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Delitto a Rue des Cordelliers
Tic tac…. tic tac……
Può apparirvi strano che questo racconto provenga da un assai singolare narratore come posso esser io, ma va detto, ad onor del vero, che il sottoscritto è l’unico essere ad aver assistito a quello che fu poi narrato come un evento di enorme importanza per le sorti della mia opulenta nazione e, perché no, per le vicende dell’umanità tutta.
Sono opera di un fine disegnatore, a nome Valadier, e plasmato da un valente ebanista ed intarsiatore, il Rouillon in persona, della sua medesima bottega. E sono un orologio. Legno intagliato, poi scolpito ed infine dorato, per quello che, modestamente, posso ben definire un vero capolavoro della fine del settecento. Ebbene, ometto di tratteggiare la finezza dell’intaglio, ovvero la perizia della doratura, nonché la stupefacente vena ornamentale che il Valadier posò sulla mia parte superiore, ove un Mercurio si slancia verso l’alto, per non parlare poi della grazia del quadrante smaltato, con numeri romani per le ore ed eleganti numeri arabi a segnare i minuti. Durante quegli anni turbolenti della Francia passai di mano in mano, di corte in corte, di dama in dama. Tutti, grazie a Dio, esterrefatti dinanzi alla beltà delle mie forme, alla sapienza stilistica con cui mi pavoneggiavo, immancabilmente, sulla mobilia e le credenze di maggior pregio che ospitavano quelle sontuose abitazioni in cui albergai per tanti anni. Non mi soffermo, poi, sulla raffinatezza di gaudente armonia con cui scoccavo l’incedere del tempo di quei curiosi parrucconi, tutti assorti, all’ora incipiente, ad attendere l’idilliaco rintocco che promanavo.
Ma quando la dimora del visconte di Monfort fu messa a ferro e fuoco, quel terribile luglio dell’ ottantanove, il padrone di casa non ebbe il tempo o, forse, la voglia, di condurmi via con sé. Eh già, quella notte lo vidi predisporre in fretta e furia una decina di ingombranti bauli, aiutato dalla servitù, e partire, ancora buio, verso destinazione ignota, assieme alla moglie ed alla figlia, la piccola, spaventata mademoiselle Sophie.
Giusto il giorno dopo venni prelevato, assieme ad altre ricche suppellettili che il visconte, evidentemente, aveva considerato meno degne della sua pelle.
A prendermi furono baldi giovinastri che al grido di ‘viva la Rivoluzione!’ depredavano, saccheggiavano, distruggevano gli esempi del potere. Per fortuna, nei miei riguardi mostrarono clemenza.
Oggi sono qui, in una casa modesta e indecorosamente arredata al numero 7 di Rue de Cordelliers, con un padrone male in arnese, malaticcio e stanco, benché, a quanto odo affermare, sia persona di spicco nel nuovo ordine delle cose.
“Lei deve curarsi, Jean Paul, sembra tenerci poco alla salute” disse un omone vestito di nero.
“Cosa vuole cittadino Delafonde, preferisco dedicare il mio tempo al bene del popolo”, ammise l’interlocutore, “d’altronde non posso negare che parte dei miei detrattori sia in fibrillazione per questi miei piccoli acciacchi. Ma vedrete, mio caro amico, tornerò a tener per mano le redini che la Rivoluzione mi ha concesso…”
“Ma state attento, cittadino Marat” riprese Delafonde, “le voci dei malumori in Normandia sono sempre più insistenti e sembrano concentrarsi proprio sulla vostra persona”.
“Già, ho sentito addirittura che quei buoni a nulla dei girondini vorrebbero la mia testa…” sorrise compiaciuto il padrone di casa.
“Non solo, cittadino Marat, ma sembra addirittura che stiano organizzando un piccolo esercito di giovani volontari per…”
“Lo so cittadino Delafonde, lo so”, l’interruppe stizzito Marat, “ovviamente ho i miei fidati informatori e so come prevenire eventuali imprevisti. E voi non preoccupatevi troppo per me. Siete il mio medico ed il mio dentista, ebbene cercate di curare i miei denti e non i miei affari di politica. A quelli, so pensarci benissimo da me”.
Vidi Delafonde divenire paonazzo, il che provocava un curioso contrasto tra il color porpora del viso ed il nero dell’abito di buon taglio che indossava. Il dentista, dopo un ossequioso saluto al padrone ed alle dame che abitavano la casa e se ne prendevano cura, si congedò.
