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PAZZIA D'AMMURI
Castello è un paesino arroccato su un monte dell'Appennino campano, un piccolo centro alle porte del Cilento. Costruito, nel 1144, intorno al monastero di S. Lorenzo de Strictus è strutturato, come un gigantesco presepe, tra gli Alburni ed il Tirreno della piana del Sele. Un posto splendido, al riparo dagli orrori della guerra e dal caos di un dopoguerra lungo e difficile. Una lunga serie di fertili terrazzi, ricchi di fichi e vigneti, offrono, ancora oggi, ai più esigenti cultori del vino, un barbera doc, dove si armonizzano eccezionalmente colore, gusto e profumo.
È qui che si svolge la nostra storia, negli anni cinquanta, quando, all'età di quindici anni, mio padre volle che andassi ad imparare il mestiere da mastro Antonio Iannuzzi, un imprenditore di Vallo, che si era sposato a Castel San Lorenzo.
Angela Morra, una splendida donna di ventisei anni, viveva in una modesta abitazione del corso, nel lungo tratto di strada, che accoglieva i carretti dei "semenzari", che ritornavano da Piaggine e da Laurino, prima di perdersi nelle curve scavate nella boscaglia, che, sinuose, precipitavano a valle, verso il lungo rettifilo di Capaccio Scalo.
Alta, ben fatta, dal seno esuberante, i glutei sodi e ben disegnati, percorreva il paese a testa alta, come chi non ha nulla da spartire con nessuno. Gli occhi verdi e grandi, i capelli castano chiaro, con riflessi rossi evidenziavano le labbra piene e ben disegnate, una bellezza inconsueta, tra la miseria e l'ignoranza superstiziosa del luogo.
Era una ragazza madre, ma il figlio si diceva l'avesse affidato ad un istituto di religiose, sapeva che sarebbe stato impossibile tenerlo con lei, in paese, e lottare per sopravvivere. Da sola poteva affrontare la vita, non le mancava il coraggio, ne aveva più di dieci uomini messi assieme.
- Domani vengo a lavorare! - disse a mastro Antonio Iannuzzi, con le mani ai fianchi e le gambe dritte e leggermente aperte, come usano dalle nostre parti gli uomini di principio.
- Vedi che cominciamo alle sette e la manovalanza si butta! - replicò mastro Antonio.
- Tatò, alle sette, sarò già ad attendervi da mezz'ora - concluse Angela, scappando via dal cantiere, come se si fosse ricordata di un impegno improvviso. Sculettando vistosamente, salì lungo la mulattiera che portava su, al castello; il vestitino di stoffa, piuttosto malandato, le aderiva come fosse una seconda pelle, tanto che sembrava fosse nuda, con i glutei che davano forma alla stoffa ed il seno, fermo e compatto come marmo di Carrara, che sfidava l'aria, ancora tiepida, di quel caldo tramonto di fine maggio. A metà strada, fischiò forte, a guisa dei caprai, quando richiamano il gregge, tra i pascoli dell'Appennino, ed un volpino a coda mozza accorse cerimonioso al suo richiamo.
- Zuzù, vieni cu' me!-
Il volpino cominciò a precederla, su per la irta mulattiera, fermandosi, di tanto in tanto, ad abbaiare festosamente. Giunsero ad una radura, dove il sole giocava con le foglie dei castagni e l'erba sembrava più fresca e più verde che altrove. Esausta, Giulina si fermò. Sedette sul prato, poggiando la schiena al tronco di un vecchio albero, e tirò su l'orlo del vestito, fin oltre le ginocchia. Ora, si sentiva libera. Ad un tratto, sospirò profondamente, prese il medaglione che le pendeva al collo e guardò la foto di un bambino di tre o quattro anni, che le sorrideva. Baciò d'impulso l'immagine, ripetute volte, poi, facendosi seria, scoppiò in un pianto dirotto. Il cane smise di farle festa e si accomodò ai suoi piedi, col muso tra le zampe anteriori e non si mosse più.
Sul cantiere di compare Cosmo non vi era ancora nessuno, ero stato il primo ad arrivare quella mattina. Fischiettavo di buon umore, quando la vidi arrivare, seguita dal fedele volpino. Si fermò e guardando il cane gridò:
- Zuzù, vatìnni!- Il cane, l'ascoltò subito e scomparve rapidamente nella campagna circostante.
- Tu si' Cosimo di compare Danisi? -
- Si - risposi
- Si' crisciuto in fretta, sembri 'n'òmmo -
- Certu chi so' n'òmmo, 'nu mi vìri?-
Mi guardò con attenzione e sorrise maliziosamente, poi, non mi degnò più di uno sguardo.
Quando iniziammo a lavorare, era sempre la prima a correre e ad eseguire gli ordini di mastro Antonio, né si faceva mai riprendere per qualche mancanza, anzi, faceva il lavoro di dieci uomini, senza mai lamentarsi. Tre mesi dopo, la casa era già terminata.
