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Perla
Le scale del vecchio palazzo sono immerse nel buio. Tutte le lampadine sono spente. Solo davanti ai lucernai, grossi buchi tondi a metà di ogni rampa, filtra una lama bluastra di luce lunare. L'edificio è vecchio, fatiscente. Gli intonaci sono scrostati, anneriti e scarabocchiati. La balaustra, arrugginita, ha perso da tempo la sua stabilità. E chi vi si appoggia la fa ondeggiare, non senza intimorirsi.
L'uomo sale lentamente, col capo chino e intabarrato nel suo pesante cappotto grigio a spina di pesce. Non pensa a nulla. La sua mente è offuscata dal vino che ha tracannato senza posa durante la cena. Ed il suo stomaco, sofferente per il sovraccarico ingerito, brucia e produce gas a profusione.
Rutti sonori quanto disgustosi echeggiano nella tromba delle scale insinuandosi sino all'androne, così desolatamente vuoto, spoglio, da fungere da cassa di risonanza. Finalmente è arrivato. Stanco come non mai, nostante sia abituato sin da bambino a inerpicarsi su quei grezzi gradini di basalto, fin lassù.
La mano tremante non riesce a far trovare alla chiave il suo naturale rifugio. Tenta più volte biascicando qualche bestemmia con la voce impastata dall'alcool. La vescica, stracolma, urla il suo bisogno impellente, innervosendo l'uomo che non riesce in alcun modo ad entrare in casa.
Il fendente, preciso e deciso, gli recide la gola. Il sangue zampilla furioso lasciando rapidamente il suo alveo. In pochi secondi 106 chilogrammi stramazzano, ormai privi di vita, in una pozzanghera di urine rosso ciliegia.
Quant'è bella Perla. Coi suoi occhioni nocciola, vispi e intelligenti. Con le sua labbra carnose e morbide. Col suo nasino all'insù. Con la sua infinita tenerezza. Con il suo amore incondizionato. Davanti alla finestra, guardando nel vuoto, ne distinguo dettagliatamente i tratti. E mi sorride, sempre. E mi tende le braccia. Mi manda baci.
La grossa automobile procede spedita sulla tangenziale in direzione nord. La radio trasmette melensa musica melodica dialettale. E l'uomo al volante, con un blazer dai bottoni metallici e cravatta, canta con voce stonata. Sembra contento. Nonostante i divieti sfreccia costantemente oltre i 100 km orari e non stacca mai l'orecchio dal suo fidato cellulare, attivo senza posa sin dalla partenza.
Sul sedile accanto la sua inseparabile borsa di pelle griffata, piena zeppa di documenti, di affari, di imbrogli.
La meta è vicina. La giornata è soleggiata e il traffico inesistente. Se non ci saranno intoppi sarà a destinazione prima del previsto e, magari, potrà fare una visitina veloce a quella brunetta che non gli dice mai di no.
Il motore improvvisamente inizia a borbottare. Gli occhi si fanno cupi, preoccupati. È un rumore che non fa presagire nulla di buono. E, infatti, la macchina perde velocità, sussultando e fumando. Per fortuna la piazzola è vicina. Imprecando e battendo i pugni sul volante, l'uomo accosta ed entra nell'area di emergenza. È molto contrariato, soprattutto perchè salta il programma con la brunetta. Apre la portiera, non senza essersi data un'aggiustatina alla cravatta e, una volta in piedi, si stiracchia. Il SUV, nero dai finestrini neri, arriva come un missile. Piomba sull'uomo, che nemmeno si rende conto di quanto accade, e lo scaraventa sul guardrail. Poi, ritorna indietro, e si lancia sul corpo già sfigurato, schiacciandolo come un pidocchio.
La notte è tremenda. Perla appare in tutto il suo splendore e mi sta accanto, sussurrandomi il suo amore. Ne avverto il profumo, percepisco la sua presenza. Ma poi, ineluttabilmente, la mano, protesa, alla sua ricerca, non trova che il cuscino vuoto. Tutto sparisce e mi ritrovo a piangere seduto in mezzo al letto.
Nell'ascensore, che sale lemme al 25 piano del Centro Direzionale, pel di carota fischietta silenziosamente. I suoi pochi capelli, sono rossicci e stopposi. E sul volto, butterato dal vaiolo, una lanugine di pari qualità si spalma da un orecchio all'altro. I suoi occhi sono celesti, slavati e sporgenti. E la cicatrice del labbro leporino completa l'opera, restituendo una maschera ributtante dal sorriso sardonico perenne. Un rumore smorzato attrae, giusto una frazione di secondo, l'attenzione del suo orecchio sinistro prima che sia perforato da un proiettile calibro 9. La pallottola attraversa la base del cranio e, per puro caso, fuoriesce dall'altro orecchio, ficcandosi nella plancia dei pulsanti.
Lo spiazzo è deserto, come sempre. Come quella sera. La luna è alta, tonda e splende come non mai. Perla è seduta sulle mie ginocchia e mi bacia. Non riesco a crederci. Mi sembra un sogno.
Una donna come quella che ama me, proprio me.
D'improvviso la portiera si apre e tre ombre me la strappano via e la trascinano sul selciato. Poi il buio, più pesto. Mi risveglio dopo non so quanto tempo. La fronte mi sanguina. Tutto il volto, la camicia sono intrise di sangue. Barcollando e con un mal di testa feroce perlustro quel maledetto spiazzo, urlando il suo nome. Finchè non la trovo. La mia piccola Perla giace senza vita su un lercio prato. Nuda, sfregiata e vilipesa. Crollo accanto a lei gridando come un forsennato. Poi di nuovo buio pesto. Mi risveglio in un letto d'ospedale. I miei occhi continuano a piangere. Mi sembra un sogno, un brutto sogno.
Non so quanto tempo sono stato in coma, stremato dallo shock e dalla disperazione. Non ricordo quanti giorni ho vagato senza meta e senz'anima. Non ricordo quando il corpo ha ripreso meccanicamente le sue abitudini. So solo che dopo lunghe notti insonni e tormentate ho promesso a Perla che l'avrei raggiunta. Ma prima avrei dovuto sbrigare un'incombenza.
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