Erano giorni di grande trambusto, le strade pullulavano di grida e volantini, promesse e speranze. Il padrone di casa, Jean Paul Marat, nonostante la salute continuasse a prendersi gioco di lui, impegnava le proprie forze per organizzare la politica secondo ideali che accendevano il popolo, fino ad allora oppresso e disilluso da nobili poco attenti ad esigenze di miseria e troppo presi da battute di caccia mattutine, parrucche sgargianti e voluminose, cipria e finti nei da posizionare in ogni dove.
Il cittadino Marat aveva appena finito di darmi la carica giornaliera quando nel suo studio si appressò Catherine, la sorella della di lui fidanzata, mademoiselle Evrard.
“Cosa c’è Catherine, ho da fare, non vedi che sto scrivendo?” Jean Paul si era accomodato dietro una pesante ma assai fine scrivania in noce massello e, penna d’oca alla mano, stava iniziando a comporre il discorso che di lì a pochi giorni avrebbe declamato alla Convenzione, ove, ammirato e rispettato, sedeva già da qualche anno.
“Non ti ruberò molto tempo, Jean Paul” riprese Catherine.
“Vorrei ben vedere….”soggiunse piccato il deputato, senza alzar gli occhi e degnarla di uno sguardo.
Catherine era una fanciulla molto ammodo, fin troppo deferente nei confronti del cittadino Marat, di cui curava la pulizia della casa oltre che gli abiti e gli alimenti, quest’ultimi sani e freschi, di provenienza giornaliera dal rinomato mercato di Chaumont.
“Oggi si è presentata una fanciulla”
“Quale fanciulla?” chiese Marat, tossendo e starnutendo. L’influenza pareva più fastidiosa del previsto.
“Non l’ho mai vista prima. È la prima volta che varca la soglia del palazzo. Ma l’ho bloccata per le scale. Diceva di dover parlare con te urgentemente, di affari di grande rilevanza, ma l’ho dissuasa dal disturbarti. Le ho fatto presente la tua cagionevole condizione di salute, che non puoi ricevere nessuno per nessun motivo, come mi hai detto di fare”. Catherine appariva altezzosa, cercava di celare con una voce stentorea il timore reverenziale che suscitava in lei il cittadino Marat. Ma un lieve tremore del respiro, appena concluso il discorso, la tradiva oltremodo.
Marat alzò gli occhi dal foglio e, non profferendo parola, attese che fosse la donna a riprendere il discorso.
“Non ha detto il suo nome, ma ha lasciato questo biglietto per te”.
Ad un impercettibile cenno del deputato, la fanciulla si avvicinò alla scrivania, ivi posò il biglietto e, con un delicato gesto del capo, senza voltare le spalle all’uomo, si allontanò silenziosamente dallo studiolo.
Marat, attesa la dipartita della giovane, aprì il biglietto che, con calligrafia pulita ed elegante, recitava: “cittadino Marat, la Tua esistenza e quella della Rivoluzione sono in pericolo. Ho contezza di un attentato che si sta macchinando ai danni della Tua vita. Un manipolo di girondini si è radunato a Caen per organizzare un agguato contro di Te. Fortunatamente, ho intercettato i loro dispacci e non lasciano dubbi su ciò che stanno architettando. Posseggo la lista dei nomi di costoro e sono pronta a fornirtela. Mi rifarò presto viva, forse domani. Une amie du peuple”.
Un’amica del popolo, dunque. Evidentemente non poteva rappresentare alcun serio pericolo, anzi. Le sue spie lo avevano informato in merito alle pericolose intenzioni di quei maledetti girondini e la missiva della misteriosa fanciulla non poteva essere presa sotto gamba. Doveva assolutamente mettere le mani su quella lista. L’amica del popolo sarebbe stata lautamente ricompensata, la sua carriera politica avrebbe avuto un ulteriore slancio innanzi agli occhi del popolo e, soprattutto, quei miserabili cospiratori sarebbero finiti sotto terra, insieme ai loro diabolici piani sovversivi.
Ripiegò la lettera e l’infilò silenziosamente nel cassetto. Era troppo stanco per continuare a scrivere il discorso e troppo eccitato per le notizie derivanti dall’enigmatica missiva. L’influenza, poi, gli serrò gli occhi e le tempie. L’indomani avrebbe avuto molte cose da fare e, soprattutto, qualcuno da incontrare. Si sdraiò ancora vestito sul letto e non appena una fugace folata di tenera brezza spense la candela, si assopì.
