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Silenzi che uccidono
"La fine della scuola chiude un capitolo della vostra vita e ne segna l'inizio di uno nuovo. La consegna del diploma rappresenta un passaggio. Fino ad oggi siete stati protetti, guidati, coccolati in un comodo e caldo nido chiamato 'famiglia'".
Aveva appena iniziato a parlare e già nell'aula risuonavano sbuffi e sospiri d'impazienza.
"Nei primi diciotto anni dalla vostra vita la famiglia, innanzitutto, e poi la scuola, vi hanno forgiato e preparato ad aprire le vostre giovani e inesperte ali per spiccare il volo oltre i confini di quel nido sicuro. Vi è stata affidata la chiave della conoscenza che vi renderà possibile esplorare e scoprire nuovi mondi."
Numerosi sguardi rotearono verso il soffitto e si udì qualcuno mormorare "Oh Dio!".
"Ragazzi! È arrivato il momento di entrare in campo e dimostrare di che pasta siete fatti. Tenete presente che il mondo del lavoro non è tanto diverso da una partita di football, è pieno di concorrenza, anche spietata. Dovrete correre forte e qualche volta dare spallate robuste per farvi strada fino alla meta. Ma io sono convinto che voi avete la stoffa! Ognuno di voi farà il suo 'touch down'.
Infervorato dal suo stesso discorsetto, al prof. si erano scompigliati i pochi capelli che aveva sistemato a riporto per camuffare la pelata. Indossava un pantalone di tuta tirato su fin sotto le ascelle che esaltava un pancione da gestante all'ottavo mese. La T-Shirt rigorosamente decorata con l'emblema della squadra di football della scuola, ovvero un castoro, era talmente attillata che i denti del castoro erano tridimensionali. Le maniche strette evidenziavano muscoli ormai appassiti e cadenti. Per completare l'ensemble, portava appeso al collo con una cordicella troppo lunga l'immancabile fischietto, adagiato sulla pancia.
Il professore di storia, che era anche supplente di educazione fisica raccattato all'ultimo minuto in virtù del suo passato (molto passato) agonistico, aveva presentato le sue pillole di salomonica saggezza. Pronunciò un discorso di commiato agli studenti incitandoli come faceva con i giocatori negli spogliatoi prima di una partita. Era stato arduo mantenere un contegno serio e rispettoso. La classe aveva davanti a se un uomo sulla soglia dei settant'anni che aveva superato l'età pensionistica ma nè preside nè vice-preside trovavano il coraggio di mandare a casa. Quel giorno si era piantato di fronte ai suoi studenti in una posa che richiamava alla mente Benito Mussolini nei documentari sulla guerra, tanto che, i due pagliacci della classe gli fecero il saluto fascista.
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"Tu hai deciso cosa farai?" chiese Debbie mentre allungava una mano avida per arraffare una manciata di pop-corn.
Era un sabato sera e le quattro amiche, Annie, Josie, Becky e la sorella di lei Debbie, si erano concesse una pausa dai libri di scuola. Sparpagliate tra poltrone, divano e tappeto nel salotto di casa delle due sorelle si erano ritrovate per prepararsi insieme in vista degli esami di maturità.
"Io seguirò il consiglio della professoressa Livingston. Gli stenografi di tribunale sono richiesti e pagati bene e in più è una professione che mi permetterà di dedicare tempo alla mia vera ambizione," Annie tacque un momento poi aggiunse, "pensate ai processi interessanti a cui assisterei e a quanti spunti mi darebbero per scrivere romanzi gialli."
"Hai scritto qualcosa ultimamente?" domandò Becky curiosa.
"Mm, si qualcosa..." replicò Annie un po' evasiva.
"Non ci hai mai fatto leggere niente," la rimproverò Becky, "siamo o non siamo le tue migliori amiche?"
"Ma certo che lo siete," confermò Annie in tono scontato. Poi per giocare e prenderle in giro assunse un aria di superiorità e spiegò, "ma vedete, io considero i miei lavori un'esternazione del mio 'io' più recondito, da proteggere dall'incomprensione delle masse cerebralmente risucchiate..."
"AH, ecco!," la interruppe Becky, "se dicevi 'lese' ti avrei tirato un libro. E quindi dicevi risucchiate, e da cosa di grazia?"
