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San Giorgio
SAN GIORGIO
L’aria era torrida e pesante in quell’assolato giorno estivo di campagna, in un imprecisato luogo di un imprecisato tempo. Il cavaliere, sceso da cavallo, osservava ansimante l’orizzonte, la sua fronte era madida di sudore, così come il suo corpo, pesantemente agghindato con l’armatura color selce, che lo ricopriva quasi per intero. Ansimava e scrutava il paesaggio, coi suoi occhi celeste chiaro, mentre teneva sotto braccio l’ elmo, riccamente cesellato dai migliori fabbri del regno, sul quale erano scolpite alcune delle sue più famose imprese, mentre cercava di far riprendere aria al volto, ai suoi fulvi capelli, riaccordati sopra la testa tramite un rosario di finissime perle bianche, dono di una vergine convertita, da lui prontamente salvata dalle libidinose mire dell’uomo a cui era destinata in matrimonio, e a quell’accenno di barba riccioluta che cominciava a crescere sulla parte inferiore del volto. Ma questa operazione poco serviva a non sentire l’arsura del sole allo zenit, un sole che nella sua perfetta immobilità, rendeva l’aria rovente e immota come una lastra di ferro appena uscita dalla fornace di un maniscalco.
Mentre il suo cavallo era leggermente discostato dalla strada ed era intento a brucare quei radi fili d’erba che riusciva a trovare, il cavaliere guardò la punta della lancia, che teneva saldamente stretta nell’altra mano, per osservare se qualche alito di vento agitasse lo stendardo a croce che vi era issato in cima. ma non un solo Zefiro era stato mandato, quel giorno, dalla Sapienza, per rinfrescare l’aria. “D’altro canto è mezzogiorno…. l’ora in cui il Diavolo è più forte…” disse tra sé e sé il cavaliere, sul cui volto parve comparire un accenno di disincantato sorriso.
L a posa statuaria che aveva assunto in mezzo alla strada, si mutò , nel batter di un ciglio, in un risoluto e marziale passo verso il suo destriero, sul quale rimontò in breve tempo, deciso a riprendere la strada che aveva interrotto per qualche istante nella convinzione che una breve sosta li avrebbe fatti riposare un po’. Non fu così, la calura li rese ancora più stanchi nella quiete, piuttosto che nel movimento. O per lo meno ciò era quello che il cavaliere ripeteva nel silenzio della sua mente, anche se in realtà sospettava che da tempo, né lui, né il destriero che lui stesso aveva fin troppo trascinato con sé in una fiumana di imprese cavalleresche, fossero più in grado di riposarsi veramente.
L’impresa che si accingeva ad affrontare sarebbe stata l’ultima, poi, finalmente, avrebbe potuto ritirarsi in qualche convento per dedicarsi all’espiazione dei propri peccati ed alla tanto amata preghiera. M a prima di tutto questo, rimaneva il fardello dell’ultima, scoraggiante, missione.
L’Imperatore in persona, dopo aver riconosciuto gli innumerevoli servigi portati dal cavaliere Giorgio all’intera Cristianità, e vista la sua grandiosa destrezza nel combattere e sconfiggere le innumerevoli manifestazioni attraverso le quali i nemici della Vera Fede, per anni ed anni, avevano attentato alla salute del regno ed alla pace dell’Ecumene; e constatata la sua superiorità agli altri cavalieri per bravura nell’arte militaresca, sapienza e dottezza di studi, ma soprattutto devozione di Fede; e palesata poi ancora, per cielo e per terra, la sua fama di uomo pio e giusto nel dividere con la spada di Dio, con un’acutezza di ingegno degna del Re Salomone, i reprobi dai veri fedeli; insomma, per tutti questi motivi ed altri molti ancora, l’intera corte, i ciambellani, consiglieri, i camerlenghi, i protonotari, i vescovi e l’imperatore stesso, tutti erano unanimi nel gridare, per l’ennesima volta, il nome di Giorgio come unico incaricato dell’illustre missione.
E Giorgio era stanco di tutti questi riconoscimenti, di tutti questi meriti, di tutti questi impegni.
Ciascuno di essi, lo allontanava inesorabilmente dalla meditazione, dalla pace e dalla quiete. Ogni qual volta era seriamente intenzionato a fermarsi, per dedicare quel poco di tempo che gli era rimasto alla cura della sua anima, giacchè, come spesso si ripeteva, gli uomini delegano gli impegni convinti di avere a disposizione i giorni successivi per portarli a termine, quando invece sono i giorni a disposizione per il termine delle proprie imprese ad assottigliarsi, subito una nuova nobildonna veniva rapita, un nuovo scherzo di natura offendeva l’ordine naturale delle cose, una nuova diocesi era bersagliata da crudeli briganti pagani.
E più passava quel tempo che così rapidamente egli sentiva sfuggergli dal corpo, più cresceva la sua fama nel mondo. E ad ogni popolarità seguita alla missione, corrispondeva un soprannome datogli dal popolo.