Il risveglio di Marat fu brusco. La finestra non dava alcun segno di luce, pertanto il deputato pensò, nella confusione mentale che deriva dall’interruzione di un sonno ristoratore, che fosse notte fonda. Il vociare che proveniva dall’ingresso non lo avrebbe aiutato a riprender sonno, per giunta il mal di testa era improvvisamente scoppiato, come uno stridulo e sconnesso suono di tromba.
Percepì la concitazione tra le gonne, cui la fioca luce di una candela dava risalto. Un vociare femminile lo infastidiva oltremodo, così, sfidando una condizione fisica non invidiabile, si alzò dal giaciglio.
“Simonne…Simonne!”urlò Marat.
Simonne Evrard, la sua fidanzata, accorse accaldata
“Che succede Simonne!? Sento un gran baccano!”
“Si mio diletto Jean Paul, c’è una giovane insolente che afferma di essere in possesso di informazioni di vitale importanza per Voi e per la salvezza della Repubblica. Si è già presentata al nostro cospetto questa mattina ma l’abbiamo respinta indietro. Ovviamente io e Christine le abbiamo detto che siete molto malato ma lei….”
“Falla entrare, Simonne”.
Le parole di Marat gelarono la giovane fidanzata. Jean Paul era stato sempre categorico, non voleva scocciatori né politicanti né presunti informatori i quali intendevano vendere notizie fasulle per novità di primaria importanza, pretendendo laute ricompense. Rimase di stucco, basita. Ma non sapeva contraddire il futuro consorte per cui, come d’abitudine, chinò il capo e, stizzosa, si allontanò.
Ore ventidue. I miei rintocchi parvero rallegrare un’atmosfera assai tesa. Ma fu un’impressione che ebbi solo io. Nessuno sembrò avvedersi dell’allegria che stillavo con la mia lieve armonia. Non era tempo da dedicare a tali amenità, evidentemente. Ore ventidue, dunque. L’ora del bagno. Ogni giorno, puntuale come un rintocco, il buon Jean Paul, prima di cedere alle lusinghe di Morfeo, s’immergeva nella tinozza di legno, doviziosamente preparata da Christine. Acqua calda, sapone marsigliese, un panno morbido per coprire le pubenda.
Marat si spogliò e si calò nell’acqua. Un immediato senso di rilassatezza lo avvolse. Nonostante il caldo del mese di luglio, il bagno non poteva certo esser tiepido, anche perché la sua influenza avrebbe potuto infastidirlo ancora a lungo. Dunque, l’informatrice. Era attesa per il giorno seguente, evidentemente le notizie erano di importanza così vitale che non potevano attendere altro tempo.
Sulla soglia si parò una fanciulla, accompagnata da Simonne. “Jean Paul, questa è demoiselle Charlotte. Se avete bisogno di qualcosa…altrimenti” disse Simonne.
“No cara, lasciaci soli” l’interruppe Marat, desideroso di colloquiare con la graziosa fanciulla, dall’aspetto ben difforme da quello di una spia al soldo della Rivoluzione. La ragazza indossava un importante cappello nero contornato da curiosi nastrini verdi, una veste semplice e comoda di colore blu lunga fino al pavimento.
“Dunque, signorina Charlotte… il vostro biglietto mi preannuncia notizie molto importanti. Vuole venire subito al dunque?” il tono di Marat, benché gentile, parve alquanto risoluto.
“Certo cittadino Marat. Evidentemente non sono venuta fin qui per perdere tempo, bensì per rendere i dovuti servigi alla Repubblica”.
“Bene bene, signorina Charlotte” sorrise compiaciuto Marat. Quell’inattesa alleata avrebbe potuto fare la sua fortuna politica. “Mi faccia i nomi di cui mi ha parlato nella missiva. Il cittadino Marat non dimentica mai gli amici del popolo. E non dimenticherà lei, mademoiselle.”
La giovane non perse tempo a snocciolare nomi e soprannomi dei cospiratori, tutti nemici che il gongolante Marat avrebbe consegnato a Caronte. La razionalità e puntigliosità che scaturivano dalle labbra della donna facevano da contraltare alla luce che, sempre più fulgida, erompeva dagli occhi del deputato, lucidi ed umidicci per la febbre alta che lo scuoteva ma di cui, al momento, prese a dimenticarsi.