"Ma dal vortice di..."
"Si, si... bla, bla, bla... per carità risparmiateci il dibattito intellettualistico," si intromise Josie tagliando corto, "ve lo dico io perchè non ci fa leggere quello che scrive, perchè si vergogna di farci scoprire che scrive roba pornografica di serie 'B'. Anch'io la terrei recondita," concluse sfoderando un ghigno ironico.
Per tutta risposta Annie le assestò una cuscinata centrandola in piena faccia producendo uno scoppio di risa.
"Si dia il caso che a me piacciono le ragazze creative e fantasiose," puntualizzò Steven che tornava in salotto con una scorta di pop-corn appena fatto.
"Certo, hai sentito parlare di pornografia, sei il classico maschilista sporcaccione", ribattè Josie con una ghigno sardonico.
"Attenta Jo che ti arriva una scarpa in faccia invece di un cuscino!" disse Annie frapponendosi tra i due.
AH, lasciala stare Annie, la poverina evidentemente è confusa, pensa di parlare con quel pervertito sessuale di Eugene," la graziò bonariamente Steven tracannando nel frattempo metà lattina di coca-cola.
Lo squillo del telefono colse tutti di sorpresa.
"Salvato dal telefono!" affermò Steven lanciando un occhiata a Josie che era sul punto di rimbeccare.
Steven si alzò dal tappeto dove si era adagiato comodamente un secondo prima e dirigendosi in cucina annunciò, "volete vedere che è Eugene che ci ha sentito parlare di lui?"
Staccò la cornetta dal telefono a muro, "pronto?"... fece capolino in salotto sorridendo soddisfatto e attestò, "ha! Che vi avevo detto?"
"Ehi! Amico mio! Ti fischiavano le orecchie eh?!... Ehi! Eugene, ci sei?... Ma è caduta la linea?" mormorò tra se guardando perplesso nell'apparecchio telefonico... AH, eccoti, allora funziona il telefono, non rispondevi. Allora quando torni? C'è Josie che smania, è in astinenza."
Steven!" squittì Josie come un topolino, e avvampò come una fornace.
"Come? Sei tornato ieri? E perchè non ti sei fatto vivo?... Cosa? non ti sento, alza la voce, cos'hai la laringite?" Steven attese ma l'amico non rispondeva.
Ehi amico, qual'è il problema? Aspetta, provo a indovinare, hai litigato per l'ennesima volta con tuo padre e hai tagliato corto la vacanza! Ma dai! Vieni qui che ti consoliamo noi," lo esortò allegramente Steven, poi con fare malizioso si coprì la bocca con una mano e aggiunse, "Josie non aspetta altro!"
"La vuoi piantare?!" protestò lei fingendosi indignata ma con scarsa convinzione.
Come?... che significa che non ce la fai più?... Hm, immagino che è pesante sopportare i tuoi genitori, ma sei sempre stato una roccia! Non ti sei mai lasciato scalfire più di tanto dalle loro stupide beghe, li hai sempre mandati al diavolo insieme alle loro squallide discussioni! È la prima volta che ti sento prendertela così".
A quel punto Steven si soffermò un attimo e assunse un aria furbetta, sollevò un sopracciglio e inclinò il capo di lato, "me la stavi facendo eh? Ci ero quasi cascato! Dai finiscila di prendermi in giro con questa sceneggiata melodrammatica e sbrigati a venire qui, ci facciamo due risate alla faccia loro!... Hai sentito? Muoviti!... Cosa?... Ti senti solo?" Aggrottò la fronte rivolgendosi alle ragazze e contestò, "e noi cosa siamo? Pesce lesso?... Va bene, ti sei divertito, adesso smettila perchè lo scherzo è divertente finchè dura poco... A quanto pare ti gira storto sul serio! Stai dicendo un mucchio di cavolate e ci vado leggero con i termini... Senti Eugene dacci un taglio, tu non sei solo e i tuoi genitori ti vogliono bene, non sei tu il problema, sono solo due persone parecchio immature con una vita privata totalmente incasinata. Li dovevi allevare con più severità, ecco tutto," con quell'ultima battuta Steven tentò di sdrammatizzare il momento anche se sulla sua faccia incominciava ad affiorare un espressione turbata.
