro di un'altra mezz'ora, Tartaruga riuscì a prenderci la mano, e in poco più di un'ora e mezzo libero entrambe le braccia.
Due montagnole di denti malati si raccolsero ordinatamente intorno ai lati dello sgabello. I denti estirpati lasciarono nella carne solchi rossastri profondi e pulsanti. Avvicinandosi a ciascun solco e pulendolo dal sangue in eccesso, vi si poteva vedere l'intreccio di fibre muscolari che scintillavano alla luce in mezzo ai grumi di pus giallastro.
L'aria fredda passava dalla finestra e filtrava attraverso le ferite, provocando al paziente brividi freddi che viaggiavano tremolando fino alla punta dei capelli.
"Pensi di riuscire a non tremare?", chiese Tartaruga con aria professionale di chi conosceva profondamente il proprio mestiere.
"Fa freddo", rispose Lorenzo battendo i denti.
"Vuoi fare una pausa?".
Lorenzo ci rimuginò un po'. "Forse".
"Vuoi un tè, tipo?", chiese Tartaruga
Lorenzo rivolse a Tartaruga uno sguardo stanco e incredulo.
"Magari ti calma un pochino, ecco."
"No", il dolore gli aveva cambiato la voce, trasformandolo in un rantolo profondo, come se la sua ugola fosse cosparsa di vetro e bitume, "fine della pausa. Ricominciamo."
Si udì un rumore di passi famigliare. Solito gioco: tre passi, silenzio e un'ombra nera che filtra da sotto la porta. Poi, la cartelletta gialla fatta strisciare sul pavimento, e i passi che si allontano in velocità sfumando giù per le scale.
Udendo i primi passi lenti, Lorenzo ebbe un piccolo scatto, ma il dolore alle braccia e al petto lo fece desistere dall'andare verso la porta.
Tartaruga raccolse la cartelletta, l'aprì e ne guardò il contenuto con sguardo dubbioso.
"Riguarda il lavoro?", chiese senza togliere gli occhi dai documenti.
"No... Non lo so... Cos'è?", chiese Lorenzo rantolando.
"Documenti."
"Che documenti?"
"Carte d'identità, credo..."
"Ma come credi?", allungò il braccio e gli strappò la cartelletta dalle mani.
Lorenzo guardò il primo dei documenti. Tartaruga rimase in un angolo, appiattito contro il muro, e notò il labbro inferiore di Lorenzo sussultare su e giù, intanto che le pupille scure perdevano i vitalità man mano che Lorenzo si apprestava a leggere la prima carta d'identità.
La pelle intorno ai solchi lasciati dai denti appena estratto cominciarono a chiudersi e ad aprirsi come le bocche di decine di pesci, e il sangue cominciò a colare copioso da ciascun solco.
Poi, i muscoli ebbero uno spasmo improvviso, come percossi, e fiotti sottili di sangue scuro schizzarono contemporaneamente da tutti i buchi lasciati dai denti estratti.
Il corpo abbronzato di Lorenzo si ricoprì di sangue in un attimo. La cartelletta gli scivolò dalla mano, e dopo aver fatto roteare la testa su se stessa, cadde in avanti colpendo la scrivania con la fronte e sparpagliando denti per tutto il pavimento.
Tartaruga fece un passo indietro, stringendo la pinza con entrambe le mani. Allungò il collo verso il corpo di Lorenzo e, timidamente, lo chiamò.
"Lollone?"
Lorenzo si risvegliò steso su un pavimento di denti, avvolto in un doppio strato di garze ingiallite e macchiate di sangue.
Si guardò intorno e trovò i denti diligentemente ammucchiati in un angolino vicino alla scrivania. Alzò le braccia e dovette sforzarsi per poter vincere la forza contenitiva delle garze e toccarsi il petto, le spalle e l'addome liberi da denti, tornati come nuovi, come un tempo.
"Io...", Lorenzo girò il capo verso il letto e trovò Tartaruga seduto sul letto con la cartelletta aperta sul materasso.
Un sorriso soddisfatto apparve sul volto grasso e floscio.
"Ti ho tolto tutto. Eri come sotto anestesia, ho pensato di approfittarne".
"Non ci sono più?", chiese Lorenzo con voce debole.
"Tutto via. Sei nuovo adesso. Vuoi una mano per alzarti?".
Lorenzo allungò il braccio fasciato, Tartaruga lo afferrò per l'avambraccio e lo tirò su.
"Brucia tutto", disse Lorenzo cercando di mantenere l'equilibrio.
"Immagino sarà così per un po'".
Guardò Tartaruga. Esitò un attimo e gli appoggiò una mano sulla spalla. Diede due colpi leggeri e gli disse, guardando altrove:
"Sei stato bravo, Tartaruga. Grazie".
Tartaruga puntò gli occhi in basso e arrossì.
"Senti...", chiese timidamente senza levare gli occhi dalla punta delle scarpe.
"Dimmi."
"Se vuoi, il bordello è al piano sotterraneo. Possiamo andarci insieme", alzò gli occhi verso Lorenzo e il suo viso si riempì di una luce di tiepida e speranzosa, "Divertirci insieme, sai? È come essere in un bordello parigino di alta classe. Ci farebbe bene, potremmo..."
Lorenzo levò la mano dalla spalle e gli mollò una sberla sulla guancia ancora rossa e pulsante per il primo schiaffo. Si guardarono in silenzio con l'eco dello schiaffo che ancora gli fischiava nelle orecchie.
"Va bene", disse Tartaruga in un sussurro.
Infilò gli ultimi arnesi nella borsa, chiuse la zip, camminò con passo svelto verso l'uscita e se ne andò via offeso sbattendo la porta.
Ogni passo era una sofferenza, come una manciata di aghi che si disperdevano sotto la pelle incastrandosi sotto i muscoli, infilzando vene e nervi.
Camminò verso il letto misurando bene ogni passo per dosare il dolore. Si sedette sul materasso, puntò un dito sulla cartelletta e la trascinò a sé.
L'aprì e trovò tre vecchie carte d'identità con gli angoli piegati e usurati dal tempo che giacevano disposti a rosa come un mazzo di carte.
Prese la prima carta in cima al mazzo e l'aprì.
Qualcuno aveva graffiato via la foto del suo possessore, lasciando giusto un ciuffetto di capelli neri e un pezzo di spalla intorno allo sfregio bianco, lo stesso bianco che inglobava ogni cosa nelle foto della cascina. Perfino nome, cognome, data di nascita e residenza erano stati graffiati via con la stessa violenza, rendendo qualunque tentativo di decifrare i dati e scoprire l'identità del possessore del documenti era pressoché impossibile.
Stessa cosa valeva per le altre carte.
Lorenzo rimase immobile sul letto, con una carta d'identità aperta tra le dita e gli occhi fissi sulle generalità deturpate di quella persona.
La voce nasale del bambino della reception che gli consigliava di riflettere sui suoi peccati penetrò all'improvviso nelle orecchie, gelido come ghiaccio.
Senza nemmeno accorgersene si portò una mano alla bocca, e scoppiò in un pianto incontrollato.
Le lacrime sgorgarono tanto forte da bruciargli gli occhi, ma nonostante ciò ai singhiozzi si mescolò uno sghignazzare malato. Una risata folle, spastica, che lo terrorizzò.
È così che ci si sente ad uscire di testa, pensò. Sentiva come se ogni oggetto intorno a lui perdesse di consistenza e si allontanasse fluttuando. La trovò una sensazione leggera, liberatoria.
Si morse il palmo della mano per controllare il dolore e soffocare i gemiti e le risa, tanto che il sangue fresco colava copioso attraverso le bende.
Seduto sul materasso, controllò una serie di nomi sul bloc notes giallo che portava sempre dietro di sé durante le sue "missioni".
Segnò tutti i suoi obiettivi passati, obiettivi eliminati dalla faccia della terra. Persone che vivevano ai margini della società, o che erano riuscite a salire tanto in alto da ritrovarsi completamente sole, senza affetti, senza qualcuno che potesse vendicare o piangere la loro morte.
C'era una differenza abissale tra un assassino e un sicario. Un sicario non poteva essere necessariamente vista come una persona ai cattiva ai suoi occhi. Ripuliva l'aria, la rendeva più respirabile. Eliminava la feccia, o quelli che i suoi clienti etichettavano come feccia. I suoi non erano gesti dettati dall'odio o dal risentimento. Per quello che poteva riguardargli, non aveva peccati da farsi perdonare.
Una volta che uno dei suoi proiettili penetrava nel cranio dei suoi obiettivi e le schegge d'osso si sparpagliavano nell'aria, quello che restava era solo uno spazio vuoto abitabile in più sulla terra. Un'anima in meno nel regno dei vivi, una tacca in più bel suo curriculum.
Moriva dalla voglia di scrivere a Natasha. Non che si sarebbe aspettato una risposta a lei, certo, ma gli bastava che sapesse che in quel momento, nella stanza 347 dello Zeitgeist Hotel, lui la stava pensando.
Pensò di scriverle "ehi ciao, che fai? Scommetto che adesso stai sorridendo" e avrebbe fatto seguire uno smile sorridente.
Che domanda stupida... Ovvio che sta sorridendo, era il suo lavoro sorridere, e...
Scacciò quel pensiero dalla testa e tornò alla sua lista. Erano rimasti giusto un paio di nomi fuori dalla lista. Uno era un dittatore di una piccola repubblica indipendente nell'Africa centrale. Dubitò che qualcuno potesse sentire la sua mancanza. Ma un dittatore necessita di un certo seguito perché salga al potere, per forza. Che qualcuno del suo "partito" gli avesse gettato una macumba? Era un'idea abbastanza razzista, forse. Appoggiò la penna alla carta e tracciò una riga sopra quel nome.
Un ultimo nome: "Il falso Churchill". Qualcuno che lavorava per conto del vecchiardo cercava di ostacolarlo? Forse un esperto in magia nera o chissà...
Poi, la risposta arrivò come un fulmine a squarciare le nubi. Lo avevano drogato. I denti non esistevano, non erano reali. Un'allucinazione, forse qualcosa nell'aria.
Già dal primo giorno di permanenza nell'hotel, l'aria era intrisa di un odore dolciastro e stantio, troppo forte perché potesse essere solo odore di vissuto.
Gettò il bloc notes e corse in bagno. Afferrò il tubetto di dentifricio e lo spremette fino a ridurlo a un sottilissimo pezzo di plastica accartocciato.
Prese shampoo e bagno schiuma e svuotò il contenuto nello scarico della vasca. Spezzò in due una saponetta e la sbriciolo tra le dita. Avevano contaminato ogni cosa. La droga poteva essere ovunque.
Ora non restava che provare la non-esistenza dei denti. Come metterla con Tartaruga? Aveva visto tutto e glieli aveva tolti, dente per dente.
Tartaruga era uno di loro, ecco la nostra risposta.. Lui e tutti gli altri nell'Agenzia non gli hanno riservato che merda, insulti, insinuazioni crudeli. Ha fatto il doppio gioco, si è preso la sua vendetta. Si promise di occuparsi di lui, a tempo debito.
Afferrò uno dei denti della spalla. Strinse e tirò più forte che poté. Il dolore esplose e gli vibrò lungo il collo. Sembrava tutto concreto e doloroso, più di quanto non fosse prima.
Doveva essere un particolare tipo di droga, uno di quelli che attacca i sensi o il sistema nervoso, che ne so...
si poteva fare un altro test.
Si precipitò alla porta, aprì ed uscì in corridoio. Vuoto. Non una voce, non un passo.