La giovane informatrice concluse la recita della lista dei futuri paladini del boia e restò ferma e compiaciuta, accanto a Marat, sofferente ma alquanto soddisfatto del servigio appena portogli su un sontuoso piatto d’argento. I focolai della Normandia, pericolosi e sempre più caldi, sarebbero stati spenti con il sangue dei congiurati.
“Mademoiselle Charlotte, lei può ben immaginare che dovrò avere dei riscontri riguardo ai nomi che mi ha fornito…” disse Marat, rompendo il silenzio che seguì alla lista di morte.
“Cittadino Marat, sono mossa da amore e passione per la Repubblica. Essere al suo cospetto, per me, è già un onore” la bella giovane chinò lievemente il capo, in segno di compunta deferenza.
“Qual è il suo nome Charlotte? Mi parli di lei… non sia così misteriosa!”
La fanciulla iniziò a raccontare qualcosa di sé, della sua vita e dei suoi interessi, del fuoco che in lei aveva acceso la Rivoluzione. Il suo nome era Maria Anna Carlotta de Corday d’Armont, nata alle Ligneries, un piccolo villaggio nei pressi d’Argentan. Tra i suoi parenti spiccava Corneille, si confessò amante delle letture, adorava Rousseau e Plutarco. La conversazione tra i due si fece sempre più intima, le voci si distesero, la tensione di Charlotte svanì, dando spazio ad un sorriso solare e ad uno sguardo intenso ed ammaliante. Le risate che giungevano da quella stanza accreditarono una sopraggiunta ed inattesa intimità tra i due. E la cosa non passò inosservata.
Le orecchie di Simonne erano tese, in un moto di apprensione che la donna non riusciva certo a nascondere. Ma chi era quella giovane che, con tanta arroganza, aveva invaso la sua casa, ottenendo senza difficoltà udienza da Jean Paul? Eppure quelle risate, quelle parole soffuse, sussurrate, che provenivano dalla stanza in cui erano i due, non lasciavano presagire nulla di buono. E difficile negare che Jean Paul aveva sempre avuto un debole per le gonnelle giovani. Qualcosa d’importante da comunicare al cittadino Marat… così aveva detto la fanciulla, con atteggiamento arrogante…
Così vidi Simonne appressarsi silenziosamente all’uscio della stanza. Marat era ancora disteso nella tinozza, in amabile compagnia. Simonne riuscì a restare nell’ombra, ma difficilmente il fidanzato e la sua ospite occasionale l’avrebbero notata, tanto era il trasporto della loro mielosa conversazione.
D’improvviso, l’innocenza di un bacio, un leggero contatto di labbra, un soffio di intenso piacere. Quella conoscenza occasionale culminò nel più improbabile degli esiti. Marat e la giovane Corday vissero attimi deliziosi. Brevi ma piacevoli. Avevano rotto il ghiaccio e l’ardito contatto, dapprima incerto, si fece sempre più audace.
Le gote purpuree di Simonne testimoniavano un’ira sopita. Non urlò. Non imprecò. Nessun gesto e nessuna parola. Solo rabbia che traspariva da occhi di fuoco e mani tremanti. Spettatrice di un evento sconvolgente, l’amato e rispettato compagno che, in casa propria e noncurante della presenza di lei, si trastullava amabilmente con una sgualdrinella venuta da chissà dove. Accettare tutto questo l’avrebbe segnata per sempre. Poteva scappare, forse, allontanarsi da una casa non sua e da un uomo non più suo. Ma Jean Paul non avrebbe mai permesso tale atteggiamento, ne avrebbe risentito la sua carriera politica di uomo integerrimo. E poi la sua fuga avrebbe dato senso ad una sconfitta di una partita che lei non aveva neppure giocato. No, scappare non sarebbe stato dignitoso. Simonne si allontanò di soppiatto, riaffacciandosi sull’uscio della saletta pochi secondi più tardi.
“Non credete che sia ora di uscire dalla vasca, Jean Paul?” affermò compita.
“Si certo Simonne, tanto più che l’acqua si è raffreddata. Certo avresti potuto portarmi qualche caraffa d’acqua riscaldata!” affermò noncurante il deputato.
“Non è il caso di congedare la vostra ospite, Jean Paul? io…” riprese maliziosamente la fidanzata che, intanto, aveva perso il colorito paonazzo di pochi attimi prima.
