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Morte a Palazzo
"Che ne pensi di questo?" , disse la Signora, dall'alto del suo trono nel salone.
"È perfetto", risposi io, immediatamente. D'altronde non potevo fare altro. Ero rimasto completamente ammaliato da lei, sin dal primo giorno. Ricordo ancora quella sera di ottobre, quando, dopo una forsennata ricerca di riparo, dopo mille porte in faccia, lei mi aprì. Vestita di nero, la Signora mi accolse con un timido sorriso e mi offrì un posto dove stare, un pasto caldo e un letto per la notte. Sono passati ormai anni da quel giorno, ma il fascino della sua veste succinta, dei suoi lucidi stivali neri, non mi ha mai abbandonato. Scrollandosi di dosso la sua giacca di pelle, si avvicinò verso di me. Spalle nude, bocca di un rosso violento, mi baciò sulla bocca quattro volte. Mi toccavo le labbra, non mi rendevo ancora conto di cosa stesse succedendo. Scandendo il tempo con il rumore dei suoi tacchi la Signora tornò a sedersi, e un attimo prima di arrivare al trono, si girò nuovamente verso di me. Mi sorrise di nuovo, come la prima volta.
"grazie, sei fantastico. Credo di amarti, lo sai?".
"V-veramente? D-dice davvero?". Balbettavo, eccome se balbettavo. La mia padrona che dice di amarmi, non l'avrei mai pensato.
"dico sul serio. Mi fai sentire davvero bene. Ah, poi sei proprio carino. Lo sai che da quando stiamo insieme tutte le mie amiche mi fanno i complimenti?"
Insieme? Io e Lei? E da quando? Non me l'aveva mai detto prima d'ora. Però a me andava bene. Bastava guardarla un secondo per non capirci più niente. Non ero mai stato così felice in vita mia. Avevo avuto altre storie in giovinezza, ma erano state storielle da niente, frequentazioni che finivano dopo un mese al massimo. Ora mi sentivo veramente innamorato, e le uniche parole che mi uscirono dalla bocca furono queste:
"TI AMO"
Lei chinò la testa, poi si rivolse ancora a me baciandomi a distanza. Si rimise a leggere la sua rivista in silenzio, nella penombra della sua grande nicchia. Io mi addormentai di nuovo. Dopo due ore sentii un rumore di chiavi. Era il servo della Signora, vestito come al solito di tutto punto. Gessato, papillon, scarpe in pelle lucida italiana. Aprì la porta e mi chiamò: la Signora voleva vedermi. Corsi come un pazzo per raggiungerla nella sua stanza, ma dato che era la prima volta che uscivo dalla mia stanza, mi persi quasi subito. Dopo un paio di minuti mi raggiunse il servo, ansimante, che sbiascicò parole incomprensibili toccandosi la milza per la fatica. Al terzo tentativo riuscii a comprendere cosa stesse dicendo. Voleva che lo seguissi. Lui era l'unico che conosceva perfettamente la casa, e poteva condurmi alla stanza della Padrona. Il corridoio che portava alla Camera era in marmo bianco, e dai grandi finestroni potevo vedere il cortile esterno. C'erano statue ovunque, aiuole colorate di ogni specie vegetale che esistesse al mondo, grandi alberi in fiore. Per me era la prima volta, e il servo si ritrovò a camminare da solo già dopo pochi metri. Girò l'angolo e non mi vide, e tornò indietro. io nel frattempo ero talmente preso da quella visione che non mi accorsi nemmeno che il servo mi chiamava a gran voce. Solo quando mi ritrovai per terra, trascinato dalla grande forza del servo, interruppi la contemplazione. Tuttavia, non mi lamentai e mi rialzai in piedi, stavolta seguendo il servo. Arrivati dinanzi alla grande porta in ottone il servo bussò, e io trovai un altro motivo per evadere dal mondo reale. La porta della Signora, infatti, era decorata con sette formelle in oro: a primo impatto sembravano scene raffiguranti i sette peccati capitali. Chiesi al servo, e lui mi diede ragione. Erano, effettivamente, allegorie dei peccati. Dopo qualche istante la signora ci fece entrare, e con un cenno lasciò andare il servo. Eravamo soli, e finalmente potevamo consumare il nostro amore. lei mi prese per la mano e mi portò sul suo letto, dove ci sdraiammo. Cominciò a baciarmi: prima sul collo, poi sulla bocca, poi di nuovo sul collo. Ero veramente felice, e chiusi gli occhi per sublimare quel momento di piacere. All'improvviso sentii un dolore fortissimo al braccio, e per la paura riaprii gli occhi. C'era tutta la servitù nella Stanza, e la maggior parte di loro erano per me sconosciuti. Il servo che mi aveva accompagnato li precedeva, e indossava dei guanti. A dire la verità, tutti indossavano dei guanti. Poi mi guardai il braccio destro, e vidi che sanguinava. La Signora era alla mia destra, e mi diede una carezza sul volto. Mi baciò la fronte e si alzò dal letto. Accarezzò il servo sul petto, le cinse il collo con le braccia, e lo baciò. Voltandosi verso di me disse:
"non fare domande, non ti direi niente. Ora pensa a rilassarti."