"Facciamo così, se tu non hai voglia di venire qui veniamo noi da te... tranquillo, tranquillo, non ti agitare vengo solo io... come no?! Perchè no?!... se volevi davvero restare solo non mi avresti cercato perciò io vengo e come!"
Le ragazze notarono che i lineamenti del suo volto si erano irrigiditi e le sue guance persero colorito. Era evidente che l'iniziale turbamento si era trasformato in preoccupazione e adesso rivelava timore. Annie si sedette sul bordo del divano ascoltando attentamente, incontrando lo sguardo di Steven fu scossa da una sensazione di gelo lungo la spina dorsale.
Adesso basta Eugene mi stai spaventando, non devi dire queste cose nemmeno per gioco. Non farti rovinare l'esistenza da quei due scellerati e da quella situazione. Dammi retta, fregatene come hai fatto fino ad ora. In fondo sei maggiorenne puoi andare a vivere per conto tuo e farti la tua vita, puoi parlare con mio padre, magari ti aiuta ad entrare in fabbrica dove lavora lui, lo sai che ti darebbe volentieri una mano... Basta! Non stai ragionando chiaramente sei in uno stato emotivo che non ti fa ragionare lucidamente... Non dire più una cosa del genere!" lo sgridò sconvolto.
Steven si rivolse ad Annie facendogli un cenno urgente con la mano indicandole di prendere il telefono e di tenere Eugene occupato a parlare. Lei fece appena in tempo ad avvicinarsi e in una frazione di secondo lui le aveva mollato la cornetta ed era già fuori dalla porta di casa, con un balzo saltò giù dal portico, tagliò attraverso il prato e corse come un pazzo dirigendosi in fondo alla strada verso casa dell'amico.
Annie appoggiò la cornetta all'orecchio e con voce incerta chiamò, "Eugene? Ciao sono Annie," non sapeva come comportarsi così disse la prima cosa che le venne in mente, "abbiamo affittato una videocassetta di Mr. Bean, il tuo preferito," chiuse gli occhi e si morse il labbro sentendosi una stupida per quella frase banale, comunque attese ma lui non rispose.
Annie lo sentiva respirare in modo strano, sofferente.
"Eugene? Mi dispiace che il fine settimana con tuo padre non sia andato come volevi o speravi. È ovvio che ci stai male. Hai ragione a starci male e ti assicuro che noi siamo tutti con te, ti vogliamo bene. È per questo che devi stare con noi, è peggio se resti solo a rimuginare, il tuo stato d'animo può solo aggravarsi. Dammi retta Eugene, esci da casa e vieni a stare in compagnia, vedrai che ci faremo un sacco di risate come sempre e ti farà bene," di nuovo Annie rimase qualche secondo in silenzio per dare a Eugene il tempo di riflettere sperando di averlo convinto.
"Questa volta non è come le altre."
Annie trasalì quando udì quella frase breve e lapidaria. Prov una stretta al cuore sentendo la voce flebile e colma di amarezza di Eugene. Non sembrava lui, era irriconoscibile.
"Eugene!!" lo chiamò forte. Si voltò verso le amiche che seguivano frastornate ciò che accadeva. Annie strinse le spalle e scosse il capo per indicare che non c'era nessuna reazione da parte di lui.
"Sembra che ha lasciato la cornetta e lo sento vagare per la stanza," spiegò Annie invitando le altre ad avvicinarsi. A turno ascoltarono nell'apparecchio telefonico provando a chiamarlo.
"È vero," commentò Josie, "sta combinando qualcosa e non deve essere niente di rassicurante. Lo sento lamentarsi, sembra un pianto da bambino. Ho un brutto presentimento, io vado a vedere non riesco a stare qui ad aspettare," concluse sbrigativamente passando il telefono ad Annie, "tu continua a chiamarlo, forse se ti sente lo distrai," aggiunse correndo via.
Annie lo chiamò ripetutamente gridando nel telefono, "EUGEEEEEEENE!!!"
