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L'imprevedibilità della vita
Credo che un po' tutti ci facciamo un'idea di come potrebbe essere la nostra vita futura, e magari viviamo nell'angoscia il presente temendo quello che sarà di noi, senza tenere in debito conto ciò che potrebbe riservarci il destino, capace di stravolgere progetti e aspettative.
Anche quando la nostra vita sembra scorrere sui binari della monotonia, verso una meta per noi verosimile, basta un evento imprevisto a farla deragliare e a sconvolgerla, facendola deviare verso scenari fino a quel momento inimmaginabili.
Questo a me accadde un giorno di otto anni fa, e la mia vita improvvisamente cambiò direzione.
Da quasi quarant'anni ogni mattina mi alzavo prima delle cinque, uscivo di casa per andare al deposito e mi mettevo alla guida di un autobus di linea per raggiungere dei paesini della provincia, dove caricavo un bel po'di studenti per portarli in città.
Era un lavoro pesante, ma non me ne ero mai lamentato, del resto mi aveva dato la possibilità di sposarmi e di metter su famiglia.
Mia moglie mi aveva lasciato dopo ventiquattro anni di matrimonio, sopraffatta da un male incurabile, dopo avermi donato due figli: Laura, la grande, che si era sposata e viveva al Nord, e Antonio, ormai ventitreenne, che era riuscito a diplomarsi a fatica, perdendo qualche anno per strada, e non aveva voluto più studiare. Nell'attesa di un lavoro stabile, lo avevo convinto a prendere la patente per guidare i pullman, nella speranza che potesse essere assunto nella stessa ditta dove lavoravo io.
Intanto viveva da scavezzacollo, alzandosi tardi la mattina e trascorrendo le sue giornate con gli amici, giornate che per lui finivano a notte fonda.
Il suo modo di vivere non mi piaceva, e spesso avevamo delle accese discussioni nelle quali l'accusavo di essere immaturo e fannullone, e di non darmi nessun aiuto a casa. Il nostro era un rapporto molto conflittuale, e questo mi faceva star male.
Quella mattina uscii di casa che pioveva, sembrava una giornata come mille altre, ma purtroppo non lo era, perchè ben presto sarebbe accaduto qualcosa che avrebbe sconvolto la mia vita, e non solo la mia, per sempre.
Arrivai con l'autobus a Borgofelice prima delle sette, e nella piazza del paese c'era il solito gruppo di ragazzi che mi aspettava per salire a bordo. Quanti giovani avevo visto crescere, giorno dopo giorno, anno dopo anno, e di ognuno di loro avevo imparato il nome.
Arrestai il bus davanti alla pensilina della fermata, aprii la porta automatica di ingresso e loro salirono uno dopo l'altro, salutandomi e andando ad occupare i posti a sedere in modo disordinato.
Chiusa la porta, ripartii in direzione di Cantello, il secondo paesino nel quale avrei caricato il resto di studenti.
Mentre guidavo, di tanto in tanto davo una sbirciatina allo specchietto retrovisore interno: qualcuno dei ragazzi era intento a ripassare, qualcuno dormiva, altri scherzavano e sghignazzavano, un paio di coppiette si erano estraniate da tutto il resto. Era tutto come al solito, come ogni mattina.
Arrivammo a Cantello poco dopo le 7, 30, il viale che porta alla piazza del paese era quasi deserto, mentre la pioggia era aumentata d'intensità.
Alla fermata c'era un bel gruppo di studenti, qualcuno con l'ombrello aperto, altri avevano tirato su il cappuccio del giubbotto.
Mi avvicinai a loro lentamente, e quando il bus era quasi fermo udii delle urla provenire da fuori, dei colpi violenti sulla fiancata, e subito dopo urla e trambusto all'interno, i ragazzi si alzarono per affacciarsi ai finestrini...
Tirai il freno a mano, e per un attimo non capii nulla di quello che stava accadendo; mi resi solamente conto che stava succedendo qualcosa di grave, qualcosa che non mi era mai successo prima. Aprii la porta automatica, mi alzai dal mio posto di guida e scorsi fuori un paio di ragazze con le mani tra i capelli e l'espressione terrorizzata. Mi sentii gelare il sangue prima ancora di vedere cosa fosse accaduto. Scesi dall'autobus facendomi largo tra i ragazzi, e vidi Angela, una studentessa di quinto anno, per terra che urlava e piangeva, e si teneva una gamba. Mio Dio, cos'era successo? I ragazzi si erano accalcati accanto all'autobus prima ancora che io lo arrestassi, per cercare di salire prima possibile, e una ruota del bus era passata su un piede di quella ragazza. Questo era successo!