“Se permetti questi non sono affari che ti riguardano, Simonne… e cosa aspetti a prendermi un telo, non vorrai che esca dalla tinozza senza coprirmi!, mi prenderà un colpo, è così che ci tieni alla salute del tuo futuro marito?” protestò Marat.
Dopodiché fu un attimo.
Simonne estrasse dal vestito una lunga lama affilata. Gli occhi spiritati fissarono brutalmente la giovane Carlotta. Simonne si protese verso di lei, la cercò, la squadrò, per capire dove colpire. Dove affondare l’arma, dove il sapore del sangue sarebbe stato più dolce.
L’urlo di Charlotte fu acuto ed istintivo, portò la mano alla bocca ed il volto si ritrasse dallo spavento. Ma la destrezza le fu amica. D’impulso si scansò, evitando la lama e lasciando che il violento colpo di Simonne non la trafiggesse. Lo slancio di questa però era tanto impetuoso che, fallito il bersaglio, non ebbe modo né tempo di fermare il braccio omicida.
L’urlo fu strozzato in gola. Marat, ormai in procinto di assciugarsi, non ebbe il tempo di accorgersi che stava morendo. Il bruciore che percepiva al fianco lo annebbiò, ovattando la realtà circostante. Abbassò gli occhi e, oltre ad un manico di coltello, curiosamente incardinato tra le scapole, notò l’acqua divenire sempre più cupa e rossastra. Poi il nulla.
Si afflosciò e cadde esanime.
L’urlo di Charlotte fu immediato ed acuto. Volse gli occhi verso Marat, steso senza vita ai suoi piedi, avvolto da un telo ormai rosso. Si abbassò d’istinto, tentando di estrarre il coltello.
Fu quello il momento in cui, mossa dalle urla, Catherine entrò trafelata nella stanza. Lo spettacolo, terribile e delirante, non lasciava dubbi.
Un uomo a terra. Sangue. Una donna accovacciata ad armeggiare con un pugnale. Simonne, sconvolta, pochi passi indietro.
“Catherine, Catherine…questa donna, questa sgualdrina…ha ucciso il mio Jean Paul…è una traditrice, una cospiratrice, un’assassina!!!” gridò stravolta Simonne.
“No, io… no, non c’entro, io…..” balbettava la Corday.
Rumore di passi. Qualcuno stava sopraggiungendo. Delafonde, dentista, confidente e vicino di casa di Marat, sentito il sospetto trambusto, accorse immediatamente. Anche a lui la scena apparve chiara. Si gettò sul deputato, nella speranza di strapparlo ad un esito che appariva ormai scontato. Ma constatò che non c’era nulla da fare. Marat era morto.
Preso da ira, afferrò per le braccia Charlotte, tremante e piagnucolosa, in evidente stato confusionale, la mano imbrattata del sangue di Marat. “Assassina!” la etichettò.
La polizia, chiamata da Catherine, giunse in breve tempo ed il commissario Guellard, preso atto del decesso del cittadino Jean Paul Marat, accusò formalmente Charlotte di omicidio volontario, conducendola alla terribile prigione dell’Abbaye dove, seppi più tardi, fu celebrato un sommario processo instaurato dal procuratore capo Fouquier-Tinville e dal presidente del tribunale rivoluzionario Montanè.
Tradotta alla Conciergerie, le voci sulla sorte di Charlotte Corday, paladina della Rivoluzione ed amica del popolo, raccontarono di una condanna a morte e, condotta al patibolo dal carnefice Henry Sanson, fu giustiziata il 17 luglio del 1793.
Tic tac…. tic tac…..
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- Molto ben scritto, complimenti. Ciao Claudio
- molto coinvolgente e mi piace come si muovono i personaggi
- molto ben scritto, avvincente e originale. Complimenti
Saluti, ziohenry
- Splendida opera, originale e coinvolgente la narrazione.
Stile ottimo.
- Splendida narrazione, originale. Curioso innanzitutto il punto di vista dell'oggetto! Anch'io vi vedo qualche influenza di Edgard Allan Poe! Mirabile... Il clima rapido ed angoscioso nel momento dell'omicidio, la colpevolezza che ricade su un'innocente... Mirabile! Ti voto volentieri!
MD L. il 12/03/2007 18:24
Delizioso e coinvolgente questo racconto storico come poche volte succede. Infatti l'espediente dell'orologio che narra è originale ed alleggerisce la lettura, invoglia il lettore a continuare. Complimenti!
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