All'improvviso un esplosione assordante squarciò la quiete di quella tranquilla serata primaverile. L'urlo agghiacciante di Steven rieccheggiò fino al salotto dove era lei penetrandola come una lama affilata. Si erano ammutoliti persino i grilli che fino ad un attimo prima avevano fatto sentire il loro sporadico chiacchiericcio. Annie rimase paralizzata stringendo la cornetta tra le dita con tanta forza da avere le nocche esangui e dolenti. Passarono alcuni secondi che a lei parvero interminabili. Fu travolta da confusione, smarrimento, panico ed ebbe la sensazione di non avere più nulla sotto i piedi, di essere sospesa nel nulla. Era come se ogni forma di vita stesse trattenendo il fiato insieme a lei. Poi, la quiete innaturale e sinistra che l'aveva trasportata in quella dimensione surreale fu infranta dalle voci allarmate e concitate delle famiglie che si riversarono nella strada.
Quando si volse verso la finestra intravide Becky e la sorella che correvano forsennatamente in fondo alla strada. All'istante lasciò cadere il telefono e si precipit fuori correndo a rotta di collo. Ogni muscolo del suo corpo era teso in avanti concentrato nello sforzo di raggiungere Eugene reprimendo l'immagine intollerabile che quello sparo aveva generato nella sua mente, pregando che fosse tutto solamente un incubo allucinante. Il cuore le batteva in petto con la stessa cadenza e violenza dei colpi dei suoi passi sull'asfalto. Quei battiti le rimbombavano nella testa come una ripetizione ossessionante di quello sparo terribile.
Finalmente raggiunse l'assembramento di persone sul prato davanti casa dell'amico. Avanzò verso il portico facendosi largo tra la gente che allungava il collo per capire cosa fosse accaduto. Anche Annie si girava intorno disperata cercando le sue amiche per avere notizie. Poi vide Josie accasciata sui gradini del portico con la testa fra le mani che dondolava avanti e indietro e fu come una doccia gelata, ebbe la tragica conferma della sua paura. Annie si affrettò ad avvicinarsi a lei ma la sua amica sembrava essersi estraniata da tutto ciò che la circondava manifestando un dolore che le aveva sfigurato i tratti del viso. Le accarezzò i capelli continuando a perlustrare tra la folla che nel giro di pochi minuti si era duplicata. Non riuscendo ad individuare ne Steven ne le sorelle pensò che fossero all'interno della casa, di conseguenza fece per entrare. Il braccio nerboruto di un poliziotto massiccio le sbarrò l'ingresso ma lei fu lesta ad evitarlo abbassandosi di scatto sfuggendogli. Immediatamente alla sua sinistra c'era il salotto. I suoi passi sul parquè scricchiolante attirarono l'attenzione di altri due agenti di polizia che si erano posizionati sulla soglia dell'uscio impedendole la visuale. Scostandosi all'unisono per controllare chi arrivava alle loro spalle svelarono una scena raggelante. Il tappeto era seminato di fotografie palesemente tirate fuori da un album di famiglia. Al centro di quello strano mosaico era disteso il corpo immobile di Eugene. Il suo capo era riverso in una pozza di sangue che evocava una lugubre aureola. Il fucile da caccia che gli aveva regalato il padre era rimasto perfettamente in posizione adagiato sul suo petto e le sue braccia ormai inermi erano scivolate in maniera composta lungo i fianchi.
"Tu non dovresti essere qui dentro signorina, come hai fatto ad entrare? Su vieni con me," il poliziotto più anziano la prese gentilmente per le spalle e la guidò fino alla porta accompagnandola nuovamente su portico, "è meglio che tornate a casa ragazze, avete già visto abbastanza."
Di scatto corse al lato della casa dove diede di stomaco e solo dopo si accorse della presenza di Debbie e Becky che si erano rifugiate le dietro per piangere. Ma di Steven nemmeno l'ombra.
"Dov'è Steven?" chiese Annie incredula
"Non lo sappiamo è sparito, è scappato via come una lepre."
Il giorno del funerale Annie lo visse avvolta da un torpore pesante, denso come la nebbia. Gli unici particolari che rammentava erano la bara bianca che conteneva il corpo senza vita di Eugene ricoperta di gigli bianchi scelti di proposito dai suoi genitori, e l'assenza palpabile di Steven. Il mattino seguente dovette fare violenza su se stessa per alzarsi dal letto. Le sembrava che al posto della testa avesse un masso, che per quanto si sforzasse il suo corpo non riusciva a sollevare dal cuscino. Si domandò quanto ci sarebbe voluto per smaltire il 'blando' sedativo che le aveva somministrato il medico. Con la mente annebbiata e i movimenti fiacchi ed incerti si custodì e scese in cucina desiderando un caffè forte e corroborante. Quando la madre si accorse della sua apparizione silenziosa e inaspettata e vide i suoi occhi gonfi e stralunati le propose di tornarsene a letto.
