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Serata in tenda
Caro diario,
quel tardo pomeriggio incontrai Nicolò e Matteo nel piazzale. Me li immaginavo impazienti di trascorrere una serata insieme. Infatti, Matteo camminava, sfiorando il terreno polveroso con le suole delle scarpe da ginnastica, sollevando i sassolini che, innalzandosi, ammiccavano verso il cielo ricadendo sul cemento. E muti come sassi nascondevano il rimpianto di essere nati così: di essere calpestati e schizzati via dalla gente, senza che qualcuno si avvicini dicendo: "scusa, ti ho fatto male?"; di affondare nella disperazione delle acque del limbo e lì rimangono perché non possono riemergere come le foglie, come la verità. Matteo non era così cattivo da lasciarti affondare come un sasso per raggiungere i propri scopi; ma nemmeno così sincero da permettere alla verità di venire a galla come una foglia, ingiallita dagli anni che l'avevano tenuta nascosta al mondo. Purtroppo, in quel mondo viviamo noi oggi; quel mondo, dove tutto è dimenticato perché regna l'egoismo. Dietro al piazzale si ergeva la mia vecchia casa, la mia vecchia vita e quando calpestavo il cemento, riassaporavo i momenti felici che mi avevano cresciuto lontano da quell'egoismo. Ma la mia vecchia casa non era così diversa da quando avevo traslocato: il tetto a doppio spiovente, l'intonaco bianco che si perdeva nei vani delle finestre con le persiane nere abbassate, il portone chiuso e il pavimento del balcone riservava ancora il posto ai cadaveri delle falene uccise da Nicolò. Nicolò adorava uccidere le falene, vederle soffrire. Questo sadismo era nato una bella giornata di primavera; - come scrivono sempre i bambini delle elementari sui loro quaderni - mentre passeggiavamo, avevamo imbroccato un formicaio che spiccava dal terreno come un vulcano ed eruttava formiche rosse come la lava. Ed io ero rimasto a guardare il disfacimento di quella montagnola per opera dei suoi piedi; non avevo fatto niente per salvare quelle formiche e non lo ritenevo capace di un tale gesto. Presto le formiche erano diventate farfalle, poi calabroni e chissà se un giorno diventeranno anche uomini o donne che imploreranno il suo "piede" omicida di avere salve le vite. Tuttavia, quel piede era stato punito dal Signore: cinque anni fa si era destata un'insopportabile agonia alle dita, in particolare agli alluci, e presto quell'agonia si era trasformata in un'unghia che incarniva le cattiverie che aveva recato nei confronti di quegli animaletti indifesi, sprofondando sempre di più nella sua carne, colorandosi del nero che colora i vestiti della morte e del rosso che tinge l'argento della sua lancia. Il padre e la madre lo avevano accompagnato all'ospedale locale, dove gli era stato confermato che soffriva di una grave incarnazione dell'unghia ad entrambi gli alluci. Dopo tre anni i medici avevano deciso di strappargli via le unghie.
Era un motivo più che valido per indossare sempre i calzini. Quella sera li portava e indossava anche un paio di pantofole.
"Che ci facciamo ancora qui?" domandò Matteo.
"Samuele è sempre così lento" rispose Nicolò.
Lo fulminai con lo sguardo e mi persi nei suoi occhi neri che ridevano falsi e pazienti. Comunque, un angolo dei suoi occhi celava un accenno d'irrequietezza che non potei fare a meno di notare e paragonare a quella di mio padre. Si arrabbia per ogni minima cosa, anche uno scherzo di cattivo gusto. Eppure, da fonti abbastanza sicure avevo saputo di tutte le sue marachelle di quando aveva presso o poco la mia età. Lui e mia zia Giovanna erano soprannominati i GioGia e vantavano la maggior parte di scherzi di tutta la provincia. C'era solo una persona in grado di fermarli e questa persona oggi riesce a malapena ad uscire di casa: mia nonna Vittoria, soprannominata la Volpe Grigia per i suoi capelli brizzolati e l'indomabile astuzia. Aveva rimbrottato entrambi quando era venuta a sapere della burla a nonna Marietta, la mia bisnonna. Essendo stata quest'ultima una suocera severa che esigeva tanto dalla propria nuora, considerava Volpe Grigia responsabile dell'educazione dei nipoti. E Volpe Grigia aveva dovuto alzare la guardia; anche se una volta papà era riuscito ad eludere la sua sorveglianza e salire sul tetto della vecchia casa, per gettare nel comignolo i petardi. Nonna Marietta si era spaventata a tal punto da alzarsi dalla sedia e scappare di casa urlando chissà quale frasi in dialetto reatino. Premetto che quella sera non mi era neanche sorvolata l'idea di tirar fuori tutto il repertorio dei GioGia a scopi di divertimento. I rimproveri di mio padre e le raccomandazioni di Volpe Grigia mi avevano insegnato a fare a meno di simili folleggi, ma non potevo rinunciare a qualche scherzo telefonico che erano risate assicurate da condividere con Matteo e Nicolò.