Il mio cervello non riusciva più a ragionare, le mie mani tremavano, le mie gambe stentavano a tenermi in piedi. Di quei momenti non ho ricordi nitidi, ma dei flash. Ricordo che mi inginocchiai accanto alla ragazza, tra i suoi libri di scuola caduti fuori dal suo zaino, l'abbracciai e accarezzai il suo viso, che era una maschera di dolore e disperazione, cercando di rassicurarla dicendole con voce tremante: "Niente è, niente è, stai tranquilla Angela, niente è".
Qualcuno mi spostò bruscamente, un uomo vestito di bianco, probabilmente un infermiere del vicino ospedale, distante poche decine di metri, forse attirato dalle urla dei ragazzi; quindi arrivò un medico del pronto soccorso che si prese cura della ragazza. Di quello che accadde dopo, ricordo solamente che le gambe non mi reggevano più e mi dovetti sedere sul bordo del marciapiede bagnato, sotto la pioggia battente, che udii le urla disperate di una donna e che vidi arrivare un'ambulanza che ripartì subito dopo.
Non mi rendevo più conto del tempo che passava, della gente che si avvicinava e cercava di confortarmi, di rassicurarmi.
Ho un vago ricordo di uomini in divisa che mi chiedevano cos'era successo, forse Carabinieri o Vigili Urbani, e di ragazzi che rispondevano al posto mio, perchè io ero incapace di rispondere lucidamente.
Ad un tratto sentii una mano sulla spalla, una voce familiare dire: "Papà, papà". Ma che ci faceva mio figlio Antonio lì? Com'era arrivato? Chi l'aveva avvisato? "Papà, dai vieni, andiamo all'ospedale".
Mi sentii rincuorato dalla presenza di mio figlio, e senza dire una parola salii in macchina con lui, incurante del fatto che ero bagnato fradicio, dell'autobus che stavo lasciando incustodito e di tutti gli studenti che dovevano andare in città.
Arrivammo al pronto soccorso del capoluogo dopo una mezz'oretta, che per me durò un'eternità, ed i medici stavano già visitando la ragazza. Mi misi seduto in un angolino e mi ritrovai a pregare, ad implorare il Signore che la cosa non fosse grave come sembrava.
In quei momenti i ruoli tra me e mio figlio si invertirono, poiché improvvisamente sentii il bisogno che qualcuno si prendesse cura di me, che si facesse carico dei miei problemi e mi aiutasse ad affrontare un dramma che io in quel frangente non ero in grado di sostenere.
Antonio riuscì ad intrufolarsi all'interno del pronto soccorso, uscendone dopo un bel pezzo. Gli rivolsi uno sguardo interrogativo, e lui mi disse: "L'hanno medicata e la stanno ricoverando in traumatologia. Io ci sto salendo, tu resta qua e aspettami".
"No, vengo con te", risposi, e mi alzai avviandomi verso l'ascensore. Antonio mi prese sottobraccio e mi accompagnò senza dire una parola.
Giunti dinanzi al reparto di traumatologia, dove c'era tanta gente e un continuo viavai di pazienti, inservienti, medici ed infermieri, incuranti del dramma che si stava consumando, ci mettemmo dietro alla bussola chiusa del reparto, sperando che qualcuno ci potesse dare delle notizie.
Passarono delle ore, durante le quali l'androne si svuotò quasi completamente, finché restammo solamente noi e altre poche persone, sicuramente parenti della ragazza, che stavano aspettando di conoscere le sue condizioni.
Uscì dal reparto una signora con gli occhi gonfi e un fazzoletto in mano, la mamma di Angela, che singhiozzando diceva a quelle persone che le condizioni della figlia erano gravi, che le ossa del piede si erano frantumate. Dovetti appoggiarmi alla parete per non cadere, e Antonio mi sorresse con forza, facendomi sedere su una sedia.
Dopo un po' la mamma di Angela rientrò in reparto, mentre i suoi parenti, costernati, andarono via. Io e Antonio rimanemmo soli, nell'androne ormai deserto, seduti e silenziosi. Si aprì la porta del reparto, e ne uscì un uomo che io conoscevo, ma non sapevo che fosse il padre della ragazza. Aveva un'espressione affranta, molto preoccupata. Per un attimo temetti potesse inveire contro di me, accusarmi per quello che era successo a sua figlia. Gli andai incontro, e prima che potessi chiedergli qualcosa, disse trattenendo a stento le lacrime: "La devono operare per cercare di salvare il piede, ma c'è il rischio che debbano amputare".