- Domani cambiamo cantiere! - disse mastro Antonio, alla sera del primo sabato di settembre.
- A mettere i pavimenti alle tre camere di sopra resteranno solamente Cosimino e Giulina. Appena avranno finito, ci raggiungeranno all'altro cantiere!-
- Come voi dite, Tatò !- rispose Angela con accondiscendenza.
Il volpino era già ad attenderla nel viottolo ed ella lo raggiunse, camminando allegramente, come se si fosse riposata tutto il giorno. Gli uomini si girarono a guardarla, ma lei, senza curarsi di nessuno, corse incontro al cane, fischiandogli da lontano. La vidi scomparire in lontananza, ed i miei compagni fecero commenti, che mi mandarono il sangue alla testa:
- Hai vistu? Tenu 'nu cùlu ch'è nu zùccheru!-
- 'E mastu Tatonno ci ha datu 'stù scarcillu!-
- 'E vùi vi futtìti, signuri miei!- risposi con rabbia-
Quel lunedì mattina, alle quattro ero già sveglio. Mi lavai e mi lustrai, come per andare ad una festa ed alle sei e trenta ero già sul cantiere. Lei era lì e si dava da fare con gli arnesi per impastare e trasportare il malto per le mattonelle.
- Giorno!- sbiascicai, rosso in viso e lo sguardo vergognoso ed imbranato di adolescente-
- Giorno!- mi rispose, sorridendomi per la prima volta.
Lavorammo per tutto il giorno, tranne una breve pausa per il pranzo, ed all'imbrunire, ci salutammo davanti casa sua:
- Dimàni ti portu ìe lu pane!- disse, sfiorandomi la mano e scomparendo
rapidamente dietro l'uscio.
Dormire era oramai impossibile, già da qualche notte. Il buio alimentava piacevolmente i miei sogni, con mille disegni che, incredibilmente peccaminosi, si affacciavano nella mente stravolta da una passione nuova, per l'età. Le avevo già strappato i panni di dosso, così come avevo già immaginato i suoi baci e le mie carezze audaci. Anche quella notte, feci, ripetutamente, all'amore con lei, col desiderio che mi faceva battere forte, forte il cuore.
Alle sette, ero lì ad attenderla, con una strana febbre addosso che mi faceva tremare le mani e le gambe. Il sole illuminava i tetti rossi delle case e la campana della chiesa annunciava la fine del rosario mattutino.
- Vieni, Zuzù!- la sua voce mi sembrò musica di violino, in quella splendida mattinata di settembre. Guardai l'orologio di mio padre, erano le sette in punto. Venne verso di me, senza l'ombra di un sorriso e mi guardava fisso negli occhi, come a tirarmi l'anima; aveva gli occhi stanchi ed i capelli tirati all'indietro. Mi si piazzò davanti, a gambe larghe e mi sfiorò le labbra con il pollice della mano destra, mentre carezzava il mio viso di fuoco.
- Sei caldo, cùmme si tinìssi la febbre - disse con una voce, che era nuova per me-
- Zuzù, vavattìnni! - Il cane andò via di corsa e scomparve rapidamente nel viottolo.
- Andiamo a faticàri! - disse ad un tratto e si avviò dentro la casa, mentre seguivo allucinato i suoi passi e le forme vive del suo corpo.
La prima camera era già completa e la seconda era pronta per essere pavimentata. Tutto il materiale era nel terzo vano, insieme ad un gran mucchio di segatura, per la pulizia e l'asciugatura dei pavimenti. Vi entrai e la vidi. Era bellissima. Il seno mi guardava intrigante e prepotente, mentre il corpo sinuoso si reggeva su due gambe lunghe e diritte, come colonne di alabastro.
- M'hai stregata, mi disse, so' dòie notte ca nu' dormo -
Mi rifugiai tra le sue braccia, emettendo una sorta di invocazione, che sembrò un singhiozzo, ed incominciai a prendere tutto di lei: i suoi baci, il suo profumo, il suo calore, senza mai stancarmi di carezzarla.
- Pianu, pianu còre mio! -
- Quanti anni tieni?-
- Sedici quindici- mi corressi, arrossendo.
- Madonna! Si piccirìddu, cumme posso fari?-
- Te voglio bene assai! - mormorai delirante
- Lu sacciu, figliu bello, anch'io ti vogliu un bene d'anima!-
- Aspetta - si chinò e mi spogliò con grande dolcezza, guardandomi attentamente, con i grandi occhi verdi.
- Si, si' proprio crisciùto in fretta!- esclamò, sorridendo e baciandomi ripetutamente sulla pancia, appena sotto l'ombellico. La mia parte, rigonfia fino allo spasimo, le sfiorò il seno ed ella abbassò le palpebre, per un lungo attimo.
Aveva gli occhi torbidi e la voce era particolarissima, mentre mi carezzava per tutto il corpo e mi baciava delicatamente, come si fa con un fiore, per non sciuparlo. Di tanto in tanto mi alitava in un orecchio, sussurrandomi :
- Cusimino, sei la vita mia!-
Mi sentii in paradiso.