"Non sono lento. Se vi spicciaste invece di bighellonare che qua mi tocca fare tutto a me: la tenda l'ho montata io, l'ho portata io, i materassi li ho gonfiati io, le coperte le ho parte io, i cuscini li ho portati io, le coca cole le ho portate io..." avrei voluto aggiungere altro, ma speravo che nessuno dei due proferisse il portatile, perché era scarico e non avremo potuto usarlo. "Solo per curiosità, voi due che avete fatto?"
Nicolò e Matteo si scambiarono un'occhiata interrogativa, inarcando le sopracciglia. Poi tornarono a esaminarmi minuziosamente spalancando le bocche per giustificare quegli attimi di pausa. Ma solo Nicolò parlò e disse che aveva preparato la cena e tutto era pronto in tavola. Quindi guardai Matteo e lo interrogai con lo sguardo. Non proferì parola. Piuttosto si passò una mano sul ciuffo di capelli biondo cenere e proiettò gli occhi ambrati sul cemento, scaricando il peso su una gamba e flettendo l'altra mentre si reggeva il fianco con una mano. Quell'atteggiamento significava "non ho fatto nulla" ed è sempre stato il suo modo di chiedere scusa. Nicolò, invece, non aveva bisogno di chiedere scuse, perché qualcosa era riuscito a fare mentre io mi preparavo per la serata.
Il sole tramontò dietro la collinetta e quelle sfumature aranciate erano l'unico indizio che accertava che fino a qualche ora fa lì c'era stata una stella a brillare sul nostro campeggio. Disperso nei miei pensieri, mi riscaldavo davanti al fuoco che scoppiettava dentro il cilindro di ghisa. Avevamo appena finito di mangiare e Matteo, per farsi perdonare, stava ripulendo tutto il giardino. Guai a lui se non faceva un bel lavoro! Infatti, il campo non era nostro ma di Luigi, un vicino di casa che, poveretto, era rimasto senza moglie, deceduta due anni prima.
I fiori dell'orto ancora piangevano la sua scomparsa e anche loro vestivano avvizziti l'abito nero da funerale. I fili d'erba si sollevavano dal terreno, irti come gli aghi di una siringa carica di eroina liquida che deteriora i brutti pensieri e ti concede un nuovo universo fatto di droga. Ma non è questo il senso dell'esistenza, pensai rilassandomi sulla sedia. Luigi era una brava persona e non avrebbe mai assunto stupefacenti per alleviare le proprie sofferenze. Ogni mattina si alzava presto e, aprendo il cancello verde, entrava nel giardino, calcando l'erba. Si infilava i guanti che ogni sera riponeva sul tavolino sotto la pensilina, raccoglieva la legna e se ne tornava a casa per poi tornare di nuovo. Dopo quattro andirivieni tornava una quinta volta e si rilassava sulla sedia, affondando i gomiti sul legno del tavolo e osservando i tulipani, occhieggiando verso i pini che lo guardavano imponenti. Quella era la sua droga: quel box dove ancora poteva rivedere l'anima di sua moglie che si prendeva cura dei tulipani appassiti, che lavorava la terra, che curava il giardino e racimolava i pinoli. Si leccava i baffi quando ripensava alle crostate di pinoli che sfornava. Anch'io avevo avuto la fortuna di assaggiarle e devo ammettere che erano davvero deliziose, sebbene non paragonabili a quelle di mia madre. Ora non ne ha più voglia, ma quando eravamo piccoli, Matteo e Nicolò erano sempre i benvenuti a casa ad assaggiare le sue delizie. E magari, uno non crede di aver mangiato la cosa più buona del mondo finché non si rende conto che esistono cibi peggiori. Nicolò si era iscritto all'istituto Alberghiero; la cena che aveva preparato, a base di salsicce e bistecche, era squisita.
"Se non cucini bene, stasera, ti bocciamo" lo avevo minacciato prima di entrare nel cortile e chiudere il cancello alle mie spalle. Effettivamente, dovetti ricredermi perché sapeva destreggiare con il barbecue da assomigliare a uno della prova del cuoco.