Camminò avanti e indietro per il tappeto rosso che si stendeva per tutto il piccolo corridoio. Poi si fermò di colpo e rimase in ascolto dei piccoli passi incerti e leggeri che scendevano dal quarto piano.
Raddrizzò la schiena e tirò in fuori il petto, così che i denti spiccassero sopra ogni cosa.
Vide prima un paio di scarpe da sera nere, fresche di lucido. Poi i pantaloni colori cachi con i bordi che svolazzavano intorno alle caviglie coperte dalle calze nere.
L'uomo si fermò di colpo, lanciò un grasso colpo di tosse e sputò un grumo di sangue scuro e catarro che andrò a spiaccicarsi sullo scalino davanti a lui.
Fece gli ultimi scalini barcollando e gemendo per il dolore. Un impermeabile dello stesso colore dei pantaloni gli copriva le spalle larghe e muscolose. Doveva essere uno di quelli della festa anni '40 che si era deciso a smaltire la sbronza all'hotel. Arrivò in fondo alle scale e imboccò il corridoio, diretto verso la seconda rampa di scale.
Il cuore di Lorenzo si fermò. La faccia dell'uomo era ridotta a un ammasso di carne squarciata e sanguinolenta.
Dietro la poltiglia di sangue e muscoli che doveva essere stata il mento spuntavano la mandibola totalmente scarnificata che pendeva cigolante nel vuoto.
Sangue e sudore gli impiastricciavano i lunghi capelli neri pettinati all'indietro come fossero brillantina.
Il cadavere si fermò e fissò Lorenzo attraverso gli occhi azzurri.
Dal suo sguardo non traspirava nessuna emozione che non fosse dolore e tristezza. Le pupille erano umide e arrossate, forse per il dolore, forse per il pianto. Grandi occhi blu freddi e penetranti. Doveva essere stato un uomo bellissimo da vivo.
L'uomo fece per allungare una mano, ma rinunciò. Disse qualcosa, ma al posto delle parole si udì soltanto il sangue ribollirgli nella gola spaccata.
"Come?", chiese Lorenzo, sorpreso dal suono della sua stessa voce.
Il cadavere gorgogliò di nuovo. Inarcò le sopracciglia, come pronto a piangere. Poi, scosse la testa, gli voltò le spalle e tornò a scendere le scale, gorgogliando suoni inesistenti e tirando su col naso.
Tornato nella sua stanza, Lorenzo decise prendere il cellulare e chiamare l'Agenzia. Volevano sabotare la missione. Lo avevano drogato e in preda alle allucinazioni non poteva fare un granché.
Tirò via le lenzuola e gettò i cuscini sul pavimento, finché con la coda dell'occhio vide il cellulare in bilico sul comodino. Prima che potesse allungarsi ad afferrarlo, suonò il telefono della camera.
Più che uno squillare, quel suono pareva un grido di allarme che in un primo momento lo fece saltare dalla paura.
Lascio squillare un altro paio di volte. Poi, torturato dal suo suono ossessivo, prese in mano la cornetta.
"Si", disse tenendo un tono di voce serio e controllato.
"Signor Damiani?", chiese una finta voce metallica.
"Si".
"Stanza 347".
"Si".
Restarono un silenzio. Solo il ronzio del telefono li teneva collegati l'uno all'altro.
"Chi parla?"
"Cosa stai aspettando, Lorenzo? Quanto deve fare male ancora perché ti decida a fare qualcosa?".
Riconosceva quel filtro vocale. Era stato costretto ad usarlo a lavoro di tanto in tanto.
"Tartaruga?".
" Posso ancora sentire l'odore del fumo, Lorenzo", nonostante il filtro elettronica, la voce non riusciva a nascondere una certa malinconia arresa, "Senza i tuoi ricordi, tu sei ancora innocente".
"Non dovete fare incazzare la gente per cui lavoro".
I ricordi dell'adolescenza si raccolsero e si sovrapposero nella memoria ingarbugliandosi.
"È inutile che ti sforzi. Hai altro a cui pensare. Ho sempre pregato per te, in ogni caso. E lo farò anche dopo".
Un scatto e il segnale di linea libera.
Lorenzo rimase in piedi con gli occhi sbarrati nel voto e il labbro inferiore che sobbalzava facendogli tremare il mento.
Si sedette sul pavimento, strisciò verso il letto e si portò le ginocchia al petto.
Si concentrò sul suono degli uccelli e sul vociare che proveniva dalla piazza. Era domenica, giornata di mercato. Chiuse gli occhi e si lasciò coccolare dalle urla dei fruttivendoli, dal gridare gioioso dei bambini.
Provò a chiamare Natasha una decina di volte. Ormai il segnale acustico della segreteria telefonica non significava più niente, se no "prova a richiamare un'ultima volta". Camminava velocemente avanti e indietro per la stanza, puntando l'occhio di tanto in tanto sull'angolo nero della custodia del fucile che faceva capolino da sotto il letto.
Gettò il telefonino sul letto e riprese a vagare per la stanza.
Che giorno era ormai? Martedì? Domenica? Sabato? Per quando doveva essere finito il lavoro? Presto, ecco quando, pensò.
La febbre era troppo alta per fare qualunque cosa, perfino per preoccuparsi della salute dei suoi denti.
Durante il breve sonno, la pelle si era arrossata, come appena scottata dal sole, e cominciò a formarsi un reticolo di linee scure e sottili che divideva la pelle in sezioni simili a squame.
Gemendo e risucchiando in dietro la bava che colava in fili sottili, avvicinò un dito ad una delle squame sul braccio. Bastò semplicemente sfiorarla, un leggero contatto, e questa cadde sul pavimento lasciando dietro di sé un filo di liquido denso e sottile e una sezione di muscoli scoperta pulsare nell'aria.
Un ronzio tenue gli attraversò le orecchie. Lorenzo si girò di scatto, spaventato, guardandosi attorno e ringhiando, curvo sulla schiena dolorante.
Il cellulare dell'Azienda prese a tremare sul comodino. Non senza qualche esitazione, si avvicinò e prese il cellulare.
Il display segnava un numero privato.
Poteva non essere l'agenzia. Poteva essere di nuovo quella voce che voleva fargli sapere quant'era soffocante l'odore del fumo, quanto aveva impiegato la pelle dei proprietari a staccarsi e scivolargli via dal corpo per il calore. Voleva fargli sapere quanto fosse stata dolorosa la dipartita di due persone che nemmeno conosceva, di cui non si poteva sapere niente e con cui non aveva mai avuto niente a che fare.
Ignorò il telefono e riprese a vagare per la stanza con le braccia incrociate contro il petto per frenare i tremori.
Poteva essere chiunque. Il dubbio che questa storia cominciasse a perdere di senso lo risvegliò in qualche modo. Si guardò allo specchio. Quelle protuberanze che gli riempivano il corpo, ormai, cominciavano ad assomigliare a tutto meno che a denti.
In alcune parti, come le spalle e il petto, i denti cercavano di uscire a coppie da un'unica ferita.
Lo smalto andò via, lasciando le protuberanze rivestite di una parete rigida e solcata da profondi crateri che le faceva sembrare delle piccole rocce appuntite.
Andò verso il letto, si accovacciò e, cercando di non barcollare o svenire dalla febbre, tirò fuori la custodia del fucile di precisione.
Lo montò pezzo per pezzo, prendendosi una pausa di tanto in tanto per calmare le mani tremanti.
Stringendo l'arma con entrambe le braccia, si sedette e strisciò verso il muro, appiattendosi esattamente sotto lo specchio ovale.
Allungò le braccia, puntò l'arma davanti a sé, e infilo la canna del fucile tra le labbra.
Il sapore ferroso del fucile gli riempì la bocca in un attimo. I denti presero a tremare tutti insieme come impazziti. Il tremolio si estese a tutte le ossa e agli occhi, dandogli l'impressioni che sarebbe scivolati presto fuori dalle orbite.
Sfiorò il grilletto, accarezzandolo e soffermandosi su ogni millimetro, ogni imperfezione. Fece pressione col polpastrello, strizzò gli occhi, serrò le mandibole, e prima che il cervello di mandasse un impulso che ordinasse al dito di fare maggiore pressione e far partire il colpo, dei passi vagamente famigliari echeggiarono fuori dalla porta.
Con la canna del fucile salda tra i denti, girò gli occhi verso le due ombre lunghe e scure filtrarono da sotto la porta.
Indugiarono brevemente e rimasero immobili a scambiarsi bisbigli incomprensibili. Lorenzo prese l'occasione al volo: levò il fucile dalla bocca, lo puntò versa la porta e sparò due colpi.
Una delle due ombre si allargò accompagnata da un tonfo sordo e potente. La prima ombra si amalgamo all'altra, unendosi e formando un unico strato nero e denso che scendeva dalla porta fino al mucchietto di denti vicino alla scrivania.
Poi un sussulto, e l'altra ombra si separò dalla prima singhiozzando e lanciando versetti sordi di sorpresa e spavento.
Da sotto la porta, una lenta ondata di sangue scuro cominciò a scorrere lentamente, affogando l'ombra filtrata dai raggi di luce accecante del corridoio.
Lorenzo si gettò immediatamente verso la porta con la mano tesa verso la maniglia, l'aprì, fece due passi indietro e puntò il fucile davanti a se, pronto a sparare.
Tartaruga si fece trovare con le manine tozze bene in vista sopra la testa lucida.
Accanto a lui il cadavere di una donna vestita come una prostituta degli anni quaranta giaceva a terra, scomposta, con i palmi delle mani che puntavano rivolti il soffitto.
Un tappeto di sangue si espandeva sotto di lei invadendo la stanza.
"Perché?", balbettò Tartaruga tra lo sconvolto e l'indispettito.
Lorenzo guardò l'orologio. Segnava le 14. 45. Afferrò Tartaruga per la camicia, lo trascinò nella stanza sbattendo la porta. Lanciò Tartaruga contro il muro, e puntandogli il fucile addosso disse:
"Non esiste che mi facciate ammattire, non esiste proprio. Io resto lucido, sempre. Sono allenato, mi alleno ogni giorno, sono perfettamente preparato a situazioni come queste."
Indietreggiò fino alla finestra tenendo Tartaruga sotto tiro, gli voltò le spalle, andò alla finestra e puntò il fucile verso la pizza
Il sosia di Churchill non mancò l'appuntamento dal fruttivendolo.
Rispettò il copione riga per riga. Si avvicinò al bancone, passò in rassegna le angurie, le accarezzò e cominciò a bussare sulla buccia di ciascun frutto e ad appoggiarci l'orecchio per verificarne la qualità.
Il mirino schizzò come impazzito, incorniciando per sbaglio la testa di qualche passante innocente finché non si posò su quella di Churchill.
Il sudore colò lentamente, solleticando la fronte di Lorenzo. Aggrottò le sopracciglia per farlo scorrere più velocemente e scacciare via il prurito. Respirò una profonda boccata di aria afosa e la ributtò fuori man mano che la pressione sul grilletto si faceva più decisa.
La commessa dell'ortofrutta arrivò pronta ad assecondare ogni bisogno del suo cliente.
I denti scattarono nascondendosi sotto la pelle, provocando un unico poderoso schiocco che fece contrarre tutte le ossa di Lorenzo.
Il colpo partì all'improvviso e la testa della commessa esplose addosso a Churchill, imbrattando di rosso scuro il suo faccione stupefatto.
Lorenzo si ritirò, strinse i denti e si rimise in posizione. Un altro scattare di denti e l'osso della clavicola si spezzò, diffondendo dolore per tutto il collo e le spalle. Partì un altro colpo di risposta e, questa volta, fu un cocomero ad esplodere e a imbrattargli la camicia e il panciotto bordeaux.