Giorgio di Cappadocia, per aver rimandato direttamente al giudizio del Signore un gruppo di briganti infedeli che, in quella regione, distruggeva villaggi e saccheggiava monasteri.
Giorgio di Irlanda, per aver ricondotto sana e salva a casa la figlia del cristianissimo re di quell’isola, imprigionata in una torre di faro su uno scoglio circondato da tumultuosi ed indomabili flutti.
Giorgio di Turingia, per aver ucciso un gigantesco e rabbioso orso che aveva sbranato, con mefistofelico accanimento, quasi tutta la curia locale, eccezion fatta per un gruppo di monache salvate appena in tempo.
Giorgio di Gibilterra, per aver posto sopra le pagane colonne di Ercole, il sublime simbolo della Lignea Croce, termine ed inizio del mondo, proprio là dove l’umana esistenza non osa spingersi oltre.
Giorgio di Libia, per aver salvato dalle crudeltà del deserto, un gruppo di dodici virginali fanciulli, abbandonati lì, su consiglio di uno stregone pagano, dai medesimi genitori, e per averli magicamente dissetati nel corpo, ma soprattutto nell’anima per mezzo del battesimo, con dell’acqua benedetta da un santo eremita ancacoreta e trasportata per grande distanza nell’elmo.
E poi ancora Giorgio il Giusto, Giorgio il Pio, Giorgio il Forte e qualcuno, con somma blasfemia, osava già bisbigliare Giorgio il Santo.
E ciascuno di questi epiteti, pesava e bruciava nell’animo del giovane. A differenza di quanto pensava la gente, egli aveva una macchia per ogni impresa, una scorrettezza dell’animo che aveva reso imperfetto il suo servigio a Dio.
In Cappadocia, appena ventenne, era stato iracondo oltre ogni ragionevole limite, massacrando tutti i briganti a colpi di spada, compresi quelli che imploravano cristiana pietà.
In Irlanda, terra che esercitò un notevole fascino su di lui, fu nella decisione di trattenersi per qualche periodo successivo alla missione, nei verdi pascoli e tra quella gente così benevola, che egli peccò di accidia.
In Turingia, dove nella caccia all’orso sopportò notevoli privazioni, cadde preda della lussuria con una giovanissima novizia, da cui, forse, inconsapevolmente, aveva anche ottenuto un figlio.
A Gibilterra, così vicino al termine posto da Dio ai confini della terra, si era ammantato della terribile superbia di chi si crede superiore, per destino e compiti, al resto dell’umanità.
Infine, era in Libia che era stato vittima dei peggiori turbamenti, dubitando del senso stesso del compito a cui era stato chiamato, dubitando sulle possibilità di salvezza dei giovani fanciulli, sulle cui efebiche bellezze aveva per giunta troppo maliziosamente indugiato, e, cosa più grave fra le gravi, era stato curioso di scoprire cosa c’era al di là del sinuoso deserto, quasi dimentico del castigo divino che attende tutti coloro che osano interrogarsi su ciò che è ignoto.
No, decisamente Giorgio non si autodefiniva un buon cristiano ed il suo sconforto aumentava se si metteva in paragone con alcune persone incontrate sul suo cammino, veri campioni della Fede.
Con qualunque categoria venisse a confronto, egli si sentiva inferiore o sbagliato.
Il campo militare, che avrebbe dovuto essere quello a lui più congeniale, gli procurava frustrazione.
Non aveva il carisma di Acacio, che seppe convertire le sue mille legioni e condurle al martirio con l’ardore della fede e l’entusiasmo della salvezza; di sicuro non avrebbe potuto mostrare il coraggio di Ippolito, che, convertito da Lorenzo, cantò lodi al Signore mentre quattro cavalli, spinti in diverse direzioni, gli lussavano tutte le giunture, gli facevano saltare i tendini ed, infine, lo squartavano; non di meno avrebbe saputo essere all’altezza di Martino, che si mostrò gentile e misericordioso con un malato mendicante e gli donò metà del suo mantello, prima che Cristo gli apparisse in sogno.
Un paragone con esponenti della santità in ambito cortese, lo stizziva.
Bavone il Falconiere, che cristianizzò le regioni dei Batavi, era di certo migliore di lui se era riuscito a trascinare molte genti nonostante le sue origini nobili; Eustachio, che ebbe la Croce in visione tra le corna del cervo a cui dava la caccia, aveva saputo dimostrare una fede più incondizionata della sua; se poi pensava a Giuliano, che pur avendo ucciso i suoi genitori, era stato accolto da Cristo, si sentiva così scarso di Grazia, da provare ribrezzo per se stesso.
L’ascesi, che lui tanto amava, gli riportava alla mente i grandi campioni della contrizione.
Si sentiva meschino nei confronti di Cristoforo il Gigante, che portò sulle sue spalle il peso del Mondo; si vedeva pusillanime nei confronti di Benedetto, che per primo rese ufficiale la fuga dal mondo terreno e che seppe creare una regola per i monaci; il suo io spariva poi totalmente se pensava ad Antonio, che, solo, nel deserto della Tebaide aveva affrontato Satana e tutto il suo esercito. Un uomo, vecchio e votato ad una vita di stenti, che ogni giorno della sua vita aveva ricevuto tutte le bestemmie dell’Avversario e tutte le carezze del Peccato.
