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Piccola Lulu

Quel giorno l'ho lasciata tra le braccia di mio padre; dormiva serena, perciò me ne sono andata a cuor leggero. Nonostante tutto il trambusto che avevo intorno, il muso lungo di papà e lo sguardo attonito di Giorgio, il nostro maggiordomo di sempre, un'espressione balorda che non gli avevo mai visto e che in quel momento non capivo.
Uscii di casa camminando all'indietro, qualcuno mi stava tirando per le spalle e io ogni tanto inciampavo nei miei stessi piedi, ma continuavo ugualmente a fare il gambero, forse lo trovavo divertente, e comunque in quel momento non sarei stata in grado di voltarmi, ché i miei occhi s'erano come incollati a quegli insoliti e vistosi bracciali che Giorgio s'era infilato intorno ai polsi, sembravano manette.
Era tutto a posto, lo sapevo. Avevo fatto il mio dovere fino in fondo.
Le avevo già dato un nome, e avere un nome era tutto, non le sarebbe servito altro; e adesso la stavo lasciando al sicuro in braccio a suo nonno, lì poteva dormire tranquilla.
"Lucrezia, papà! Si chiama Lucrezia!". Lo vidi annuire, e ne fui rassicurata.

Darle un nome. Scegliere un bel nome. Era stato questo il mio primo pensiero, la mia grande e unica preoccupazione nell'istante stesso in cui avevo saputo che lei sarebbe stata mia: l'ansia di trovarle un nome bello, degno di lei e di quello che per me sarebbe stata. Degno di me.
È questo quello che ho provato, e non gioia o tenerezza, certamente non sconforto né paura di non essere all'altezza o chissà che altro. E dopotutto credo sia stata una reazione naturale, visto che il non aver mai avuto un nome vero, un nome che mi appartenesse da subito e fosse realmente tutto mio, è sempre stata la mia grande dannazione.
Il nome di mia nonna me l'hanno appioppato per dovere, e potevano anche farne a meno, dico io, se poi mi hanno sempre chiamata col nome di mia mamma, poveretta... salvo poi pronunciarlo tutti, mio padre per primo, con quell'odiosa riluttanza triste che ero certa volesse dirmi: "Piccola cara non volermene, il suo nome te lo concedo ma rassegnati, non sei come lei né mai potrai esserlo... il confronto non regge!"
Mio padre stentava a pronunciarlo, quel nome, forse non riusciva ad abituarsi del tutto all'assenza di mia madre, così preferiva chiamarmi "piccolina" e se parlava di me con qualcuno diceva sempre e soltanto "mia figlia". Per Giorgio ero "la signorina", per zia Clara "la pupetta", e per tutti gli altri, o quasi tutti, io ero semplicemente "la figlia di"; e dopotutto mi andava anche bene, se era proprio così che io stessa ero solita presentarmi: come "la figlia di"... figlia di mio padre e di una donna che non c'era più. Una donna molto bella e amata da tutti, che un giorno a causa mia era volata in cielo troppo giovane. Partorendo.
Quasi nessuno usava il mio vero nome, quello di mia nonna. E quando qualcuno mi chiamava con quel nome, il nome di mia madre, percepivo nei suoi occhi un conato di compassione che per me era una pugnalata in petto ogni volta, e allora il mio odio per lei cresceva, e io mi arrabbiavo con Dio e col mondo intero e poi anche con me stessa... per averla uccisa così, senza neppure esserne cosciente; arrivavo a pensare che avrei preferito farlo dopo, probabilmente con più motivi e maggior soddisfazione.

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