Tartaruga si gettò su Lorenzo e si avvinghiò alle sue spalle. Affondò le dita nella clavicola spezzata, resistendo ai tentativi disperati di Lorenzo di levarselo dalla schiena.
Stringendo il fucile tra le dita, caricò verso il muro e schiacciò Tartaruga con la schiena.
Lorenzo si liberò del peso e gli rifilò un paio di calci ben assestati alla pancia e ai testicoli. Gli sputò sulle guance gonfie e livide e grugnì:
"Dopo penso anche a te, ciccione pervertito doppiogiochista".
I denti continuarono a girare vorticosamente su loro stessi spremendo dolore dai muscoli e riempiendogli i pettorali e l'addome di sangue caldo.
Rinunciò in fretta al mirino. Senza badare minimamente alla precisione e alla mira, Lorenzo prese a sparare alla cieca sulla piazza, nella disperata speranza che un proiettile colpisse il suo obiettivo.
Quando la prima cartuccia si scaricò, strinse gli occhi in una fessura e guardò il risultato della sua esercitazione.
Una decina di corpi stavano stesi sulle mattonelle grigiastre della piazza: donne, anziane, bambini stesi accanto alle loro biciclette, più un altro paio di corpi difficilmente identificabili che galleggiavano nelle acque rossastre della fontana.
Churchill stette lì esattamente dove lo aveva trovato, accovacciato tra le banchi colmi di cocomeri e meloni fracassati, con le mani sulla testa per proteggersi dalla polpa che schizzava via ad ogni colpo invisibile.
"Volevo solo portarti un po' di figa", cominciò a piagnucolare Tartaruga vicino a Lorenzo, massaggiandosi i testicoli, "a te piace la fica, pensavo ti piacesse. Non volevo darti fastidio, nemmeno lei voleva, voleva farti divertire un po' e..."
Lorenzo si voltò di scatto verso il letto a prendere un caricatore. L'accappatoio si aprì e il pene ricoperto di denti cariati sbatacchiò per un attimo contro il naso di Tartaruga, ammutolendolo.
"I denti...", balbettò Tartaruga.
"Si, certo", tuonò Lorenzo infilando con stizza il caricatore nel fucile, "i denti... non darmela a bere, Tartaruga".
Il suo telefono personale prese a vibrare sotto le lenzuola.
Tornato nella posizione di partenza, quella che si addiceva alla sua professione, con la canna appoggiata al davanzale e l'occhio infilato nel mirino, Lorenzo tornò a respirare, rivolgendosi bisbigliando al telefono sul letto aspetta, aspetta.
Fece coincidere il puntino nero del mirino al centro della fronte di Churchill e, in una manciata di frazioni di secondo, le sue cervella andarono a confondersi alla polpa rosa dei cocomeri sul marciapiede.
I muscoli si sciolsero di colpo, cogliendo Lorenzo alla sprovvista. Si lasciò cadere sul davanzale, rischiando di farsi cadere il fucile addosso.
Rise un po' tra sé e sé, stringendo il fucile tra le braccia tremanti e sudate.
Una macchiolina scura spuntò sul cavallo dei pantaloni grigi di Tartaruga per poi spandersi fino alle cosce.
Il volume delle risate sue risate impazzite crebbe fino riempire la stanza.
Tartaruga puntò le mani tozze sul pavimento e prese a strisciare in direzione della porta, tenendo gli occhi attenti e fissi su quella massa di muscoli, denti e sudore che sghignazzava sotto alla finestra.
Lorenzo mollò il fucile e afferrò le gambe di Tartaruga. Le dita affondarono nella carne come metallo fuso. Perfino attraverso i pantaloni si poteva sentire il la febbre che gli arroventava la carne.
Tartaruga invocò il suo nome, invano.
Le mani di Lorenzo restarono ancorate ai polpacci, poi scesero giù lacerandoli e si piantò nelle caviglie, squarciando i tendini.
"Lorenzo... lasciami...", implorò cercando di farsi forza e strisciare verso la porta.
Lorenzo ridacchiò, tenendo la testa china sul pavimento. Se Tartaruga avesse girato la testa, se avesse avuto la possibilità di vederlo, avrebbe trovato due occhi febbricitanti, spalancati verso il nulla.
"Lasciami in pace", gracchiò Lorenzo aumentando la presa fino a strappare i pantaloni.
Cominciò ad arrampicarsi e a strisciare su Tartaruga. I bordi seghettati dei denti graffiarono la cintura, lacerarono la camicia e penetrarono nella pelle attraverso il tessuto. Sottili strisce di sangue acceso si disegnarono sulla camicia.
Le narici di Tartaruga si riempirono di un odore acre e penetrante. Un odore così famigliare, memore di tante operazioni fallite, di tante infezioni che gli sono passate davanti ribollendo davanti agli occhi.
Lorenzo gli premette una mano sulle labbra e si avvicinò a Tartaruga finché non si trovarono naso contro naso.
A ogni mugolio, Lorenzo gli stringeva la presa introno sua bocca, fino a che non sentì la sua mascella schioccare sotto i palmi.
"Perché adesso non mi dice quanto è soffocante l'odore del fumo, eh?", disse Lorenzo.
Tartaruga avrebbe voluto dirgli che non aveva idea di cosa stesse dicendo, che se ne sarebbe andato se avesse voluto, che si era sbagliato come sempre, che se Lorenzo avesse voluto una donna per sé se la sarebbe andata a cercare, senza che quel grassone storpio venisse a portargliene una, che forse quella se la meritava una pallottola in testa, sé era così che Lorenzo riteneva più giusto e, soprattutto, avrebbe voluto scusarsi per avergli imbrattato i pantaloni di pipì.
"Lasciatemi stare", disse Lorenzo con la voce strozzata dalle lacrime.
Strinse gli strinse le mani intorno alla testa, fece scivolare i pollici lungo la pelle unta e squamosa e glieli posò sugli occhi. Appena fece pressione, le braccia e le gambe tozze di Tartaruga presero ad agitarsi come possedute. Lorenzo fece calare il ginocchio contro i suoi testicoli e vi si appoggiò tutto il tempo, girandolo e rigirandolo per tenerlo a bada. Il sangue prese a colare da sotto i pollici, imbrattandogli le guance in pochissimo tempo.
Poi, strinse ulteriormente la presa intorno alla sua testa, la sollevò da terra e prese a colpirla freneticamente contro il pavimento.
Tartaruga si sentì gli occhi esplodere a ogni colpo, a ogni "crac" del cranio contro il pavimento in legno. Le braccia partirono, le dita si mossero freneticamente sul pavimento come le zampette di un ragno in cerca di un appiglio.
Accompagnando ogni colpo a un urlo roco e inumano, Lorenzo continuò finché il cranio non gli si spezzò tra le mani e viscidi frammenti insanguinati di cervello non presero a schizzare intorno a lui.
Quando Tartaruga smise di lottare, Lorenzo appoggiò delicatamente la testa sul legno.
Si alzò in piedi e s'infilò le mani tra i capelli, respirando profondamente cercando di controllare il cuore.
Rimase in piedi a guardare il corpo di Tartaruga scomporsi in una danza convulsa, mentre sangue e vomito uscivano gli sgorgavano dalle labbra, finchéultimo rivolo di sangue trascinò dietro di se un dente sano, bianco e splendente, come quelli che spuntavano dalla pelle di Lorenzo i primi giorni di permanenza nell'hotel.
Lorenzo cadde in ginocchio, inerme, con i palmi rivolti verso l'alto, come in preghiera.
Rimase seduto in un angolino vicino al cadavere di Tartaruga. L'odore di piscio che gli impregnava le braghe cominciava a diffondersi nella stanza, mescolandosi all'odore di sangue e sudore stantio.
Fuori dalla finestra si stava scatenando l'inferno. Urla e pianti si univano in un unico indistinguibile magma sonoro. Sui muri lampeggiavano i fasci blu e rossi e dell'ambulanza e la sirena strillava nel disperato tentativo di abbattere il muro di macchine e passanti che si era formato intorno al luogo del massacro.
Il telefono di servizio continuava a vibrare sul comodino. Se l'Azienda avesse voluto conoscere l'esito della missione, gli sarebbe bastato cercare le notizie Ansa entro qualche minuto. Churchill non era più un affare che gli competeva.
Si alzò facendo schioccare i tendini e prese il telefono personale dal materasso, digitò il numero di Natasha e attese.
"Questa è la segreteria telefonica del numero 349087****. Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico".
Strinse i denti per la rabbia e parlò:
"Natasha, sono sempre io. Io...", accarezzò distrattamente le punte acuminate dei denti nuovi, che cominciavano ad assomigliare sempre di più ai canini di una bestia carnivora. Passò un polpastrello sui margini seghettati di un dente poco sotto il pettorale scolpito, ingoiò il pianto e continuò.
"So di disturbarti ma... ma devo vederti assolutamente. Dobbiamo vederci e andarcene di qui. Sta succedendo qualcosa".
Si mise a sedere sulla scrivania e aprì il computer. Aprì il browser, prese un bel respiro e digitò l'indirizzo di un sito internet.
"Non c'è bisogno che ti spaventi. Va tutto bene, nessuno ce l'ha con noi ma... quando possiamo vederci?", I singhiozzi si fecero così forti che a trattenerli gli parve di spezzarsi la faringe.
Il sito Sexywebcamgirls. com si aprì e cominciò a rovistare nel corposo menù di ragazze nella home page.
Scorse le pagine e individuato la frangetta nera di una ragazza nella miniatura, cliccò e attese.
Il pop-up della ragazza apparve. Stava sdraiata a pancia in giù su un materasso avvolto in un lenzuolo color verde pistacchio, in netto contrasto con i muri azzurri che lo circondavano. I due occhi castani a mandorla balzavano fuori dai margini dello schermo, contornati da una frangetta nera dentro cui i pixel chiari esplodevano e si ricomponevano.
La lunga schiena pallida si stendeva lungo il letto stropicciato. Agli occhi sofferenti di Lorenzo, la cruda luce bianca che la illuminava la faceva assomigliare a un essere puro e fragile alimentato di luce propria, questo nonostante la sensuale biancheria nera di pizzo e il piercing al sopracciglio. Una fila di orsacchiotti e altri animali di peluche circondavano il letto, continuamente percossi dai piccoli piedi di Natasha che si alzavano e si abbassavano suadenti nell'aria.
Un piccolo sorriso dolce si fece strada nel viso arrossato di silenzio per poi spegnersi di colpo.
"Ti vedo che sei lì. Perché non rispondi, che cavolo. È importante, mi conosci...".
Un lungo segnale acustico comunicò lo scadere del tempo. Guardò il telefono e lo gettò sulla scrivania.
Guardò Natasha sorridere e ammiccare alla telecamera, esibendosi in balli goffi con lo sguardo che a volte si spegneva lontano dietro la webcam.
Il telefono vibrò.
Il nome di Natasha lampeggiava insieme alla luce blu del display. Lorenzo guardò incredulo lo schermo, dove Natasha aveva deciso di raccogliersi in fondo al letto per coccolare uno dei peluche. Il telefono continuava a vibrargli nelle mani lerce di sangue appiccicoso e schegge d'osso.
Avvicinò il telefono all'orecchio, indugiò e rimase in attesa.
"Pronto?" rispose una voce femminile.
"Pronto? Natasha?"
"Ho trovato delle chiamate perse da questo numero. Con chi parlo?"