Come si sarebbe comportato lui in una situazione simile? Avrebbe resistito? Si sarebbe dimostrato un esempio? Giorgio non osava rispondersi neanche nell’intimo dell’animo.
Che dire poi di se stesso quando affrontava il pesante problema della castità.
“La purezza, prima che fisica, è morale”. Non smetteva mia di pensare a questa frase udita una volta ad un predica quando era poco più che fanciullo.
Spesso accompagnava il ripetersi questa frase, con il ricordo di alcune fanciulle, bellissime, eppure innamorate solo di Dio.
Apollonia, che riserbò il suo sorriso di rugiada solo per il Signore, anche quando le furono strappati tutti i denti con una tenaglia arroventata; Barbara, irremovibile con tutti i pretendenti, murata viva dentro ad una torre, il cui padre cadde fulminato quando tentò di decapitarla; Caterina, che scampò al supplizio della ruota grazie alle sue ardenti preghiere. La loro castità le aveva fatte ricongiungere a Cristo, lui non poteva di certo contare su questa dote per ricevere tale grazia. Sentiva il peso delle pulsioni carnali e lo pativa con una profonda lacerazione interna, tra quelle che erano le aspirazioni metafisiche di un animo vertiginoso e le necessità fisiche di un corpo forgiato da mille fatiche.
E come se tutti questi ricordi non bastassero a gravare sulla sua schiena, altri mille nomi si affacciavano alla sua memoria, in un rutilare di impressioni senza tratti precisi.
Gli sorgevano al ricordo Cosma e Damiano, Gregorio ed Alessandro, Teodoro e Irene, i Sette Fratelli ed i Quattro Incoronati.
Poi, nel mezzo di questo vortice di ricordi, l’uno sfumato nell’altro, un nome emergeva e si imponeva imperiosamente nella testa di Giorgio.
Quel nome era Sebastiano.
Suo amico fin da giovanissima età, aveva sempre rappresentato il modello per lui.
Aveva il carisma dei generali, la forza morale degli eremiti, la bellezza e la purezza delle vergini. E, cosa più importante, aveva accettato il martirio… e lo aveva fatto con gioia.
Compagni di molte avventure, scomparso da tempo, aveva lasciato una mancanza nell’animo di Giorgio, che sentiva, nella fratellanza con quel giovane guerriero, una protezione ed al tempo stesso un dovere di essere altrettanto protettivo col suo amico. Lui era scomparso in mano ai Pagani e per volere di Dio. Tuttavia non riusciva a darsi pace
Nel momento in cui Sebastiano spirò, Giorgio era in una terra lontana impegnato in qualche missione di cui non ricordava neanche più il succo, seppe la notizia qualche giorno più tardi quando fece ritorno nel regno.
La notizia che il suo migliore amico fosse passato sotto il martirio senza di lui, lo lasciò profondamente addolorato, ma la cosa che gli procurava un vero tormento, era il non sapere se il martirio era stato volontario oppure no. Lui si rifiutava di credere che una persona così giovane e solare avesse volutamente aspirato ad una conclusione del genere: lo conosceva troppo bene per credere tanto alle dicerie popolari, quanto agli elogi in cui si erano sperticati fior fior di ecclesiastici. Si ricordava di quando, da piccoli, giocavano a simulare le battaglie dei loro padri, si ricordava di come, da fanciulli, fantasticassero sulle pulzelle al di là del mare e tutto questo gli rendeva impossibile l’accettazione di un destino di cui non capiva il senso.
Era questo ciò che più lo allontanava dall’amore per Dio.
Ovviamente, non ne aveva fatto parola con nessuno, nemmeno col suo confessore, che tanto non avrebbe potuto capire un tormento del genere e ciò faceva si che la sua frustrazione col passare del tempo diventasse vera e propria rabbia nei confronti di un’Ingiustizia di sapore divino.
Ma cosa poteva fare? Lui, che per tutta la sua vita non aveva fatto altro che combattere le ingiustizie.
Una vita che da troppo tempo si protraeva sulla terra.
Confusa in questi pensieri, la mente di Giorgio cercava di capire quanti anni prima fossero successi tutti quegli incontri che tanto lo assillavano, quanto tempo addietro Sebastiano lo avesse lasciato, ma l’impresa gli risultava impossibile. Troppo tempo era passato da allora, eppure gli sembrava così poco.
Stanco di questo stilicidio di dubbi, Giorgio fermò il cavallo in prossimità di un grosso ulivo, per accamparsi per la notte.
(Fine del primo capitolo)
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- grazie per il commento! esorto i lettori, ance solo parziali, a lasciare le loro impressioni.
- Fuori dagli schemi, un inizio promettente, l'ambientazione storica è suggestiva, e mi sembra che tu stia riuscendo a non cadere nel manierismo, attendo il seguito, per il momento: Bravo, bis, voto: 8
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