La campana suonò dodici rintocchi e Giulìna saltò sul giaciglio improvvisato:
- Ammòri, dobbiamo mangiàri!-
Aprì un fazzoletto di bucato, bianco come la neve, e comparvero dei biscotti dolci con polpa di fichi. Li mangiammo tutti. Alle otto di sera, andammo via tenendoci per mano, finché non pigliammo la strada del corso. All'incrocio, mi lanciò un bacio e scappò via, dirigendosi verso casa.
Continuammo a mettere pavimenti in quella guisa, per altri due giorni, finché mastro Antonio non ci separò, abbinandola ad un altro muratore.
Il sabato successivo, mi attese fuori al cantiere e con gli occhi seri mi disse:
- Sùlu cu' tìa feci all'amore, pecché te vogliu bène! -
- T'aspetto 'a la casa, vièni staséra?- aggiunse dopo una lunga pausa.
- Vengu, vengu!- risposi, rassicurandola con lo sguardo. Mi sorrise e scappò via come una cerbiatta.
Così, tutte le sere, dopo il lavoro, raggiungevo di nascosto la sua abitazione, scavalcando il muro dell'orto, per vivere e morire tra le sue braccia.
- Tengu nù figliu, sai?-
- Veramente?- dissi, fingendo di ignorare quello che in paese si diceva.
Si chiama Cusimino, cùmm'a te - aggiunse, raccontandomi dell'istituto ove lo aveva messo e che era bello, che cresceva a vista d'occhio, e senza di lui si sarebbe sicuramente ammazzata, come le pecore, quando si precipitano nel burrone. La strinsi forte e la baciai con passione.
- Tu invece, si' la terra, cu lu sole e le stelle!- sussurrò stringendomi convul-samente, come se avesse paura di perdermi, in quel momento.
Per più di un anno, io e Giulina continuammo a vederci, tutte le volte che potevamo, ed il suo amore era totale ed incondizionato, pieno di quelle piccole attenzioni, che ti riempiono la vita. Ora era felice, aveva perfino ripreso a salutare la gente, a passeggiare per il paese ed a mettere il vestito buono, per la messa della domenica.
Quel sabato di ottobre, mi recai da lei mezz'ora più tardi. La trovai dietro il muro del giardino, che mi attendeva in ansia:
- Perché facesti tardi? È successo qualcosa?-
- Niente!- le risposi con gli occhi bassi, senza avere il coraggio di guardarla.
- Dimmi la verità, mi fai murìri! -
- La lettera -
- Quale lettera?- mi chiese spasmodicamente.
- Partu pe fa lù carabinière!- le dissi tutto d'un fiato, mentre il viso mi si rigava di lacrime-
- Parti, cùmmu parti?-
- Nfàmu, vita mia, cùmme facciu 'a campari?-
- Nunn'è colpa mia, pàtrimi fece la domanda, che posso fari?-
- Hai ragione, còri mio, nu' puoi fa 'u fravicatòri pe' tutta la vita, devi partì ed io me ne mòri!-
- No, tu non devi muriri!-
Mi abbracciò e mi tenne stretto a lungo, gemendo senza lacrime, o piangendo senza gemiti. Ad un tratto:
- Quànno parti?-
- Tra dieci iuòrni!-
- Vieni tutte le sere, vogliu stamparti dentro st'anima mia!-
- Certo che vengo, ammòri!- le risposi, carezzandola teneramente.
I dieci giorni volarono e quel venerdì di ottobre facemmo all'amore, l'ultima volta, poi, ci salutammo con mille promesse assurde ed impossibili. Entrambi sapevamo che il nostro bel sogno era finito.
I miei mi accompagnarono alla stazione di Capaccio Scalo, vi erano pure i nonni ed i miei cugini con gli zii. Mia madre mi raccomandava di stare attento, mentre mio padre, commosso, non diceva una parola. La nonna, abbracciandomi, mise nella mia mano cento lire ed il nonno esclamò:
- Attèntu alle male femmine!-
Alle undici, il treno arrivò e vi salii, stanco di tanti abbracci ed addii.
Le carrozze si mossero, ma io pensavo ad Angela, al nostro amore, ai nostri incontri, ed avevo una gran voglia di piangere. Ad un tratto, mi sembrò di sentire la sua voce:
- Cusimìno, Cusimìno!-
Mi affacciai con il cuore in gola, era lei che, a piedi nudi, davanti alla gente, correva, disperatamente, verso di me.
- Nu' mi dimenticàri, Cusimìno nu' mi dimenticari!-
IL treno si allontanò rapidamente ed lei rimase lì, piegata in due per lo sforzo, piangendo e ridendo insieme, col suo dolore, mentre stava perdendo il mondo, il sole e le stelle del firmamento:
- Io sto qua, Cusimìno, sto qua a chiàgniri ed a murìri! -
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