Le salsicce, ancora percepivo il loro sapore salato mentre stavo davanti al fuoco e guardavo Matteo che finiva di ripulire.
"Io direi di andare a letto" proposi. Le mie parole si diramavano come una nuvoletta di vapore acqueo che si spande nell'ambiente. Le nostre orecchie, intanto, assimilarono lo squillo del telefono di Nicolò, un S3.
Matteo si accostò a Nicolò e sbirciò sul display, quando quest'ultimo prese a saltellare gioendo.
"Sei impazzito?" dissi.
"No. Mi ha risposto e ha detto di sì."
"Te ce sei messo? Grande Nico!" esclamò Matteo battendo il cinque a Nicolò. "Non so proprio come fai; ogni mese ne trovi una."
Nicolò strinse gli occhi a sottolineare una falsa modestia e non potei fare a meno di scrutarlo torvo, mentre si dava tante arie.
"Be' diciamo che segui un esempio" borbottai attirando la loro attenzione. "Marco è come un maestro di vita per te, Nico. Hai questo regalo e puoi permetterti tutte le ragazze che vuoi, seguendo solamente il suo esempio."
"Io ho questa fortuna, infatti." gongolò Nicolò.
"Peccato, però, che questo "successo" non sia farina del tuo sacco ma sudore della fronte di qualcun altro che si è conquistato una certa posizione sociale" rimbeccai.
"Non è vero, credo di avere molte qualità, per questo sono molto desiderato."
Sentivo la rabbia crescere in me. Ogni parola era un innesco speciale che poteva farmi esplodere da un momento all'altro, benché stessi già mugugnando. Matteo, invece, seguiva interessato la conversazione e quasi avrei voluto mollargli un pugno per la sua indifferenza da nervi.
"Tutti hanno delle qualità, che c'entra? Io ho moltissime qualità, forse, anche più di te."
Quella sarebbe stata la mia ultima battuta e lo sapevo. Nicolò è abituato a cedere quando qualcuno prova a contrastarlo faccia a faccia, perché la sua fedeltà larvata glielo impedisce. Infatti, così andò. Non si scusò ma cambiò argomento e presto anche io mi dimenticai di quella minuscola scaramuccia. A volte fa bene indossare una maschera, soprattutto se si tiene veramente a qualcuno o a qualche evento e per noi quella serata era importante.
Ci infilammo dentro la tenda. Io ebbi il materasso singolo che torreggiava su quello matrimoniale, dove dormivano Matteo e Nicolò. Arraffai una bottiglia di coca cola e, stappandola con il cavatappi, presi a sorseggiare. Presto, l'ambiente cominciò a riscaldarsi e le fonti di calore eravamo io con la mia coca cola e Nicolò che digitava i messaggi sul display del telefono cellulare. Durante la cena avevamo fatto qualche scherzo telefonico e il ricordo mi metteva a mio adagio. Ciò nonostante, avevo un piccolo nodo alla gola, forse provocato dalla caffeina, o forse dal caldo soffocante che impregnava quell'atmosfera notturna. Pian piano quel caldo passò dal soffocante al rilassante e chiusi gli occhi, il fiasco scivolò dalle mie mani e rotolò sul materasso sottostante, vicino a Matteo. Per fortuna era vuoto.
Il materasso mi decantava innalzandomi come il supporto di un diamante prezioso. Un diamante che aveva il viso abbronzato dalle giornate trascorse sotto il sole a tergiversare con gli amici; un diamante sul quale spuntava una cresta di capelli scuri con le palpebre che chiudevano le mie iridi marroni. Il letto era il mio rifugio, le coperte il tetto, la tenda la base e Nicolò e Matteo i miei soldati pronti ad intervenire. Quel piacevole tepore del piumone collimava con il fuoco che aveva smesso di scoppiettare armoniosamente, sibilando parole idilliache che ora erano pronunciate dai pini. Infatti, gli unici suoni che rompevano il silenzio erano: il fruscio delle foglie dei pini e lo stridere sordo dei loro rami con lo spezzarsi improvviso della corteccia. Una ferita, un'apertura che rivelava la vera natura di quei tronchi. Rammento la resina di quei pini: appiccicosa, densa e disgustosa. Quello è il loro sangue, il sangue dei pini, mi diceva Volpe Grigia quando ero più piccolo. E mi raccontava dei momenti in cui andava con nonna Marietta a Pian de Rosce a raccogliere i funghi e si sporcavano con la resina dei pini, con i nasi tormentati dal loro aroma pungente. Mi piaceva ascoltare le storie di mia nonna; apparivano molto interessanti, benché non si capisse molto quando parlava. Lei tendeva a pronunciare le frasi senza mettere il soggetto e a volte s'inventava le parole o le modificava. Ma in quel momento avevo altri pensieri, altri sogni che mi implicavano.