"Ti preparo la colazione e te la porto in camera, torna a letto, hai bisogno di riposare," la esortò premurosamente.
"Non posso tornare a letto, devo fare una cosa," le rispose Annie con la voce impastata di sonno artificiale.
"Posso chiederti cos'è tanto urgente da non poter rimandare, magari a domani?" indagò la madre con apprensione.
"Devo parlare con Steven. Non era al funerale e voglio sapere perchè!" rispose lei con fermezza.
"Tesoro, hai subito un fortissimo colpo, devi riprenderti tu prima. Adesso non te ne rendi conto ma devi concedere tempo prima a te stessa di metabolizzare quello che è successo."
Alzandosi repentinamente dalla sedia Annie provò una leggera vertigine e dovette aggrapparsi al bordo del tavolo. La madre accorse a sostenerla, "lo vedi? Non sei in grado di affrontare..."
La figlia troncò quella frase con un gesto perentorio della mano, "ce la faccio benissimo," dichiarò risolutamente. Si liberò dalla presa della madre e si avviò verso la porta, ma prima di allontanarsi si voltò a guardarla e disse,
"Steven non era al funerale del suo amico fraterno e io voglio sapere perchè. Non lascerò passare un minuto di più. Questo 'forte colpo' mi ha aperto gli occhi e mi ha insegnato che importante prendersi il tempo per capire cosa hanno nel cuore le persone che ci circondano, che fanno parte della nostra vita, altrimenti come facciamo a sapere se qualcosa le tormenta e aiutarle? Se ognuno di noi vive egocentricamente nel proprio mondo illudendosi che tutto va bene come facciamo ad essere presenti per gli altri quando hanno bisogno? Il professione Russell ha paragonato la famiglia a un nido caldo e accogliente dove i figli sono accuditi con amore dai genitori e sono aiutati a crescere forte, a sviluppare le loro individuali caratteristiche e doti naturali per poi essere in grado di affrontare il mondo esterno con autostima e sicurezza. Che ironia vero mamma? Mentre lui andava avanti con quella litania io pensavo tra me, 'se solo sapesse!'. Ho due genitori che si disprezzano a vicenda e non ne fanno un mistero davanti ai figli. Ho un fratello che fa la spola tra galera e centri di recupero per tossici, e un altro che ha tagliato i ponti con il cosiddetto 'nido' appena ne ha avuto la possibilità. E Eugene? In che nido è cresciuto? I suoi genitori lo hanno aiutato a spiccare un volo talmente lungo fuori dal nido da sbalzarlo nell'altro mondo!"
Quando Annie uscì sul portico fu investita dall'aria frizzante della mattina. Stringendosi nel suo maglioncino si incamminò verso casa di Steven senza badare a null'altro tranne i suoi pensieri. Non diede un'occhiata in direzione delle case dei vicini come faceva automaticamente da sempre cercando un volto amico da salutare. La sua attenzione non fu attirata dall'azzurro cristallino e luminoso del cielo che lei amava tanto contemplare. Non si mise a scrutare con divertimento le sagome curiose che assumevano le nuvole soffici e candide nel loro lento migrare. La sua mente era assorbita da un unico pensiero che si sovrapponeva e soffocava ogni altro. Non poteva capacitarsi che nessuno di loro avesse capito il tormento che si annidava nell'anima di Eugene e che lo aveva letteralmente consumato. Come era possibile che nessuno avesse colto un indizio, un sospetto. Di cosa parlavano quando stavano insieme? Erano davvero tanto superficiali i loro discorsi? Erano stati talmente ottusi da non intuire cosa covava intimamente il loro amico finchè non era stato troppo tardi.
Senza rendersene conto era già arrivata, quindi imboccò il viale laterale fino alla porta secondaria. Quando aprì, la porta a zanzariera fece il solito cigolio fastidioso che per fu coperto dai martellamenti metallici che provenivano dal seminterrato. Alla sua destra c'erano i gradini che scendevano di sotto. Si sporse in avanti e chiamò,
"Steven? Sei tu la sotto?"
