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Una vita scialba
Quella vestaglia verde che si mostrava quasi impudica, buttata com'era su quella sedia di paglia rossa.
L'aveva dimenticata in disordine perché era tardi e doveva correre in ufficio. Quella mattina pioveva a scroscio e per bagnarsi il meno possibile, avrebbe fatto un percorso più lungo.
Quando non si adopera l'automobile si ha tutta un'altra percezione del movimento. Non sono le ruote e il motore a scandire il tempo ma le tue gambe e i tuoi piedi.
Un silenzio costante sembrava l'unico compagno di cui Marisa si era sempre fidata.
Taciturna e schiva aveva lasciato il paesino meridionale, dove era nata, per recarsi in quel nord segno di civiltà e progresso. Il paesino gli andava stretto, i suoi ritmi lenti, che adesso ricordava con nostalgia, erano insopportabili a quella Marisa di vent'anni. Tutti si aspettavano di conoscere il suo fidanzato, di partecipare alle sue nozze e magari tenevano in serbo del riso, per non farsi trovare sprovvisti.
Marisa non guardava i maschi, ne aveva terrore, fingeva una disinvoltura ma emanava una sensazione di freddo a chiunque le si fosse avvicinato. Pochi amici e poche amiche non amava la compagnia dei suoi coetanei, sempre presi a pensare a tresche d'amore. Lei non sapeva amare o per meglio dire lo rifiutava, perché per amare bisogna conoscere cos'è soffrire e la paura della sofferenza chiude le porte all'amore.
La sua tenacia di inviare domande di assunzione, quello che oggi è il curriculum vitae, fu premiata quando fu chiamata a lavorare in un ufficio a Torino.
Tutta la famiglia, appreso l'evento della Marisa che se ne andava al Nord, era ammutolita.
C'era poco da fare, Marisa lo aveva detto che non intendeva sposarsi, che intendeva lavorare e non si accontentava di essere sottopagata dal professionista di turno, amico di papà. A nulla erano valse le lacrime di sua madre, la decisione era già presa, ormai aveva superato i venticinque anni e nessuno poteva fermarla.
Il paesino la vedeva solo alle feste comandate, quando tornava a casa per rendersi utile per sua madre e suo padre. Ogni volta i genitori speravano che portasse un fidanzato, così come avevano fatto le sue cugine. Ogni speranza crollava davanti a questa figlia di nemmeno trent'anni, vestita come una donna anziana, senza un filo di trucco e con le scarpe logore. Tutto nella sua figura aveva un che di grigio, perfino l'incarnato del volto aveva un'opacità cinerea.
Non voleva guardarsi dentro, non voleva sentire il suo bisogno, la sua ansia che piegava al suo riserbo e alle sue paure, come le gambe nell'inginocchiatoio la domenica alla messa..
Di uomini non parlava mai, sembrava asessuata. Nella sua testa, invece, ricordava ancora, nonostante fossero passati più di vent'anni, Bruno, un collega, che da tanti anni si era trasferito in un'altra città, come faceva a non ricordarlo. Era stato l'unico ad essere attento ai suoi bisogni, al punto da metterla in imbarazzo con quei suoi modi gentili. La voce la ricordava ancora, dal timbro profondo di maschio ma delicata come uno sbuffo di vento.
Bruno, solo lui, aveva avuto il potere di stracciare dal volto di Marisa quel grigiore di indifferenza.
Era nata una simpatia, che non riusciva a mascherare, si trovava a pensare a lui in ogni momento della giornata.
Lavorare sei ore al giorno gomito a gomito in un ambiente chiuso, scatena delle particelle insolubili di eccitate vibrazioni, fatte di sguardi.
Marisa era sempre stata spettatrice di tresche fra colleghi ma mai ne era rimasta coinvolta. Chiusa nel suo scialle di silenzio e di riservatezza, svolgeva la sua attività di impiegata in maniera estremamente diligente.
Le sembrava strano avere quelle vampate di calore al solo avvicinarsi di Bruno e si raggomitolava su se stessa, per non mostrare il suo turbamento a nessuno. Una vergogna l'afferrava e il silenzio in cui si trincerava certo non le era di aiuto. Solo sguardi sfuggenti, che solo occhi particolarmente attenti e sensibili avrebbero potuto captare.
Bruno non ebbe la pazienza e la tenacia di frantumare lo scrigno di madreperla che racchiudeva l'essenza di donna di Marisa.
Si fidanzò, di lì a poco, con una collega.
Marisa se ne era già accorta, Bruno era cambiato nei suoi confronti, gli sguardi caldi e morbidi che le aveva rivolto fino a pochi giorni prima, ora non erano più per lei.
La collega, ignara del travaglio di Marisa, con la felicità idiota e ingenua scelse proprio lei per confidarsi, che, con un sorriso accennato e quel pallore bigio stampato sulla faccia e sulle labbra., rimase chiusa nel suo dolore sordo, nascosto finanche a se stessa.
L'ultima volta che li vide era al loro matrimonio. Un dolore le bruciava dentro lo stomaco, come un fuoco violento, non poteva andare via, lo avrebbe desiderato immensamente, fingere una felicità non provata. Voleva fuggire da tutto quel frastuono, agognava alla sua casa. Ci pensò lo stomaco ad accorrere in suo aiuto, non poteva più rimanere i conati di un vomito d'anima le si dipinsero in volto e un'altra collega, accortasi del suo pallore e del suo malessere, si offrì di riaccompagnarla a casa. Una voglia di annientarsi nelle sue mura, quella era la sensazione che si era impossessata di lei. La voglia di accartocciarsi tra le lenzuola. Finalmente libera di immaginare quello di cui aveva terrore, eppure era una sacrosanta voglia di godere perché se la negava? Non sapeva, preferiva. negare, negare sempre e tirare avanti senza affrontare, era troppo doloroso non ce la faceva, preferiva rimanere nell'ombra, abbassando gli occhi per non vedere, per non desiderare.
Era sempre benvoluta per la disponibilità verso gli altri colleghi, sempre impegnati dietro a figli, mariti, amanti. Si sobbarcava i turni più scomodi, in cambio chiedeva di poter usufruire di giorni di ferie durante le festività, per raggiungere gli amati genitori, unici affetti della sua esistenza.
Non sembrava dimostrare interessi che la emozionassero, libri, film, tutto sembrava ammantato da un'indifferenza, velata da un sorriso spento e da un diligente lavoro di impiegata.
Agli occhi dei colleghi sembrava che in quella donna non avvenissero mai mutamenti di umore. Sempre composta dietro la sua postazione elettronica, assorta, non sembrava prestare attenzione alle conversazioni, tanto che a volte veniva richiamata con bonaria ironia: " Marisa?... guarda mica mi sente " faceva la collega rivolta alle altre presenti nella stanza: " ehi Marisa? che stai a fare ma smetti un minuto, che lavori al pronto soccorso? Le carte non sanguinano Marisa.. " sentire il nome della sua voce le procurava un leggero fremito delle spalle, che, accartocciate a guisa di guscio, si scuotevano così come i suoi pensieri e vagamente irritata:
" Si, si che volete? Ho tutti questi documenti, ridete voi, poi quando vi servono venite a cercarli da me, parlate, parlate che vi ascolto lo stesso "
" Eh no, ti fermi e ti riposi un minuto pure tu, che cavolo hai gli occhi piccoli piccoli, magari hai pure mal di testa? Ma lo sai Marisa che per essere una terrona sei proprio strana? "fece risoluta la collega. Voleva molto bene a Marisa e vedeva un acuirsi di quello stato di assenza nell'anziana collega, e questo la preoccupava non poco. Il mutismo mascherato da riservatezza non consentiva di sapere cosa passasse effettivamente in mente a quella strana e buona donna.