Quella notizia mi sconvolse, non poteva essere vero. Mi lasciai cadere su una sedia, le mani tra i capelli, mentre migliaia di pensieri affollavano disordinatamente la mia mente.
Rimasi lì immobile a lungo, mentre Antonio cercava di incoraggiare il padre della ragazza.
Più tardi si spalancò la bussola del reparto, e ne uscirono due infermiere che spingevano il letto di Angela verso la sala operatoria. Lei aveva gli occhi chiusi, i lunghi capelli neri raccolti in una cuffia, una flebo attaccata al suo braccio destro. Sua mamma le camminava accanto stringendole una mano, un passo dietro di lei si accodò il padre.
Era già tarda sera, quando fu portata in sala operatoria, e ad aspettare rimanemmo noi e i suoi genitori. Per tutto il tempo nessuno ebbe voglia di parlare, ed io rimasi assorto nei miei pensieri e nelle mie preghiere.
Dopo alcune ore uscirono dalla sala operatoria il primario e uno dei suoi assistenti, verso i quali si precipitarono i genitori di Angela, mentre io e Antonio ci tenemmo ad una certa distanza, cercando di capire dall'espressione dei loro volti com'era andato l'intervento.
Il primario mentre parlava era molto serio in viso, quasi mortificato, e dopo un po' la mamma scoppiò in lacrime e suo marito l'abbracciò piangendo anch'egli.
Capimmo che avevano dovuto amputare il piede. Scoppiai a piangere come un bambino, nascondendo il viso con le mani, e come un padre consola il figlio, Antonio consolò me abbracciandomi e dicendomi: "Papà, non è colpa tua, non piangere, non è colpa tua".
È vero, non era stata colpa mia, sapevo che era stata una disgrazia, ma io mi sentivo tremendamente responsabile.
Quando Angela fu riportata in reparto era notte fonda, e con lei entrarono i suoi genitori.
Quella notte mi rifiutai di tornare a casa, nonostante le insistenze di Antonio, il quale, non riuscendo a convincermi, rimase lì con me.
Restare lì non giovava a nessuno, ma non me la sentivo di andare via dopo aver saputo che quella povera ragazza aveva subito un danno così grave, un danno che avrebbe condizionato la sua vita futura.
Durante le interminabili ore che seguirono pensai a lei, ai suoi genitori, a mia moglie, al mio lavoro, ai miei figli, ma soprattutto ad Antonio. Improvvisamente il mio giudizio su di lui era cambiato; non era più il ragazzo immaturo col quale litigavo spesso, ma un uomo forte, capace di affrontare una situazione che io non riuscivo a gestire, di starmi accanto e di darmi coraggio nel momento in cui ne avevo più bisogno.
L'indomani mattina ci permisero di entrare in reparto. Angela era debole, talmente debole che non riusciva ad aprire gli occhi. I suoi genitori, nonostante il comprensibile dolore, apprezzarono la nostra presenza, riconoscendo che io non avevo nessuna colpa di quello che era successo.
Nei giorni successivi Antonio mi accompagnò ogni giorno in ospedale da Angela, e con lei instaurò un bel rapporto, riuscendo anche a farla ridere.
Sono passati otto anni da quei terribili momenti, e molte cose nel frattempo sono cambiate: io ho trascorso tante notti insonni e attraversato un brutto periodo di depressione, durante il quale Antonio mi è stato molto vicino, e non ho voluto più saperne di mettermi alla guida di un autobus.
Oggi faccio la vita del pensionato, e vado ogni giorno a trovare il mio nipotino Cristian e la sua mamma. Il senso di colpa me lo sono portato dentro per anni, ed è stato il sorriso di Angela a sconfiggerlo, quel sorriso col quale mi accoglie tutte le mattine, quando vado a trovare lei e Cristian mentre Antonio è al lavoro, alla guida di quello che era stato il "mio" bus.
Ispirato da un fatto realmente accaduto.
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1 recensioni:
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- L'imprevedibilità e anche la crudeltà della vita che a volte si accanisce ingiustamente. Un racconto scritto molto bene, senza una sbavatura. Ma in questo racconto è importante soprattutto la sostanza.
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