Sullo schermo del computer, Natasha guardava dritto verso la webcam con le braccia piegate dietro la schiena in procinto di slacciarsi il reggiseno.
"Sono io, Lorenzo", disse fissando il nastrino rosso in mezzo ai suoi seni.
"Lorenzo?"
"Si. Lorenzo".
"Sei l'amico di Lara?"
"Chi è Lara?"
"Allora forse hai sbagliato numero..."
"Tu non sei Natasha", disse digrignando i denti.
La voce mandò un lamento simile a un singhiozzo e rimase in silenzio, interdetta.
"Io sono chi mi pare", rispose stizzita.
"Ti vedo qua, sullo schermo. Natasha è sul letto, si sta togliendo...", rimase un attimo paralizzato a vedere i seni di Natasha sobbalzare liberi dal reggiseno.
"Sei uno della Web Chat?"
"Io...", Un odore forte e famigliare cominciò a vibrare nell'aria, gli penetrò nelle narici, ma questo non bastò ad attirare la sua attenzione, "Sono Lorenzo...", disse con voce strozzata.
Non ci fu risposta. Solo un silenzio innaturale e il click della chiamata interrotta. La Natasha sullo schermo era impegnata a far roteare il bacino di fronte alla telecamera con i pollici infilati nelle mutandine, pronta a levarsele da un momento all'altro.
Lorenzo la guardò con il collo stretto in una morsa. All'inizio credette che fossero le lacrime a bruciargli gli occhi e a mozzargli il fiato.
Poi, riconobbe l'odore pungente di poco prima e vide la benzina scorrere da sotto la porta e inondare il pavimento.
Si avventò sulla porta e afferrò la maniglia con entrambe le mani. Trovandola bloccata, girò la chiave e provò di nuovo.
Continuò a strattonare grugnendo e piagnucolando per la disperazione, mentre la benzina gelida continuava a scorrergli sotto i piedi.
Per un secondo, pensò a quanto gli piacesse l'odore della benzina da piccolo fino ad adulto, quanto amasse andare nelle stazioni di servizio e respirare quell'odore metallico che in quel momento gli stava annunciando morte imminente.
I muri e il soffitto in legno cominciarono a scricchiolare intorno a lui, gonfi della benzina che assorbivano direttamente dal pavimento.
I denti non gli davano pace, tremando e sussultando in perfetta linea con il suo stato emotivo. Un calore improvviso gli bruciò i palmi della mani.
Indietreggiò, allontanandosi dalla maniglia incandescente. Le fiamme scivolarono sotto la porta, ricoprendo il pavimento e i muri come un telo.
Le fiamme gli afferrarono le caviglie, si arrampicarono lungo le gambe e penetrarono sotto i denti, entrò nei polmoni, viaggiò sotto la pelle e gli esplose negli occhi.
L'ultima cosa che vide Lorenzo dietro quella patina di gas fu una lunga ombra proiettata nel tappeto di fiamme, la silhouette di una bambina che fuggiva con i capelli lunghi e lisci che fluttuavano nell'aria.
"Ricordi come è iniziata, Lorenzo? Lo sai perché sei qui? Lo sai perché fai quello che fai?"
Lorenzo si risvegliò con la bocca impastata di fumo e cenere. La stanza si era ridotta in una massa nera e grigiastra. L'unica cosa che aveva ancora una parvenza di consistenza era il computer portatile ridotto a una bolla informe fusa con il pavimento.
Poco lontano dalla sua testa, un cellulare continuava a vibrare in mezzo alla cenere. Fece per muoversi ma la pelle fusa al pavimento lo tenne inchiodato a terra.
Uno strato di pelle sotto il braccio si lacerò facendo un rumore simile a quello di un pezzo di carta. Lorenzo urlò dal dolore e si divincolò, strappando altra pelle sulle gambe e sulla schiena.
Fece cadere la testa a terra si abbandono al pianto. Le punte curve dei denti si fusero alla pelle. Ormai avevano perso ogni forma che permettesse di ricondurli a dei denti.
La porta si aprì cigolando. Lorenzo continuò nel suo pianto, immaginando che ad entrare fosse l'ombra della bambina che aveva dato fuoco alla stanza, la stessa che gli aveva parlato al telefono, la stessa che gli chiese se si ricordava l'odore del fumo.
Piegò leggermente la testa verso la porta e trovò una sagoma nera all'ingresso. Pareva l'ombra di una donna alta e dalle forme agili e sensuali. Il taglio dei capelli a caschetto alla cinese gli rivelarono la sua identità.
"Natasha...", gemette Lorenzo con le sue ultime forse.
La sagoma si avvicinò a lui. Natasha uscì dall'ombra, sorridendo dolcemente e con la luce del sole che vibrava dentro i suoi occhi a mandorla.
Posò l'indice alle labbra e sussurrò dolcemente:
"Shhh".
La sua pelle, bianca e lucente come l'aveva vista nella webchat, era ricoperta da tatuaggi edere nere che si contorcevano e si legavano tra di loro lungo tutto il corpo.
"È stata una settimana lunga, Lorenzo".
Si piegò sulle ginocchia e, con una grazia e una dolcezza che lo placarono, si sdraiò su di lui. Gli accarezzò la fronte sudata, passò la mano sulle guance roventi e tornò su per spostargli i capelli fradici di sudore dietro l'orecchio.
"Perché sei tornato? ".
"Sei bellissima", disse Lorenzo commosso, "sei ancora bellissima".
"Shhh", gli posò l'indice sulle labbra, "è l'ora di ricordare, Lorenzo. Lo ricordi adesso l'odore del fumo?"
I tatuaggi si animarono. Le edere si separarono dal corpo di Natasha e presero a strisciare nell'aria, vagando sinuose e confuse nel vuoto.
Poi, s'irrigidirono di colpo e puntarono dritte sui denti incastonati nel corpo di Lorenzo. Vi girarono intorno e gli accarezzarono. Le edere si scissero e si moltiplicarono. Estrassero i denti uno ad uno, mentre Natasha teneva stretto il corpo di Lorenzo agitato per il dolore.
Estratti tutti i denti, le edere entrarono nelle ferite pulsanti e penetrarono nei muscoli. Le mani e le braccia si agitarono incontrollate.
Un formicolio impazzito e pungente si diffuse in tutto il corpo. Un sapore dolce e vischioso gli riempì la bocca e la stanza cominciò ad allontanarsi pian piano, finché non restarono le sensazioni del vuoto sotto il suo corpo e delle morbide dita di Natasha attorno alle sue spalle.
"Torna a ricordare, Lorenzo, ti prego".
Lorenzo tornò a ricordare.
I ricordi cominciarono a spandersi e gonfiarsi nella mente bruciata nelle fiamme. Tutto cominciò ad apparire così pacifico, così dolce...
II. Primi scricchiolii.
Ritornando indietro nel tempo, lo Zeitgeist Hotel si sciolse nell'aria, lasciando posto alle colline traboccanti di luce sotto il sole primaverile.
Il piccolo Lorenzo stava seduto in cima a una di queste colline, mentre il vento gli accarezzava la testa rasata da cui spuntavano pochi millimetri di capelli biondi. Rivolgeva il viso imbronciato verso il paesaggio sconfinato di colline e campi, in cerca di consolazione, o forse anche solo di riposo dopo una lunga mattinata a scuola. I bambini non la smettevano di prenderlo in giro. Per la sua costituzione magra ed emaciata, i lineamenti rigidi del viso e le guance scavate si era guadagnato il soprannome di "deportato". Mamma e papà non potevano permettersi dei vestiti nuovi, per cui era costretto a indossare i vestiti di qualche anno prima di un paio di taglie più larghi, che di certo non lo aiutavano a riscattarsi.
Appena il sole cominciò a bruciargli il viso, si alzò e s'incammino verso casa tenendo lo sguardo verso il basso per proteggere gli occhi dal sole accecante.
Per strada incrociò un viso nuovo, una ragazzina che trainando a sé una vecchia bicicletta rosa stava risalendo la collina in direzione opposta alla sua.
I loro sguardi s'incontrarono e si comunicarono reciproca curiosità. I loro vestiti si sfiorarono, e ognuno proseguì per la sua strada.
Lorenzo pensò a lei tutto il giorno e non smise fino alla fine dell'estate. Quando mai aveva visto un visto così grazioso?
Tornò nella sua casetta. Diede due frettolose carezze al cane, chiuso nel recinto di legno e metallo costruito dal padre qualche settimana prima e si fiondò in casa a mangiare.
Mamma aveva lasciato un piatto di pasta al pomodoro sopra il piano cottura ed era scappata al lavoro, lasciandolo a mangiare da solo col padre, ancora scocciato per i pagamenti delle bollette accumulate per mesi.
Mangiarono praticamente in silenzio, rivolgendosi poche parole.
Finito il piatto, corse in camera, prese la lente d'ingrandimento sepolta sotto i libri di scuola e corse in cortile a giocare.
Si sedette a gambe incrociate vicino alla scalinata di pietra dell'ingresso e attese.
Una lunga fila di formiche spuntò da un buchetto nel muro e marciarono disciplinate verso di lui. Si voltò per controllare se il sole fosse nella posizione giusta. Inclinò leggermente la lente e attese che il fumo ricoprisse emergesse da una delle formichine, rompendo la fila.
Diede un nome e una faccia a ogni formica che rosolava sotto la sua lente d'ingrandimento: Marcello, il ciccione che lo chiamava "deportato vomitone" da quella volta che in fila per andare in classe vomitò sul pavimento dell'atrio davanti a tutta la scuola. Luca, il primo bambino a chiamarlo "deportato" davanti a tutti, durante un intervallo in cortile e Giovanni, che ogni volta che lo prendevano in giro lo guardava pieno di pena e poi si univa alle risate degli altri, troppo fifone per difenderlo e compromettersi.
Alla fine rimase solo una manciata di puntini neri informi sparsa per il terreno. Lorenzo li guardò e un pensiero elementare gli attraversò la mente: prima erano qui a marciare e a camminare per il cortile e adesso non c'erano più, sparite nel nulla, chissà dove.
La cosa lo incuriosì anche quando dopo afferrò una mosca con un agile gesto della mano. Avvicinò l'orecchio al pugno per sentirne il ronzio e poi la lanciò violentemente contro il tavolo. Stessa questione, prima c'era e adesso non c'era più, eppure la vedeva, lì immobile. La morte gli parve una faccenda molto semplice ed elementare in quel momento, un calcolo semplice ed inevitabile. Chissà perché la gente se ne preoccupava così tanto...
La bambina nuova frequentava la sua scuola. La mattina dopo il loro incontro si presentò di fronte tutta la classe. Con un fortissimo accento russo disse di chiamarsi Natasha. I suoi genitori erano di San Pietroburgo ma era nata a Bologna. Parlava italiano solo da qualche anno, in casa sua si parlava una volta russo e una volta italiano, così che non si allontanasse dalle sue origini e allo stesso tempo potesse integrarsi facilmente nelle scuole. Viveva dai nonni in una cascina non troppo lontano dalla piazza del paese.
"E perché non vivi con i tuoi genitori?", chiese bruscamente Marcello alzando la mano.
In quel momento, gli occhi di Natasha passarono dal timido allo sconvolto, si guardò intorno come cercando aiuto, ma trovò soltanto sguardi curiosi e annoiati. Per pochi secondi interminabili, si fissò su Lorenzo.
Non capì il motivo del suo disagio in quel momento, finché non vide la giovane maestra imbarazzata.
"I miei nonni dicono", disse Natasha titubante, "che adesso sono in cielo e che mi fanno la guardia in mezzo alle nuvole seduti sulle spalle del Signore".