"Si vieni giù," il tono brioso di quell'invito la colse come un pugno allo stomaco.
Quando arrivò in fondo alla gradinata lo trovò che era voltato di spalle davanti al tavolo degli attrezzi intento ad armeggiare con un oggetto che lei non riusciva ad identificare, e stava fischiettando il ritornello della canzone che usciva dalla radio. Annie rimase appoggiata al passamano della scala incapace di muoversi osservandolo costernata.
"Annie sei scesa? Dove sei?" Steven si girò e vedendola sfoderò un sorriso smagliante, "ciao, cosa fai impalata lì? Renditi utile ragazza," indicando il frigo disse, "prendi un paio di coca-cola, io ho le mani sporche di grasso," spiegò confermando la sua asserzione mostrandole le mani e facendo spallucce.
"Cosa stai facendo?" gli domandò lei annichilita da tanta impassibilità.
"Niente di che, sto solo cercando di aggiustare il blocco d'accensione del motorino di mia sorella."
"Non mi riferisco a quello e tu lo sai," ribattè Annie con severità.
Lui le diede di nuovo le spalle senza replicare e riprese ad occuparsi del suo lavoretto.
"Cosa ti prende Steven? Non ti riconosco," insistette lei, "cos'è questo atteggiamento indifferente? Da dove viene? Era il tuo migliore amico!"
"Lo credevo anch'io," controbattè lui seccamente.
"Ma che stai dicendo? Certo che lo era! Eravate più che amici, il vostro legame era fraterno!"
"Ne ero convinto anch'io fino all'altro ieri."
"Steven ti prego, non voglio parlare con la tua schiena, metti giù quell'affare, guardami e spiegati," lo rimbrottò duramente Annie.
Lui allungò un braccio e prese uno strofinaccio vecchio e consunto che era poggiato sul banco da lavoro. Tenendogli ostinatamente le spalle iniziò a pulirsi le mani con una flemma e una meticolosità irritante. Annie dovette reprimere l'istinti di tirargli la lattina che aveva in mano. Continuando ad ignorarla si avvicinò al frigorifero e prese una bibita senza tener conto di quella che aveva in mano lei, mand giù metà del contenuto e poi si asciugò le labbra con l'avambraccio. Lei pensò che se lo scopo di quella sceneggiata era di mandarla via non l'avrebbe spuntata, andò a sedersi su una panca di legno che era accostata al muro e attese seguendo come un segugio ogni suo minimo gesto. Lui era appoggiato con una spalla contro il frigo e sorseggiava piano dalla lattina. Per parecchi minuti regnò un silenzio fitto e pesante mentre Steven sembrava essersi distaccato da lei e da tutto il resto. Annie era arrabbiata ma allo stesso tempo angosciata, non aveva mai visto Steven in uno stato simile. L'indecisione l'attanagliava perchè provava l'impulso di spezzare quel silenzio ma nel contempo capiva che Steven aveva bisogno di mettere ordine nella girandola impazzita di pensieri che evidentemente lo affliggevano. Scotendola dai suoi pensieri, lui si mosse verso la panca e si accasciò su di essa come una marionetta a cui hanno tagliato di colpo i fili.
"Mi sento arrabbiato," dichiarò di getto rotolandosi ossessivamente la lattina vuota tra le palme delle mani, "non gliela perdonerò mai questa. Ero convinto che io fossi il suo migliore amico. Che fossimo un libro aperto l'uno per l'altro. Di colpo mi rendo conto che ero solo io a pensarla così. È ovvio che lui non mi considerava allo stesso modo. Non riesco a capire se sono più deluso o arrabbiato per la presa in giro."
Annie ascoltava allibita.
"Steven, io non credo che tu stia ascoltando le tue parole. Ti stai sbagliando, sbagli di grosso, davvero," lo corresse energicamente.
"E allora perchè non si è sfogato con me? Doveva parlare con me," proruppe con la voce rotta dal dolore e battendosi il petto con un pugno, "Doveva confidarsi con me, il suo migliore amico e dirmi cosa gli stava succedendo!"
"Ma è proprio quello che ha cercato di fare," gli sussurrò dolcemente mentre lui sbuffava e scoteva il capo, "pensaci! è così! