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L'ultimo viaggio. Storia di una farfalla
È un pomeriggio cupo, di fine inverno. Sfilacciato da un gelido vento marzolino, qualche viticcio di nebbia si allunga a screziare il cielo plumbeo rigandolo di striature lattescenti.
Sono accanto al finestrino, in posizione contraria al senso di marcia, col dorso appoggiato allo schienale e il capo un po' reclinato a destra, posizione che mi permette di osservare meglio e per intero la linea di confine fino alla curva, dove scompare.
La vedo. È una sottile riga gialla continua, quasi fluorescente, prepotente e maestosa sul nero stanco dell'asfalto sbrecciato che disegna la banchina. Non amo guardarla in faccia, la riga gialla; non amo andare a sbatterle contro e lasciare poi che strisci veloce alle mie spalle; preferisco piuttosto che sia lei a sorprendermi, che faccia capolino sbucando dal niente e poi si faccia risucchiare dai binari trascinata all'indietro. Mi piace guardarla che si dipana mentre il treno avanza, per poi annullarsi e sparire sotto i miei stessi occhi; osservarla nel suo progressivo allungarsi e vederla cambiare, nascere e morire. La riga gialla. Quella linea retta netta, inesorabile, che segna il limite di demarcazione tra chi arriva e chi parte, tra lacrime e sorrisi, tra chi ripiega nella fuga e chi ha il coraggio di restare, tra chi sa attendere paziente e chi non trova mai nessuno ad aspettarlo.
Io sono al di qua, di quella riga: amo guardarla correre, nascere e morire.
Non so bene perché mi piaccia, né so da dove vengo o dove vado. Non so nemmeno se sto arrivando o invece fuggo.
Ecco il fischio del capotreno, e sul suo fischio la rincorsa affannosa dei consueti ritardatari, gli ultimi abbracci frettolosi, lo sbatacchiare scoordinato di chiavi valigie e tacchi, lo scatto metallico dei meccanismi di chiusura delle carrozze, la coda lunga dei baci degli amanti freschi e il via-vai finale dei nuovi avventori, quelli che hanno appena varcato la linea gialla tra mani tese abbracci e sospiri di chi invece è rimasto, immobile, al di là del muro invisibile.
Mi piace osservare da qui la vita degli altri: è come il soffio di un vento mite, che mi accarezzi piano la fronte e smuova i miei ricordi. In questa brezza, rammento di aver avuto anch'io i miei baci in banchina, quei baci dell'ultimo minuto quando con un piede sei già sul predellino del treno mentre con l'altro sfiori appena la riga gialla, quel mix perfetto di passione e malinconia che fotografa sempre le partenze.
Quei baci li ho avuti anch'io, una volta, e mi hanno fatta sentire grande, bella, importante. Per un attimo.
Lui mi giurava ch'ero il suo cielo, e io ne ero convinta davvero, quel cielo mi sembrava di toccarlo con un dito ed era un cielo tutto mio e nostro, a portata di mano, le nuvole erano in alto in alto, lassù dove in nessun modo avrebbero potuto offuscare il blu limpido delle nostre vite leggere.
Io ero il suo cielo. E perciò, già a quel tempo, qualcosa di etereo e impalpabile, che non si può contenere o trattenere. Forse per questo, allora, non fui capace di evitare di andarmene. E un giorno, non so come, decisi di partire. Lo feci d'impulso, senza pensarci troppo, senza dare la giusta importanza a quell'ultimo bacio zoppo preso in banchina, un bacio sfortunato che finsi di cogliere al volo con un piede sul predellino e l'altro sospeso a mezz'aria, e che invece lasciai cadere a terra sulla riga gialla, distratta com'ero dall'infantile entusiasmo della partenza.