Seguì un silenzio spezzato dalla risata trattenuta di Marcello. Le sue guance si arrossarono per lo sforzò e cominciò a sudare. Poi scoppiò a ridere con l'enorme pancia che ballava su e giù sfregando contro il banco.
Natasha impallidì e le lacrime cominciarono a colare pesanti sulle guance bianche e paffute. Guardò la maestra, spinse il banco lontano da sé e scappò via nascondendo la faccia nelle mani. La maestra guardò Marcello piena di rabbia e vergogna..
"Porta qua il tuo diario, Marcello".
"Ma..."
"Niente storie. Porta qui il diario. Subito".
Marcello si avvicinò alla cattedra con la coda tra le gambe, appoggiò il diario e tornò al posto.
La maestra sfogliò il diario, alzò le sopracciglia e disse:
"Questa è la terza nota. Sai che adesso dovrò chiamare i tuoi genitori".
Marcello scoppiò a piangere e supplico la maestra, tutto sotto lo sguardo divertito di Lorenzo.
Il mattino dopo, Lorenzo stava seduto sulle gradinate del cortile, fingendo di giocare con un Game Boy scarico mentre di tanto in tanto spiava Natasha intanto che mangiava un toast al formaggio fresco in cima allo scivolo.
In quel momento, con le guance gonfie di cibo e gli occhi scuri e malinconici persi nel vuoto, gli parve una creatura fragile, un tesoro prezioso da proteggere che non avrebbe dovuto conoscere pianto o dispiacere.
Frugò nella sua mente ma non trovò una frase bella o carina con cui approcciarsi. Alla fine decise semplicemente di venirle incontro. Magari sarebbe stata lei la prima a farsi avanti. Camminò con passi timidi e insicuro verso la piccola figura di Natasha si faceva sempre più grande e vicina. Poi, qualcosa lo urtò e lo spinse di lato gettandolo terra. Il culone di Marcello gli coprì la visuale e si fermò insieme a Luca e Giovanni sotto lo scivolo, fermi a guardare Natasha con sfida.
La maglietta a maniche corte di Marcello riusciva a nascondere a malapena i grossi lividi verdastri che gli coprivano le braccia.
"Scendi", disse Marcello. Quando cercava di apparire cattivo, la sue voce risultava stridula e strozzata, come se fosse sul punto di scoppiare a piangere.
Natasha ritrasse le gambe dallo scivolo e se le portò al petto.
"Mio fratello dice che Natasha è un nome da puttana. Lo sai? Sei una puttana!", urlò Marcello.
Luca e Giovanni si arrampicarono e Marcello si mise davanti allo scivolo bloccandole ogni uscita. Giovanni guardò prima Marcello con uno sguardo carico di insicurezza e poi Natasha. La spinse giù dallo scivolo. Natasha rotolò giù, ma riuscì a frenare la discesa con le ginocchia e si aggrappò ai bordi dello scivolo. Marcello l'afferrò per le caviglie e la trascinò a sé. Natasha scivolò giù strillando come una disperata, finché non colpi con i denti il fondo dello scivolo. Un dente saltellò giù e si posò insanguinato sull'erba del cortile. Luca e Giovanni si guardarono increduli e fuggirono terrorizzati.
"Chiama mamma e papà, adesso", disse Marcello con la solita vocina piagnucolosa e corse via, pestando il dente poggiato sull'erba.
Lorenzo rimase lì, immobile a guardare Natasha rialzarsi e asciugarsi il sangue e le lacrime dal mento.
Seguendo l'istinto, si girò, rivolgendole le spalle sperando che non lo avesse riconosciuto o notato e se ne andò.
Guardò Marcello, Luce a Giuseppe scappare via e passare vicino a un grande sasso appuntito vicino alle panchine. S'immagino afferrare la pietra e fracassargli il cranio con la la parte appuntita del sasso.
Passò vicino al sasso, vi appoggiò lo sguardo e accelerò il passo.
Quel giorno, Marcello non poté risalire al padrone dell'escremento che riempiva completamente il suo nuovo astuccio.
Pianse per tutta la lezione e tutto il cambio d'ora, spingendo via i bambini che si avvicinavano per chiedergli che cosa fosse successo.
Poi, puntò lo sguardo verso Lorenzo. Si pulì il muco con l'avambraccio e lo indicò col dito.
"È stato il deportato, per forza!"
Lorenzo sobbalzò dalla sedia. Guardò Marcello con la bocca aperta dallo stupore. Con la coda dell'occhio vide Natasha guardare verso di lui piena di apprensione.
"Non è vero!".
"Provalo!".
Lorenzo rifletté un poco, poi rispose.
"Perché Luca mi chiama "vomitone". Se fossi stato io ci avrei vomitato, mica ci avrei cagato".
La classe scoppiò in una sonora risata. Natasha sorrise dolcemente in mezzo ai bambini e guardò Lorenzo con ammirazione.
Marcello si guardò intorno perplesso, poi si unì ai sorrise. La maestra arrivò e tutti ritornarono al loro posto.
"Cose quella roba lì, Marcello!", urlò la maestra disgustata indicando l'astuccio, "Portami qui il diario, subito!".
Col passare del tempo Natasha divenne la sua piccola ossessione. Venne addirittura a scoprire dove abitava, gironzolando qua e là per le campagne. Abitava nella cascina poco fuori il paese, tra la piazza e la campagna. Quel casolare lo aveva sempre inquietato, sia di giorno che di notte. Pareva abbandonato da secoli. Decine di proprietari e nessuno che si degnasse a ristrutturarlo un minimo. I ragazzi più grandi dicevano che la sera certi tizi coperti dalla testa ai piedi da tuniche di seta nera si riunivano proprio lì e andavano a sacrificare degli animali per i demoni del sottosuolo. I proprietari del casolare erano ovviamente tra i membri di questa setta ed erano più che disponibili a lasciare la loro dimora ai loro compagni satanisti per idolatrare Satana.
Questo di certo non fece bene alla reputazione di Natasha. Agli occhi di Lorenzo queste voci valevano meno che nulla, in qualche modo la rendeva abbastanza affascinante. Alla fine, mettendo che fosse la verità, i loro riti non si discostavano molto dalle attività pomeridiane di Lorenzo con mosche, formiche, lucertole e ogni animale che gli capitava a tiro.
Solo una cosa lo teneva alla larga da quel posto, ovvero l'enorme mastino napoletano legato a un palo di metallo ai margini del cortile.
Ogni volta che Lorenzo passava davanti al casolare con la speranza che Natasha passasse davanti a una delle finestre, quel dannato cane impazziva, dimenandosi inferocito, facendo schioccare la catena al palo di metallo, abbaiando, guaendo e schizzando bava ovunque fissandolo con quegli occhi gialli e feroci.
In quel momento alla finestra si affacciava la nonna di Natasha. Un donnone grosso e tozzo con gli occhi stretti in una fessura dietro enormi occhiali tondi simili a fondi di bottiglia.
Perlustrava il cortile reggendo la stanghetta degli occhiali tra le dita in cerca dell'intruso con espressione severa, la stessa che rivolse a Lorenzo quando scoprì che era Lorenzo e la sua famiglia quando qualche giorno dopo scoprì essere lui il mittente di quel regalo orrendo.
Natasha continuava a ignorarlo, mattina dopo mattina. Lorenzo era praticamente invisibile, in classe, in cortile, in mensa. Per lei non c'era e non c'era mai stat, senza che qualcuno intervenisse per bruciarlo sotto una lente d'ingrandimento o strappargli le braccia. Voleva lasciarle un segno, un segno del suo amore, così che sapesse che occupava i pensieri di qualcuno che avrebbe desiderato proteggerla dai nonni severi, dai compagni crudeli e, perché no, anche dal suo mastino napoletano.
Durante il pranzo in mensa, Giacomo, il giullare di classe, come a ogni pranzo s'infilò due pompelmi sotto la maglietta e cominciò ad accarezzarli con foga come fosse un seno prosperoso, ammiccando verso i compagni con la punta della lingua che spuntava da un angolo della bocca.
Tutti scoppiarono a ridere a crepapelle, Natasha compresa, mettendo in bella mostra lo spazio nero che Marcello e i compagni gli avevano lasciato tra un incisivo e il canino.
Lorenzo guardò la guardò sorpreso e affascinato. Natasha lo notò subito, chiuse in fretta la bocca, arrossì e continuò mangiare timidamente tenendo la testa bassa, come se questo fosse bastato ad allontanarlo da lei.
Sotto il cocente sole pomeridiano, la lucertola si dimenava in preda al panico tra le piccola dita tozze di Lorenzo, scossa e frastornata dalla frattura del quotidiano causata da quella mano gigante che lo aveva afferrato e lo aveva strappato via dal suo muretto per trascinarlo sopra un tavolino di plastica bianco inscurito da terra e polvere.
Il gigante lo guardava inespressivo con i suoi enormi occhi blu e gli accarezzava la spina dorsale con il polpastrello.
Fece viaggiare le dita lungo il corpo ricoperto da squame. Si fermò sulle zampe e gliele spezzò, lasciandolo sul tavolo alle prese con una danza disperata e convulsa.
Come aveva potuto mettere Natasha così in imbarazzo? Non avrebbe dovuto guardarla così, dritto dove il dente non c'era più?
La coda della lucertola schioccava contro il tavolino. Lorenzo tirò fuori il coltellino svizzero per cui aveva pregato tanto la mamma mesi prima per il suo compleanno. Aprì la lama, la guardò rischiando di restare accecato dal riflesso del sole sul metallo. Strinse la lucertola tra il pollice e il medio e le segò via la coda. Concentrò tutta la rabbia possibile sulle lucertola. Passò la lama lungo il ventre, ne estrasse le viscere servendosi dello stappa bottiglie a capo del coltellino, e intanto lo sguardo imbarazzato e diffidente di Natasha era ancora fisso nella sua testa.
"Che fai, Lorenzo?".
Papà stava in cima alle scale con la mano ancora stretta intorno alla maniglia della porta. Anno dopo anno le sue rughe si facevano sempre più profonde, tatuandoli sulla pelle la fatica di decine e decine di ore di lavoro in cantiere sotto il sole. Si era messo i vestiti di lavoro ed era pronto per il turno pomeridiano.
"Gioco", disse coprendo la lucertola sotto la coppa della mano.
"Va bene. Ma poi fai i compiti, eh?", rispose papà con voce stanca, quasi sconsolata.
"Certo".
"Ci vediamo a cena. Ti voglio bene", se ne andò via zoppicando, come cercando di tenere in equilibrio la fatica della vita sulla schiena curva e dolorante.
Il caldo era tale che le interiora della lucertola si erano già incollate al tavolino. Eccola lì. Prima c'era, e adesso non c'era più. Il muso del rettile appariva privo di espressione, esattamente come lo aveva trovato sul muro. Forse la bocca era diversa, leggermente piegata all'ingiù, come in un'espressione di sofferenza e dolore.
L'occhio gli cadde su un sasso posato sopra un ciuffo d'erba vicino alle scale di pietra. Un idea lo trapassò da tempia a tempia. Si leccò le labbra, poi si passò la punta della lingua lungo i denti e si fermò sopra l'incisivo sinistro, lo stesso che aveva perso Natasha.
Sorrise e l'emozione di vedere lo stesso sorriso sul volto di Natasha gli riempì le guance di un calore dolce, lo stesso calore che avrebbe potuto trasmettere un suo abbraccio.
Il giorno dopo andò alla cascina. Il cotone gli riempiva la bocca e il dolore che dal nervo gli faceva pulsare la testa.