" Me lo dicono in tanti, sarà che vi siete fatti una cattiva idea della mia gente, quello che vi fanno credere perché gli fa comodo." era abituata a sentirsi definire bonariamente " terrona " ma ogni volta con una punta di orgoglioso cipiglio, ricordava quanto di quel che pensavano del Sud fosse opera di una cattiva cultura, che favoriva il proliferare del malaffare ai danni della moltitudine di onesti lavoratori, accomunati in un pregiudizio falso e cattivo.
Aveva una buona cultura Marisa, per la sua età era diplomata, quando avere un diploma era un titolo di studio. In gioventù non si era lesinata cinema, teatri e viaggi con amici e parenti ma quello che non aveva mai approfondito ero il suo difficile rapporto con l'altro sesso.
Se si intavolavano discorsi sugli uomini non esprimeva mai nessun parere, neppure se interrogata.
Peggio se qualche collega uomo provava ad abbracciarla oppure ad offrirle un caffè, un terrore la faceva irrigidire e brandendo le mani cercava di tenerlo a debita distanza. Quell'impacciato atteggiamento sarebbe stato comico se non avesse nascosto un malessere inespresso, che aveva una maschera terribilmente tragica.
Ma non si può curare chi non ammette la propria malattia, anzi si finisce per ignorare la sua sofferenza. Non si poteva che osservarla, piccola figura che cammina nel vento, rasentando i muri, con gli occhi rivolti all'asfalto sconnesso. Ormai il tempo gli aveva rapito l'unico legame con questo strano globo, lo aveva accettato con la rassegnazione di chi non conosce lacrime.
Il silenzio si era fatto a volte insopportabile, tanto da dover alzare il volume della televisione, davanti alla quale sfracellava il proprio corpo, il cui utero completamente riassorbito, aveva finito per prosciugare quel liquido caldo, che a volte aveva avvertito come un fastidio necessario.
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0 recensioni:
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Anonimo il 29/05/2013 10:40
Non sono competente, Silvia. Del resto non mi sembra di aver fatto un commento critico. Siccome questo sito sta collassando ed io amo questo sito, certo di dare una mano... Tutti coloro che scrivono sono rispettabili ma perdona la sincerità ... che può essere scambiata con l'alterigia. Non sono nessuno e proprio per questo non sono allenata a sopportare certi polpettoni che a volte si leggono di qua e di la e riesco ad arrivare in fondo solo a racconti scritti bene. Un bacio.
- Devo prendere come un complimento cara Sabrina questo tuo commento ahahahhahahahhah... concordo con te che la poesia sembra inflazionata... io mi definisco una imbrattatrice di fogli infatti. Senti amica mia visto che mi pare tu sia una persona competente a tempo perso leggiti anche altre cose e fammi sapere in merito agli errori e quant'altro. Ti ringrazio ancora un bacione
Anonimo il 29/05/2013 08:57
Il racconto è molto coerente, nella descrizione di questa giovane donna tanto che sembra un'autobiografia... Mi sono stancata di leggere poesie perchè a partire dalla sottoscritta, in nome dell'ermetismoe del verso libero ormai qualsiasi scemenza è poesia... un po' come il famigerato barattolo con scritto " M... A d'artista " ... Un racconto di tre pagine non è certamente lungo ma io riesco a leggere mezza pagina, quando leggo qualcosa che non mi piace... Non ho tempo di leggere libri lunghi e sono riuscita ad arrivare in fondo a questo tuo... Un caro saluto
- Grande Salvo, ti ringrazio infinitamente per la tua attenzione. Mi fa piacere se sono riuscita a rendere l'idea di una persona così, come ahimè! ce ne sono tante... forse troppe!!!!!! Un bacio e grazie ancora
Anonimo il 24/05/2013 10:45
"Ma non si può curare chi non ammette la propria malattia, anzi si finisce per ignorare la sua sofferenza.". Bellissima conclusione.
Il racconto mi piace tanto. Questa Marisa è un personaggio vivo e palpitante, anche se trasmette tanta malinconia e senso di solitudine. Non sono sicuro che Bruno potesse cambiarla. Ella nasce per essere come descritto. Il mondo è pieno di soggetti, donne e uomini, che hanno il terrore di scoprire i propri sentimenti.

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