Alzo gli occhi, cerco il cielo. Ma oggi il cielo è salito troppo in alto, e i miei occhi non riescono a raggiungerlo: trovo solo una folla di nuvole basse e smagliate, che si spargono nell'aria sfiorando i tetti sbiaditi di un gruzzolo di vecchi edifici dalle imposte sgangherate. Nuvole grigie che si corrono accanto, ognuna incurante dell'altra e tutte assorte in un viaggio lento, composto, verso chissà quale meta, e in quella marcia avvolte in un saio di quiete triste; una pace quasi irreale, che il sottofondo costante del traffico cittadino non riesce a spezzare e anzi amplifica, quasi cullando quella corsa pacata, ordinata e silenziosa.
Il viaggio sta per iniziare, siamo pronti, ed ecco si affianca un altro convoglio, un serpentone grigio e blu dagli occhi opachi assonnati coi freni stridono in modo assordante, e in quello stridio insopportabile il rettile rallenta, rallenta sempre più fino a fermarsi, e intanto ci scorre accanto inghiottendo la banchina, le mani gli abbracci i baci e la riga gialla, pochi secondi e ha ingoiato tutto. Eppure posso ancora intravedere, attraverso i finestrini rigati di sporco, due lettere cubitali bianche su sfondo cobalto: l'estremità di una scritta breve, incorniciata in un rettangolo allungato di un bel blu brillante bordato di bianco. È il contrassegno della stazione, e io lo inseguo con lo sguardo; non so perché, ma il blu mi rasserena.
Intuisco il treno che avanza adagio, ma all'inizio è solo un sospiro, un movimento muto che forse inganna, guardo fuori e non son certa se ad andare siamo noi o i vagoni al nostro fianco; allora sto ferma, trattengo il respiro e anche il cuore, per un istante... ecco sì, siamo partiti, alla fine.
Chiudo gli occhi e tento di eclissarmi, non amo questa parte del viaggio.
La marcia è troppo tranquilla, gli occhi spenti dei palazzi troppo vicini, lo sferragliare dei binari troppo forte... C'è sempre qualcuno che insiste nello sporgersi fuori dal finestrino; potrebbe anche piovere, infuriare una tempesta di vento neve o grandine, non importa, per qualche chilometro dopo la stazione, i finestrini non vogliono proprio saperne di risalire. Poi la galleria. Mi accorgo che il treno è entrato nel tunnel quando le correnti d'aria si fermano, il rumore di ferro si attutisce con una serie di "stac stac stac" secchi che si susseguono a ripetizione, e a poco a poco nel buio prende forma un ronzio intermittente di luci traballanti, un lungo fremito seguito da un "click" improvviso di luce ferma e da un'immancabile cascata di sguardi invadenti. Me li sento addosso, sento quanto pesano e che potrebbero schiacciarmi, allora resto immobile, mi rendo invisibile. Finché il paesaggio si apre, arriva la campagna e il treno corre, avanza più agile e sicuro, questa volta a velocità davvero sostenuta.
A questo punto c'è chi dorme, chi legge un libro e chi scrive al portatile, chi ad occhi chiusi tamburella un ginocchio e intanto fa oscillare il mento in mezzo ai fili dell'auricolare, chi conversa amabilmente col vicino di poltrona e chi invece, come me, si sente finalmente libero di piangere in silenzio, non visto, la sua irrimediabile metamorfosi.
Avverto alberi campi e cascine, alla mia destra; tutti che sfilano all'indietro veloci, ché il treno passa e li risucchia, corre e mi porta avanti e mi imprigiona nel nulla, e io penso che sono invisibile e forse non esisto, e all'improvviso mi accorgo che non riesco più a vedere, non vedo altro che una traccia confusa, colori sbiaditi alberi campi e cascine che scappano mentre io cerco disperatamente di afferrare una forma, un colore deciso e brillante, magari il blu di un cartello che mi dica qualcosa, dove vado o dove sono... ma no, non lo trovo, e non sento più i miei occhi ma lo so, capisco che stanno tentando invano di piangere, perché non ho più lacrime ma un fluido denso, viscido e viscoso, un filo sottile che si allunga imperturbabile, che forse mi esce proprio dagli occhi e mi si attorciglia addosso, un giro e un altro e un altro e a poco a poco mi ritrovo tutta avvolta, fasciata come una mummia, e mentre il filo continua ad avvolgermi tento invano di piangere, vedere, capire.
Ma non vedo e non sento nulla. Non capisco. E nessuno mi vede sente o capisce, di questo sono certa.
Poi un sussulto improvviso e un tonfo, un fischio lungo, uno sbuffo. Ricordo.
Ricordo il giorno che partii, e mi sovviene un cielo immenso di un bell'azzurro limpido, la valigia pesante e il cuore leggero. Rammento l'istante preciso in cui, sulla banchina, varcai il confine segnato dalla riga gialla come in un balzo, senza esitazioni, senza dare alcun peso a quell'ultimo bacio sfortunato, ché certo non lo sapevo destinato a restare per sempre zoppo.
Ero sicura che avessimo tempo, credevo che a breve sarei ritornata e il mio amore sarebbe stato in stazione ad attendermi, così alla fine mi sarei ripresa lui, le mie vecchie abitudini e il mio bacio caduto accanto ai binari. Ma ho dovuto imparare a mie spese che no, il tempo non è mai abbastanza, che la vita non ammette repliche e non puoi pensare che il cielo sia alla tua portata: se lo fai sarai costretta ricrederti, io lo sto facendo.
Perché all'improvviso, quando meno te lo aspetti, nel tempo invisibile che scorre tra un lampo e il tuono di rimando, il cielo può sfuggirti dalle dita e correre a oscurarsi; con me l'ha fatto. Si è vestito di nero e si preso la mia esistenza semplice, rubandomi per sempre tutti i miei affetti e restituendomi in cambio, forse a titolo di indennizzo o forse in segno di scherno, queste mie nuove, misere spoglie: tutto quello che sono adesso, come mi sento...
Un minuscolo e inutile esserino bislungo e molle, abbarbicato su un sedile di seconda classe di un vecchio treno malandato che corre, rallenta si ferma e corre.
Ecco, quello che sono. Un piccolo bruco ripugnante, peloso e senza voce, che non sa far altro che starsene in disparte a osservare vorace le vite degli altri, e nel suo stesso silenzio si irrigidisce, si fa sempre più insignificante e minuto e scompare, a poco a poco, imprigionandosi esso stesso nel deserto di un involucro troppo stretto, buio, appiccicoso. Un deserto senza l'ombra di un'oasi, dove lui può solo giacere immobile e muto mentre spera, paziente, l'occasione di una nuova vita. La libertà di un giorno.
Un solo giorno in cui, volendo il cielo, alla crisalide sarà concesso di aprirsi.
Quando il baco si sarà fatto farfalla, e la farfalla sarà abbastanza forte da lottare, e con le sue sole forze riuscirà ad aprire nel bozzolo un piccolo varco e ad uscirne.
Quando finalmente, nell'incredibile sforzo compiuto per attraversare quel foro angusto, il baco ormai farfalla sentirà il suo corpo impregnarsi di una linfa vitale, una linfa che, fuori da lì, le darà l'energia per sfregare le ali, farle asciugare al sole e poi finalmente spiegarle al vento e volare, volare in alto in alto, in tutto il suo nuovo splendore.
Adesso il treno corre, alberi campi e cascine mi sfilano accanto veloci e io non vedo, non sento, non esisto. Non ancora. Ma aspetto il mio momento.
So che potrò volare ancora, un giorno. So che avrò ali leggere ma forti, impalpabili come l'aria, incredibilmente grandi. Saranno blu, lo sento. Il blu mi rasserena.
Quel giorno l'aria sarà chiara, un'aria calma e azzurra d'inizio primavera, e fiocchi lievi di panna si alzeranno a rincorrersi, vivaci, sul ritmo spensierato del chiacchiericcio delle cinciallegre.
Il cielo tornerà ad abbracciarmi benevolo, e il suo sorriso sarà dappertutto, ovunque intorno a me, farfalla.
Avrò davvero il cielo a portata di mano, allora; e mi sentirò ancora, almeno per quel giorno, grande bella e importante come un tempo.
Libera e incontenibile, come il cielo. Il mio cielo sereno, finalmente.
Un cielo blu, come me.
Tutto al di sotto delle nuvole.
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