Appena arrivato, il mastino lo puntò e si gettò verso di lui. La catena lo trattenne al palo e lo trascinò indietro come uno yo-yo. Il suo guaito echeggiò per la strada e la nonna di Natasha uscì dalla cascina con la scopa stretta tra le mani grasse.
Guardò con sguardo furente il cane, poi verso Lorenzo, timido e tremante di paura ai margini del cortile.
Si aggiustò gli occhiali, mise a fuoco la macchiolina marrone che stava nel suo cortile e riconoscendo il bambino, il suo viso si rilassò. La sua espressione rimase comunque severa tutto il tempo, e così era sempre stata, sin da quando era venuta al mondo.
Zoppicò verso il cane, facendo ballonzolare il suo grosso fondoschiena coperto dall'abito verde pistacchio che a malapena riusciva a contenere i rotolini che spuntavano in rilievo dal tessuto.
Colpì il cane tre volte con il manico di scopa, urlando imprecazioni in una lingua sconosciuta. La bocca gli si seccò. Rimase a fissare la donna mentre guardava minacciosa il cane gli puntava il dito.
Il mastino rimase seduto sulle quattro zampe a guaire e guardare la padrona con gli occhi carichi di paura e dolore.
"Sei amico di Natasha?", chiese la vecchia continuando a fissare il cane con entrambe le mani ben strette intorno al manico.
Lorenzo rimase muto a fissare l'arma della vecchia.
"Si? No?"
"Si", rispose in una sola emissione vocale che sembrava un guaito.
La vecchia si girò e tentò un sorriso. Paradossalmente, sembrava quasi più severa dietro quel sorriso che pareva canzonatorio.
"Non può venire adesso. Aiuta mio marito a lavorare. Raccolgono i campi. Cos'hai lì?"
Lorenzo stringeva nel pugno un fazzoletto bianco. Una piccola macchiolina rosso scura spuntava fuori in mezzo al bianco candido del tessuto.
"Niente", rispose Lorenzo.
"Allora cosa fai qui?", la vecchia appoggiò i pugni sui fianchi e si piegò leggermente in avanti verso di lui.
"Natasha non può uscire un attimo? Devo darle questo. È per scuola".
La vecchia piegò la testa e scrutò il bambino con gli occhi piccoli resi giganti dalle lenti. Sbuffò e andò dietro il casolare.
"Natasha. C'è tuo amico che deve darti roba di scuola".
Natasha uscì correndo, piena di curiosità. Si fermò di colpo poco davanti al fienile. Fissò per un attimo quel bambino che la spaventava tanto a scuola. Fece per tornare indietro, ma, all'ultimo, ci ripensò.
Guardò la sua mano che tremava nervosa stringendo un fazzoletto. Il suo terrore la rassicurò. Avanzò e trovatasi a pochi passi da lui si fermò, sussurrò un "ciao" e lo guardò curiosa.
L'odore di Natasha era nuovo e dolce. La sua immaginazione vibrò, ma era ancora troppo giovane per poter associare quel profumo a qualcosa di altrettanto dolce.
Nemmeno crescendo Lorenzo poté associare quel profumo a un ricordo particolare. Si era perso tra le pieghe frastagliate dei ricordi, vanificandosi missione dopo missione.
Succedeva sempre ed era successo pure con il falso Churchill. Ogni volta che un cranio si spaccava attraversato da una pallottola, ogni volta che il sangue macchiava l'aria andando a infrangersi contro i muri, i pavimenti, macchiando i vestiti; ogni volta che un bossolo tintinnava rimbalzando sul pavimento, in mezzo all'odore di polvere da sparo, quell'odore così dolce simile al latte gli riempiva le narici per una brevissima frazione di secondo e tutto sembrava artificiale, lontano. Quell'odore lo portava in un posto sicuro dove non c'era niente da temere, dove la morte era qualcosa di più complicato della semplice formula "prima c'è, adesso non c'è più" tramutandola in una lacerazione dove quell'odore avrebbe cessato di esistere..
"Il nonno mi sta aspettando", disse Natasha.
"Vieni a scuola domani?".
Natasha lo guardò dubbiosa.
"Si...".
"Bene", un leggero sorriso gli gonfio le guance scavate. Natasha spalancò leggermente gli occhi a vedere che a quel bambino strano ed emaciato gli mancava lo stesso dente che aveva perso in cortile qualche giorno prima. Tornando serio, le porse il fazzoletto e Natasha lo prese con cautela senza levargli lo sguardo gli occhi di dosso.
"È per te. Adesso devo andare", disse nervoso.
Alzò meccanicamente la mano in segno si saluto e scese giù verso la piazza, promettendosi di non guardare indietro.
Natasha rimase in piedi nel cortile del casolare, mentre la polvere turbinava intorno a lei spinta dal vento.
All'interno del fazzoletto c'era qualcosa di piccolo, duro e fragile, simile a una pietrina. Lo aprì e trovò un incisivo. Un pezzo di radice sporgeva ancora dal dente e due macchioline di sangue macchiavano lo smalto giallognolo.
Sul fazzoletto, Lorenzo aveva lasciato un messaggio, scritto a lettere grandi con una calligrafia incerta e tremolante.
"Mi dispiace per il tuo dente. Scusa se non ho fatto niente. Ti regalo il mio. Tu devi essere bella sempre".
La nonna urlò il suo nome da dietro il casolare. Natasha richiuse il fazzoletto, lo infilò nella tasca posteriore dei pantaloni e corse verso l'orticello con un leggero sorriso stampato sulla faccia, pregando che la nonna non trovasse mai quel fazzoletto.
Il resto dei giorni, Lorenzo li passò a chiedersi che cosa fosse andato storto. I suoi genitori non avevano preso benissimo la sua bravata.
"Sono stati Marcello e i suoi amici", disse ai genitori per giustificarsi.
La mamma, stanca e frustrata dai turni doppi in ristorante, era già pronta a svegliarsi di buona lena la mattina dopo e costringere le maestre a prendere le misure necessarie. Papà la fermò, disse che così gli avrebbe rovinato la reputazione, gli restavano ancora due anni di scuola e non poteva passarli come quello che chiamava la mammina a ogni problema.
Lorenzo era di gran lunga più maturo e sveglio degli altri bambini, lo sapeva perché glielo dicevano gli altri genitori, e sicuramente se ne sarebbe uscito in maniera adulta e intelligente.
Una strigliata dalla mamma, un'intera sera a dover incrociare il suo sguardo accigliato e diffidente, solo per rendersi più invisibile agli occhi di Natasha.
Ogni volta che cercava il suo sguardo a lezione, lei affondava la testolina nei libri, o si girava mostrandogli le spalle. In cortile gli passava di fianco con passo svelto e la testa china. La sua presenza sembrava turbarla.
Una mattina, durante l'intervallo, Lorenzo prese coraggio e si diresse da lei, seduta sui gradini della scuola a mangiare il suo toast in solitaria.
"Ciao".
Lorenzo rimase in piedi a guardarla, in attesa di una risposta. Natasha continuava ad addentare e masticare il suo panino guardandogli le scarpe.
"Gli altri giocano a strega comanda colore e...".
Natasha scattò in piedi, facendo cadere il panino nel fango e spinse via Lorenzo con tutta la poca forza che aveva.
Lorenzo finì per terra e rimase lì, troppo sconvolto e confuso per scoppiare a piangere.
"Lasciami stare! Non mi parlare! Lasciami stare!"
Strillò fino a che la sua voce non divenne un gorgogliare roco che le graffiava la gola. Compagni e maestre accorsero, disponendosi in cerchio intorno ai due.
Un muro di facce curiose gli fece ombra. Gli occhi sbarrati, vuoti, le bocce spalancate serrarono la gola del piccolo Lorenzo, frantumandola completamente quando vide il volto gonfio di lacrime di Natasha. Sembrò essere passata un'eternità tra il tempo in cui i bambini si radunarono nel cortile e quello in cui le maestre intervennero prendendo Natasha per il braccio, strillando e chiedendole cosa fosse successo.
In quel momento, Lorenzo notò una macchia sulla guancia di Natasha, fino a quel momento coperta dai capelli neri. Una grosso livido violaceo dai contorni arrossati su cui era spuntata una colonia di macchioline rosse.
"Non lo voglio più vedere!", riprese a strillare Natasha come un'ossessa.
Ogni strillo era un peso sul petto e uno scricchiolio in quel terreno sicuro in cui si posava il suo amore per Natasha, e in quel momento, Lorenzo desiderò che non ci fosse più.
Le conseguenze negative portate dall'attacco di Natasha non si fecero attendere troppo. Solo il giorno dopo i nonni arrivarono a bussare alla porta di casa Damiani.
La nonna sembrò ancora più minacciosa e massiccia della prima volta che l'aveva incontrata. Il nonno era la sua perfetta antitesi. Un uomo provato, percorso dalla stessa stanchezza che attraversava la pelle del signor Damiani. I suoi occhi comunicavano lo stesso sentimento arrendevole che comunicavano quelli del padre, solo che i suoi erano occhi umidi e lattiginosi che diluivano l'azzurro glaciale degli occhi che furono.
Rimase tutto il tempo in disparte, alle spalle della moglie con le braccia incrociate dietro la schiena gobba che trascinava a fatica.
"Vogliamo delle scuse", disse la nonna con il solito accento, parlando per tutta la famiglia.
La mamma di Lorenzo rimase interdetta per qualche attimo. Un vago lampo di apprensione le attraverso gli occhi alla vista di Natasha che sporgeva leggermente dalle braccia robuste della nonna mostrando il broncio.
"Scuse per cosa?".
"Il vostro bambino è pazzo! Pazzo!."
"Come si permette?", disse mamma appoggiando i pugni stretti contro i fianchi.
Non si seppe se la nonna s'interruppe per mancanza di argomenti o di vocabolario. Rimase a fissare la famiglia Damiani stringendo e rilassando le labbra a intermittenza, come se si stesse rigirando nel palato un boccone bollente. Poi infilò la mano nel tascone dell'abito a fiorellini rosa e tirò fuori il fazzoletto contenente il dente di Lorenzo.
Il sangue si era seccato lasciando macchie scure e dense sul fazzoletto e lungo i margini del dente.
"Ha lasciato questo alla mia bambina. L'ha spaventata a morte. Questo non è un gioco, è una minaccia!".
"Era un regalo", strillò all'improvviso Lorenzo dietro le spalle della madre, "Non volevo...".
"E che regalo è? Si può sapere?", allungò il fazzoletto verso la famiglia riunita sulla soglia dell'entrata, poi lo mostrò al nonno e a Natasha, che reagì stringendosi ulteriormente dietro la nonna.
""devi restare bellissima"", lesse allontanandosi dal fazzoletto e strizzando gli occhi, "la prende in giro, ecco cosa!".
"È vero Lorenzo? Quindi lo hai fatto apposta?", disse la mamma girandosi verso Lorenzo rivolgendogli uno sguardo severo.
Lorenzo fecce un passo indietro e guardò timoroso la madre. Rimasero a guardarsi. Lo sguardo della madre si ruppe, umiliata e impotente di fronte alle accuse della nonna. Si girò affranta verso la nonna, stringendo le labbra in segno di impotenza.
Il nonno e il signor Damiani assistevano alla scena come spettatori casuali a un litigio per strada. Erano ragazzate, niente di più. Le due donne cercavano semplicemente una scusa per scannarsi, smuovere le acque e dare una scossa alla giornata.
"Io non voglio più che vostro figlio veda la mia nipotina", si piegò per guardare Lorenzo negli occhi, "hai capito? Io vi denuncio a voi. Smettila di perseguitarla".
Si girò e afferrò Natasha per il braccio, fece un cenno al marito per dire "andiamocene" e questo la seguì come un cane bastonato.
"Siete piccoli. Voi non vi innamorate. Non vi innamorate di nessuno", disse allontanandosi trascinandosi dietro la polvere e il fruscio dei sassolini sul terreno.
Passarono un paio di mesi. Le scuole finirono e le brezze d'estate lavarono via tutto il dolore. Non era più stagione per camminare nelle campagne sotto il sole cocente. La sera era il suo momento preferito della giornata. Era abitudine uscire di casa, verso le nove e mezza, dire a mamma e papà che "usciva per andare fuori con gli altri" e poi vagare per le stesse strade a vedere le stesse colline con i contorni che luccicavano della luce della luna.
Quella sera mamma e papà non se ne preoccuparono. Risposero con un vago cenno della testa e un grugnito di accondiscendenza, mamma mentre sparecchiava, papà davanti alla tv, piegandosi in avanti per sentire meglio le notizie della sera mentre Lorenzo annunciava la sua uscita.
Prese il solito giaccone color cachi buono per tutte le stagioni e si legò alla vita il marsupio grigiastro con la stoffa ormai consumata.
La brezza gli entrava sotto la maglietta e gli faceva venire piccoli e delicati brividi di piacere. Tutto sembrava dolcemente alterato nelle sere d'estate. Camminava ciondolando sulla strada deserta, mentre il frinire delle cicale e le urla dei ragazzi che giocavano al circolino degli anziani s'intrecciavano creando un morbido tappeto sonoro che lo accompagnava dolcemente nella sua strada. Arrivato in cima alla salita si fermò di colpo, come seguendo l'istinto. Si girò e trovò la cascina della famiglia di Natasha immersa nel buio e nella vegetazione come un ologramma.
La luna si rifletteva sui muri bianchi, conferendole un aspetto tetro e irreale. Il buio giocava con i suoi occhi, trasformando l'edera in tentacoli che accarezzavano i muri.
Strinse gli occhi per scrutare nell'oscurità, e vide la figura confusa del grosso e grigio mastino napoletano rannicchiato pigramente nell'erba, ancora legato al quel palo arrugginito ficcato nel terreno.
Rimase imbambolato a guardare quella visione. Desiderava ancora che Natasha e i suoi nonni non ci fossero stati più, come gli animali che torturava nei pomeriggi dopo la scuola.
Gli sguardi pieni di vergogna di mamma e papà erano a malapena insopportabili, soprattutto quelli della mamma, umidi e stanchi dopo ore di lavoro.
Infilò una mano nel tascone della giacca e tirò fuori il dente avvolto nel fazzoletto bianco.
Chiuse il pugno intorno al dente e serrò le mascelle con rabbia. Gli occhi cominciarono a bruciare dietro le palpebre serrate, un'ondata di pianto gli gonfiò il petto e gli s'incastrò in gola. Allentò le mascelle e sfiorò con la punta della lingua lo spazio vacante tra l'incisivo e il canino. La gengiva era ancora gonfia e un sapore metallico si diffuse per tutta la lingua.
Il nervo pulsò leggermene e pensò che se Natasha non ci fosse mai stata, allora non sarebbe stato così male, non avrebbe compreso così precocemente i dolori di un cuore spezzato. Avrebbe continuato a patire quello che un bambino doveva patire: gli scherzi crudeli dei compagni, le ramanzine della maestra, i giochi troppo costosi che i suoi genitori non potevano permettersi, ma soprattutto, mamma e papà non sarebbero stati umiliati in quella maniera.
Cosa poteva fare perché non ci fossero più né lei né i suoi nonni?
Fece ricadere le braccia, arreso alle limitazioni che portavano essere un bambino di 8 anni. Poteva solo lasciarsi andare all'immaginazione. Immaginò che fosse giorno, che il sole pulsasse nel cielo scaldando l'asfalto fino a renderlo incandescente. Aprì il marsupio e tirò fuori la lente d'ingrandimento, quella che le formiche del suo muretto identificavano ormai come un'arma di distruzione di massa.
Immaginò il sole alle sue spalle e il frinire impazzito delle cicale in mezzo alle spighe di grano. Immaginò il calore scaldargli le spalle e passare dietro la lente d'ingrandimento.
Il cane sarebbe stato il primo a bruciare guaendo e abbaiando disperato con la catena che gli recideva la gola a ogni salto nell'aria.
Poi la carcassa annerita del mastino sarebbe caduta sgretolandosi nell'erba e le fiamme si sarebbero diffuse trasformando il prato in un lago di fuoco sopra cui galleggiava la cascina.
Passò una gelida brezza notturna e Lorenzo tornò alla realtà. Rimase in piedi, rigido e immobile di fronte la cascina, con il braccio teso in avanti a guardare il mondo bruciare attraverso la lente.
Rimase fermo così per qualche minuto e, proprio quando si arrese alla dura realtà, una luce fioca e calda si accese timidamente dietro una finestra al piano terra.
Le ombre dei mobili vibravano dietro le tendine. Fiammelle rosse, gialle e rosse presero a saltellare nella stanza, distorcendo con il calore gli oggetti intorno a sé.
Poi s'illuminò l'altra finestra del pian terreno, seguita immediatamente da quelle del piano di sopra, accompagnate da un ruggito che sembrava provenire dalle profondità del terreno.
Seguirono le urla, quella roca e acuta della nonna e quella squillante e angosciata di Natasha. Il fumo denso strisciò via dalle finestre e dalla porta e volò via sinuoso verso l'alto coprendo le stelle.
Il vento soffiò portando soltanto un calore insopportabile e l'odore soffocante del fumo. Il cane impazzì, abbaiando e ringhiando verso il cielo in fiamme, mentre il sangue zampillava da dietro le catene macchiandogli il pelo.
Lorenzo rimase pietrificato di fronte alla cascina in fiamme.
Dalla finestra della cameretta di Natasha spuntò un ciuffo di capelli neri che scorrazzava senza una direzione precisa tra le fiamme. Le sue manine annerite dalla fuliggine cominciarono a picchiare contro il vetro. Natasha sporse il viso oltre il davanzale e incrociò lo sguardo paralizzato di Lorenzo. Le pupille nere si riempirono di panico e paura, mentre le coltre di fiamme avanzava alle sue spalle, pronta ad inghiottirla. Il fuoco, ormai, l'aveva già sfigurata. La guancia sinistra si era sciolta, ridotta a una massa informe di fili di pelle cadenti che incorniciavano una zona scoperta di muscoli rosi e pulsanti nel calore.
Natasha picchiò la finestra finché le nocche non lasciarono sul vetro rovente chiazze rosse di sangue e pelle.
Lorenzo rimase a guardarla urlare dimenarsi mentre il fuoco ruggiva e ingoiava ogni invocazione d'aiuto, ogni grido di dolore. Stava scomparendo e soffriva come soffrivano le sue formiche bruciate dal sole.
I vetri esplosero e il legno scricchiolò sputando scintille che volteggiavano nell'aria come fuochi fatui.
Un gruppo di uomini coperti dalla testa ai piedi in una tunica di seta nera e lucida spuntò fuori da dietro il fienile.
Girarono intorno alla casa con fare solenne, stringendo tra le mani torce di fuoco goffamente ricavate da rami d'albero.
Una delle figure in nero (quello più robusta e minacciosa), si avvicinò al fienile e allungò la torcia verso il fieno che prese fuoco in un attimo.
Quando le fiamme ingoiarono la cascina riducendola a un massiccio muro di fuoco, si riunirono in un gruppo compatto e alzarono contemporaneamente la testa in contemplazione.
Uno di loro abbassò lo sguardo e si girò verso Lorenzo. I suoi occhi castani brillarono attraverso i fori dai contorni frastagliati del copricapo a punta e comunicarono una pietà e una compassione che a Lorenzo parvero famigliari, come se lo avessero guardato in quel modo da sempre, sin da quando era nato.
Le sirene dei pompieri presero a strillare dal centro del paese. Il blocco di figure in nero si ruppe, e avanzarono lentamente verso i campi dietro la cascina, come in processione.
Luci rosse e blu lampeggiarono sull'asfalto e sugli alberi.
Due camion dei pompieri arrivarono e frenarono poco lontano da Lorenzo. Lo stridio dei freni, il rumore pesante della pompa che veniva srotolata e le urla dei vigili lo risvegliarono all'improvviso. Trovò la lente d'ingrandimento sull'asfalto, rotta in decine di pezzi. Due mani robuste ricoperte da guanti spessi e pesanti lo afferrarono per le spalle.
"Stai bene?", disse il pompiere con il viso paonazzo e brillante di sudore, "Fra'! Fra', c'è un bambino qui! Presto! Dove abiti? Cosa è successo qui?".
Lorenzo rimase a guardarlo imbambolato. Mosse le labbra e un suono debole gli uscì dalle labbra.
"Cosa?", urlò il pompiere cercando di sovrastare le sirene.
"Non ci sono più. Lo volevo io. È colpa mia...".
Rimase seduto sul retro di un ambulanza, mentre le luci blu e rosse delle sirene lampeggiavano sull'asfalto e su quello che rimaneva della cascina.
I pompieri trascinarono i corpi carbonizzati dei nonni di Natasha, li stesero sul prato, poco distanti dalla carcassa del loro cane e coprirono i corpi con due tali bianchi, troppo piccoli per poterli coprire del tutto.
La mano della nonna spuntava fuori dal telo. Buona parte della gioielleria che le appesantiva il polo e le dita si fuse con la pelle cadente e maculata.
Lorenzo rimase a fissare la scena finché non gli rimase impressa nella mente, finché il rosso e il blu non smisero di lampeggiare e un velo bianco e nero calò su ogni cosa, come in una fotografia.
La polizia lo interrogò per un tempo interminabile. Scena degli interrogatorio l'aveva sempre vista al cinema, e in quel momento, viveva come se stesse vedendo tutto da uno schermo, seduto in un angolo remoto di qualche parte.
Disse la verità. Disse che voleva che Natasha e i suoi nonni scomparissero per sempre, perché avevano reso tutti tristi: lui, la mamma e il papà. Disse di quello che aveva fatto con la lente d'ingrandimento, che con le formiche funzionava e che aveva immaginato che succedesse lo stesso alla casa di Natasha.
Disse dei satanisti. Era tutto vero. Un gruppo di uomini incappucciati era uscito fuori dal nulla e aveva bruciato via tutto.
Il brigadiere lo cacciò via sconsolato e lasciò ai genitori il numero di un buon psicologo infantile, perché: "Per un bambino non è difficile sopportare certe scene".
Col tempo la mancanza di Natasha cominciò a farsi sentire. Era sopravvissuta all'incendio, ma l'avevano messa sotto una cosa chiamata "coma farmacologico". Chiese a mamma e papà cosa fosse ma se ne dimenticò in fretta.
Al dolore lasciato dal rifiuto di Natasha e dall'umiliazione dei suoi genitori si sostituii un dolore nuovo e profondo. I sintomi non erano molto diversi, ma erano come amplificati.
Ora non sembrava più che facesse fatica a respirare, ma bensì che una cintura di metallo si stringesse intorno al collo fino a spezzargli la trachea. Gli occhi bruciavano ed erano straziati da fitte a causa dei pomeriggi passati a piangere e a disperarsi.
Era la colpa. Un senso di colpa troppo profondo perché un bambino di otto anni potesse sopportarlo. Aveva visto tante cose in tv, anche una che riguardava le persone nel suo stesso problema.
La questione era semplice. Se avesse voluto, se avesse avuto abbastanza coraggio, allora poteva esprimere lo stesso desiderio che aveva espresso per Natasha: non esserci più. Via il dente, via il dolore.
Andò in bagno e chiuse la porta a chiave. Aprì il cassettino delle cose di papà e tirò fuori una piccola scatoletta blu contenente le lamette di ricambio per il rasoio da barba.
Ne tirò fuori una e la rimirò sotto la luce cruda della lampadina.
Alzò le maniche e strinse i pugni, evidenziato le vene verdastre che gli percorrevano le braccia pallide e magre. Prese un respiro profondo e chiuse gli occhi. Appoggiò l'angolo della lama poco sotto il palmo della mano, e la trascinò giù fino al gomito. Tenendo gli occhi e le labbra ben serrate, sentì un liquido caldo e denso invadergli le braccia a sgocciolare dal gomito. Cominciò a sentire la testa leggera e il cervello muoversi come se stesse girando incessantemente su se stesso. Le gambe sparirono di colpo e si sentì cadere all'indietro nel vuoto, fino a che il pavimento gelato non frenò la sua discesa. Rimase con gli occhi chiusi, in attesa di sparire del tutto.
Qualcuno bussò alla porta e attese. Poi cominciarono le urla, i tentativi di girare la maniglia bloccata e di sfondare la porta. Un rumore secco e forte accompagno l'aprirsi della porta. Mamma urlò e sentì le sue braccia leggera scivolargli sotto le scapole e sollevarlo, lontano dal freddo e dal gelo.
Lorenzo aprì gli occhi e vide mamma che lo guardava disperate con le lacrime che le riempivano gli occhi.
Aveva già visto quello sguardo, uno sguardo pieno di compassione e pietà, come lo sguardo della figura in nero che lo guardava mentre la famiglia di Natasha spariva nella cenere.
Poi arrivarono gli ultimi ricordi, quelli più confusi. Decine di immagini granulose che scivolavano via davanti a lui, senza dargli minimamente il tempo di concentrarsi sull'immagine o di godersene i particolari.
Stanze bianche e asettiche. Letti sempre in ordine. Coperte marroni e pesanti piene di pilucchi. Una stanza piccola con al centro una panca di metallo. Il corpicino di Lorenzo, infilato in un camicie d'ospedale giallastro stesso su quella panca gelata che gli faceva venire i brividi e la pelle d'oca. I medici e le infermiere intorno a lui. Gli occhi dolci e materni delle infermiere e il loro sorrisi forzati mentre stringevano tra le mani un oggetto strano, simile a delle cuffie da stereo che gli mettevano sulla testa, con le due estremità tonde e ricoperte di spugna appoggiate sulle tempie. Uno schioccare meccanico e un ronzio che trapassava i muri. I medici che si guardavano. Un cenno del dottore e il quella morsa improvvisa al cervello, il fischio, gli occhi e i denti che tremavano e, soprattutto, quel rumore bianco che lo attraversava inghiottiva ogni ricordo di Natasha.
III. Epilogo
Le ferite ancora fresche si allargarono lentamente, lasciando abbastanza spazio alle edere per scivolare via e tornare come disegni statici sul corpo di Natasha.
Una brezza leggera attraversò i muscoli e Lorenzo si risvegliò respirando l'aria stantia a pieni polmoni, come riemerso da una lunga apnea.
La stanza ricomparve emergendo dai colori sfocati. Quella che ritrovò non era il viso angelico della Natasha che amava ricordare, ma quello della piccola Natasha, con metà del viso sciolto dal fuoco e dal dolore.
Restarono immobili, uno avvinghiati all'altro a guardarsi, come a cercare di imprimere nelle proprie menti i ricordi appena tornati.
Una grossa lacrima scese dall'occhio di Natasha e cadde lentamente, saltellando da un filo di pelle all'altro fino a ricaderle sul mento.
Lorenzo alzo una mano tremante e la posò dolcemente sulla guancia ferita di Natasha. La pelle era ancora calda dalla tragedia. Il calore lo fece piangere e quel nodo così famigliare gli blocco nuovamente la gola, soffocandone i singhiozzi.
Natasha udì un sussurrò spezzato, esitante. Aggrottò le sopracciglia, mantenendo comunque la sua espressione di arresa solennità.
"Cosa?", chiese insicura.
"Mi dispiace così tanto", rispose Lorenzo cercando di scandire le parole come meglio poteva.
Natasha rimase impassibile. Un filo di pelle tremo, forse per l'aria che circolava per la stanza, forse per un ricordo che vibrò nella carne.
Si alzò e indietreggiò di un paio di passi, lasciando Lorenzo steso sul pavimento, circondato dal velo del profumo dolce che aveva da bambina.
Dalla stanza accanto si udì il telefono dell'Azienda vibrare attraverso i muri. La città era ancora in subbuglio e le sirene della polizia strillavano scuotendo la polvere sui mobili e sugli scaffali.
"E adesso?", chiese Lorenzo con gli occhi sbarrati dall'attesa.
"Adesso?".
"Cosa farai?".
"Abbiamo già fatto quello che dovevamo fare. Non posso fare più niente, ormai. Sono un solo un fantasma, Lorenzo. Voglio solo essere ricordata".
"Non volevo dimenticarti. Non l'ho fatto apposta".
Il dolore ricominciò ad percuotergli le ossa. Le ferite ricominciarono a boccheggiare, reclamando denti nuovi e forti da poter sostenere.
Appoggiò un braccio al pavimento e il gomito produsse uno schiocco forte, potente che gli fece tremare il bicipite.
Rimase in quella posizione per un attimo, sicuro che il prossimo movimento gli avrebbe procurata un'altra frattura visto com'erano deboli le sue ossa.
Provò con movimenti piccoli e leggeri, cercando di distribuire equamente il peso su entrambe le braccia e le gambe.
"Senti ancora dolore?", chiese Natasha, mostrando un'espressione di umana curiosità.
"Si", si sentì quasi in colpa a rispondere, pensando a quanto doveva essere dolorose sentire la propria pelle sciogliersi e staccarsi dai muscoli. Natasha sorrise.
"Passerà".
I tatuaggi di edera continuarono a muoversi sulla pelle accarezzati dalla brezza. Con la clavicola ancora pulsante per il dolore, si diresse verso Natasha. Tutto sembrava farsi più irreale, passo dopo passo, come se stesse fluttuando sopra il pavimento, come se l'aria fosse troppo pesante per essere attraversata.
Arrivato da lei le accarezzo il braccio, e notato un leggero, timido sussulto si avvicinò e la strinse tra le braccia.
Le strinse il mento tra le dita e le accarezzò le labbra. Si baciarono e le loro bocche si riempirono del sapore di cenere e legno bruciato.
Quella domenica entrò di diritto nella secolare storia di Castelchiasso.
Nel giro di poche ore, un uomo che alloggiava allo Zeitgeist Hotel uccise dodici persone con un fucile da cecchino, al sicuro nel calore della sua stanza che dava sulla piazza del mercato.
Solo pochi minuti dopo la strage, l'uomo diede fuoco alla stanza, richiamando uno sciame di ambulanze, camionette dei pompieri e di volanti del Carabinieri che si divisero equamente tra la piazza e l'hotel.
Una Mercedes nera, appena lucidata e lavata, parcheggiò sulla strada incastrandosi tra un'ambulanza e un camion dei pompieri.
Un uomo in giacca e cravatta nera scese. Si aggiustò gli occhiale da sole sul naso rimirando il panico che si era scatenato e camminò con passo sicuro verso l'hotel.
Entrato nel lussuoso atrio in marmo, si avvicinò alla reception dove il vecchio padrone era piegato sul registro degli ospiti. Avvicinandosi, aprì la bocca per parlare, ma il padrone lo zittì, lanciandogli la chiave della stanza 347.
L'uomo afferrò la chiave, guardò incuriosito quel vecchietto che non voleva saperne di togliere la faccia del registro e salì al terzo piano.
La porta della 347 era avvolta da nastri gialli della polizia. Guardò incuriosito una vasta macchia di sangue vicino alla porta e poi il foro di proiettile sulla porta, poco sotto il "4" del numero della stanza. Tirò fuori un piccolo coltellino svizzero, tagliò il nastro ed entrò nella stanza.
Una zaffata di legno e carne bruciata lo investì in pieno. Rimase un attimo immobile e strizzò gli occhi, lottando contro il giramento di testa e i conati. Prese un bel respiro ed entrò.
Il primo corpo che riconobbe fu quello di Tartaruga, ridotto ormai a un bambolotto annerito di cartapesta. La bocca era rimasta spalancata per la sorpresa, pochi ispidi capelli sopravvissuti se spuntano dal cranio carbonizzato e dai contorni del ventre scoperchiato colavano ancora goccioline fresche di sangue e grasso. L'uomo si lasciò andare a una risata amara, come se la sorte di Tartaruga fosse frutto dell'ironia della sorta. Girò su se stesso e trovò quello che cercava. Il corpo carbonizzato di Lorenzo Damiani rigido sul letto con le braccia incrociate al petto come una salma.
Non c'era più nulla nel suo aspetto che si potesse ricondurre a uno degli agenti migliori dell'Agenzia, né tanto meno al bambino debole ed emaciato che veniva chiamato "Deportato".
Si avvicinò e vide un pezzo di stoffa bianco spuntare dalle dita secche di Lorenzo. Il suo cuore perse un battito, si asciugò gli occhi e si ricompose.
Solo carne secca e cenere, nient'altro. Così era sparito Lorenzo Damiani.
Tirò fuori il cellulare, premette un tasto e rimase in attesa.
"Agente Sclavi", disse con voce severa, "confermo l'archiviazione dell'Agente 446354078".
"Qualche prova che confermi l'identità dell'Agente?"
L'uomo si avvicinò e tirò via il pezzettino di stoffa. Le dita del cadavere si sbriciolarono e si sparpagliarono per il letto.
La faccia dell'uomo si contorse in un sentimento di pietà e disgusto. Aprì il fazzoletto e sbiancò.
"Agente Sclavi? Agente Sclavi?"
"Affermativo", rispose balbettando.
"Torni in sede per fare rapporto, Agente Sclavi".
"Ricevuto. Mi avvio adesso per la sede centrale. Chiudo".
Chiuse la chiamata e rimise il telefono nella tasca interna della giacca con cautela per non far cadere il contenuto del fazzoletto.
Un dente lucido, bianco, seppur con qualche macchiolina di sangue secco ai margini, sopravvissuto nella tragedia.
Sapeva che cos'era, in paese ne hanno parlato per anni dopo l'incendio della cascina. I compagni non parlavano d'altro, dicevano che Lorenzo era diventato pazzo e che era in manicomio perché era un satanista e gli aveva dato una mano a uccidere quei russi.
Non se la sentì più di prenderlo in giro per farsi grande davanti ai compagni. Non ci aveva più pensato a quella storia, si era lasciato tutto alle spalle, era dimagrito e aveva lasciato definitivamente Castelchiasso.
Al suo arrivo trovò tutto diverso, ma qualcosa era sopravvissuto.
Il cadavere di Lorenzo ebbe un sussulto. Un foro si aprì sulla fronte, e un dente bianco e lucido sgattaiolò fuori, bucando la pelle come cartapesta. Un ultimo tremolio e il cadavere si frantumo in minuscoli frammenti neri e fragili.
Il vento entrò nella stanza e sparpagliò la cenere nell'aria, scoprendo un fazzoletto bianco e intonso, se non per una frase scritta con calligrafia incerta e sottile:
Devi restare sempre bellissima.
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