Fece il solito sorriso, e tutti i servi cominciarono a ridere. Non sentivo nemmeno lo scroscio della pioggia, e le risa cominciarono ad allontanarsi quando tutti loro uscirono dalla stanza. Chiusero il portone, e cominciai a dormire. La mattina seguente mi svegliai molto tardi, e, aprendo gli occhi, mi ritrovai in un'altra stanza. Era tutto buio, e una piccola feritoia in alto lasciava entrare uno spiraglio di luce. Mi alzai in piedi e cercai di uscire, ma la porta era chiusa a chiave. Cercai di non farmi prendere dal panico. L'unica speranza era quella piccola feritoia in alto, ma come raggiungerla? Cercai di saltare e di aggrapparmi, ma per quanto spingessi, non riuscii a rompere la grata. Feci un secondo tentativo, e ancora niente. Le dita cominciavano a sudare, e la mia presa divenne meno salda. Dopo circa mezz'ora, però, staccai la grata e caddi indietro. sentivo un dolore terribile alla schiena, ma non potevo arrendermi ora. Con un grande sforzo saltai di nuovo, e afferrai l'apertura della feritoia. Le gambe tremavano, ma era più importante liberarsi. Ce la feci: mi sforzai il più possibile di passare attraverso quel piccolo passaggio, e appena sporsi la testa oltre la stanza, guardai in basso. Forse non avrei dovuto farlo, forse avrei dovuto chiudere gli occhi e buttarmi. Ma a cosa servivano i "se" e i "forse", a questo punto? Mi lanciai nel vuoto, stavolta a occhi chiusi, per far entrare almeno un po' di adrenalina negli ultimi istanti della mia vita. Volevo rendere la mia morte più eccitante, e, soprattutto, non volevo guardarla negli occhi. Rimasi quasi soffocato a causa del vento che mi entrava dentro, e, quando sentivo che sarei morto, quando ebbi l'impressione di toccare finalmente terra, riaprii gli occhi. Ero troppo attaccato alla vita, e l'unica cosa che desideravo era solo un altro attimo, l'ultimo. Caddi, toccando il corpo e sentendo l'odore di un uomo morto. Mi voltai a sinistra, e in lontananza scorsi la Padrona, che faceva colazione in una grossa piramide di vetro in compagnia dei suoi servi. La supplicai, e lei si voltò. Non si fece commuovere dai miei occhi pieni di sangue, e non diede importanza alle mie parole, perché forse quelle parole non le aveva sentite nemmeno.
"TI AMO"
Lei sorseggiò il suo thè, e si voltò di nuovo. Era indifferente, insensibile, come i corpi che mi circondavano morti. Presi a pugni uno scheletro, per rabbia, e andando oltre i miei limiti fisici mi rialzai in piedi. Ancora. Questa volta, però, andò diversamente. Mi stesi a terra, piangendo, e mentre consumavo il mio ultimo atto d'umanità, bagnando con le mie lacrime quei resti senza vita, capii che alla Signora non si poteva sfuggire.
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