Passarono due orette, da quanto potei calcolare, e udii un rumore. Era un fischio flebile, simile a quello del vento, ma c'era qualcosa che non mi convinceva e la colpa non poteva essere attribuita al vento per la cadenza di quei suoni. Erano quasi impercettibili, ma in quell'attimo di dormiveglia potevo sentire tutto e quel tutto era accompagnato melodicamente dai ronfi di Matteo e gli sbuffi di Nicolò. Uno scricchiolio seguì il sibilo in un ritmo perfetto, ed era quello che mi faceva gelare il sangue. Ogni suono rimbombava nelle mi orecchie e, dentro la gabbia toracica, mi battevano pure i polmoni. Le mani si aggrappavano al materasso e la mia pelle assumeva un colorito bianco latte, inghiottendo quei rumori raccapriccianti e rigurgitando la paura che provavo. L'ansia divampava come un incendio e non riuscivo a muovermi dal materasso, come se questo mi tenesse fermo. D'improvviso, udii il cigolio metallico di una porta che si apriva e scattai in piedi sospirando affannosamente.
"Svegliatevi!" dissi sussurrando. Nicolò e Matteo boccheggiarono fissandomi con sguardo assonnato e stropicciandosi gli occhi.
"Che c'è?" tuonò Matteo.
"Zitto! Fuori c'è qualcuno, sentite?" spiegai sollevando l'indice e affidandomi al mio speciale udito, sperando che Nicolò vantasse anche quella qualità.
Matteo rimase immobile mentre si raccoglieva nelle coperte. Nicolò, invece, univa le labbra per celare quell'urlo di paura che non varcò mai la soglia della sua bocca per arrivare alle nostre orecchie. Tra quei rumori sospetti si indovinavano insoliti bisbigli.
"Sicuramente sono in due e uno di loro fuma sigarette" dedussi sempre a bassa voce. Matteo e Nicolò si guardarono per un po', poi mi rivolsero delle occhiate superbe.
"Scusa tanto," esordì Nicolò, "come fai a dire che fuma sigarette?"
"Se fuma sigarette può essere solo Nadir" rise Matteo, mollando una pacca amichevole a Nicolò e tirando gli angoli della bocca fin sotto le orecchie a sventola. Il suo sorriso era una lama affilata che affondava nelle guance pallide.
"L'ho capito dal tono rauco. È ovvio che da come si muovono, sono ladri: cercano di fare silenzio..." e a quel punto proruppe un tonfo così forte da svegliare tutto il quartiere e si udì un "deficiente" provenire dal box.
"Meno male che facevano silenzio" sghignazzò Matteo con la complicità di Nicolò.
Curvai un sopracciglio e aprii la tenda senza fare rumore per insospettire i due malintenzionati. Matteo e Nicolò non fecero niente finché non li forzai ad uscire. L'aria fredda della sera penetrò il mio corpo spaccandolo in due, mentre scorreva nella trachea. Avevo la pelle d'oca e le mani mi tremavano per l'adrenalina. Credevo di trovarmi in uno di quei thriller di Carrisi e Faletti.
"Sono sicuramente due ladri" fu il mio giudizio dopo che mi fui avvicinato per scorgerli meglio dalla porta del box e fui tornato alla tenda.
"Che facciamo?" domandò Matteo.
Nicolò sembrava spaesato e tirò fuori l'S3 da una delle tasche della tenda digitando il numero del 113.
I rumori dentro il garage cessarono repentinamente e la speranza di non vedere i volti di quelle due creature della notte mi sfuggì.
"C'è qualcuno di fuori!" esclamò la voce dell'uomo che ipoteticamente fumava tante sigarette. I due criminali stavano per uscire dal box. Intimai Nicolo a sbrigarsi e le uniche frasi che disse all'agente operatore furono: "Venite subito... via Cerreta n. 4... tentativo di furto" prima di riattaccare.
Dovevamo trovare un posto dove nasconderci. La paura va affrontata e non bisogna nascondersi da essa, ma presto la paura ci avrebbe stanati. Mi accucciai sotto la pila di legna da cui Luigi prendeva il materiale combustibile per riscaldarsi e pregai gli altri due di trovare un nascondiglio decente con i gesti. Nicolò si infilò in un cespuglio e Matteo si tuffò nella tenda. I passi erano sempre più vicini, la sanità cardiaca sempre più lontana. Eccoli, uscirono. Finalmente potei vederli con i miei stessi occhi: due ladri in carne ed ossa che nemmeno Volpe Grigia avrebbe scacciato con i suoi trucchetti.
Indossavano entrambi un montgomery scuro, ma non avevano i passa montagna. Il primo, il più alto, era magrissimo e mi ricordava l'asta di un appendiabiti; il montgomery gli stava largo e gli jeans erano tutti strappati. Il secondo, invece, mostrava una chioma di capelli unticci ed era tarchiato come una botte di vino; probabilmente il contenuto del suo stomaco non era molto diverso da quello di un barilotto. Dalla mia posizione potevo spiarli bene e concepii che il più grasso era quello con la voce rauca, che fumava.
"Non c'è nessuno" disse al compagno che contemplava i dintorni con occhi lupeschi.
"No!" esclamò, poi. "Qui c'è qualcuno, non vedi la tenda? Sicuramente qualcuno che faceva campeggio. Diavolo, come abbiamo fatto a non vederla prima."
"E ora che facciamo?"
"La apriamo e vediamo se c'è qualcuno. In quel caso lo portiamo via con noi."
Sentii un tuffo al cuore e anche Nicolò l'aveva sentito perché il cespuglio si mosse ma senza insospettire i ladri. Matteo sarebbe morto d'infarto se non con un colpo di pistola o di coltello. Quello era uno di quegli istanti dove la vita ti insegna che sei un ignorante a tutto tondo e che non conosci niente che possa salvare la tua vita o quella altrui. Solo l'altruismo, in questo caso, poteva salvare qualcuno. Ma l'altruismo compensa il pagamento di un prezzo, un prezzo che sovente equivale alla vita stessa. Quel sentimento mi possedeva, lo avvertivo sempre di più, man mano che le dita affusolate del malfattore si approssimavano alla chiusura lampo della porta di nylon. La luna scolpiva le spalle curvissime del ladro più alto e disegnava il sorriso giallo dell'altro. Non sarebbe stato quel riflesso argentato a proteggere Matteo: avrebbe dovuto giocare d'astuzia per salvarsi. No, questo non potevo permettermelo. Nicolò voleva una mia qualità? La voleva così tanto una qualità mia che lui non avesse? Be' lui è sempre stato un falso e sicuramente non era, non è e non sarà mai capace di provare qualcosa verso qualcuno, quel qualcosa che ti lega a un amico e ti permette di salvarlo. Se pensi, mio caro diario, che io avrei rinunciato a quel nascondiglio per fare l'eroe e rischiare la pelle, ti sbagli di grosso. La sorpresa fu un'altra. Quando la tenda fu aperta, il ladro rassicurò il suo complice dicendo che non c'era nessuno. Effettivamente, questa era vuota e i due tornarono a lavorare. Com'era possibile? Io avevo visto Matteo entrare nella tenda e chiuderla, non avevo distolto l'attenzione da quel pezzo di nylon neanche per un minuto. Forse, quando osservavo i due ladri uscire dal garage; ma sarebbe stato impossibile per lui non farsi notare.
A quel punto uscii dal nascondiglio e raggiunsi la tenda seguito da Nicolò, sicuro che i due ladri ormai si sarebbero intrattenuti nel box per un po'.
Matteo si era nascosto sotto il materasso più alto e con le coperte era impossibile scovarlo. Lo aiutammo a tirarsi su e tutti e tre ci avviammo verso l'uscita, abbandonando la paura. Non appena aprimmo il cancello, ci ritrovammo in un buco nero, profondo, non vedevamo più niente. E fummo inghiottiti da quell'attesa che era nata mentre aspettavamo di essere trovati. Precipitammo in quel burrone e le nostre grida al nostro risveglio da quel sogno furono così acute da spaccare i timpani di tutto Lisciano.
"Ma avete fatto lo stesso sogno?" chiese Matteo incredulo.
Io e Nicolò annuimmo sorridenti e ci stringemmo in un caloroso abbraccio, divertiti da quella nottata passata insieme.
Caro diario, come vedi anche nei sogni siamo tormentati dalle nostre paure. Ma il lieto fine regna sempre nella nostra testa e se a volte non lo vediamo è perché non ci rendiamo conto di quanto siamo speciali e non valorizziamo le nostre qualità, le nostre capacità e i nostri amici.
Sono tuttora contento di questa nottata trascorsa con i miei vecchi amici e spero di viverne altre così concilianti.
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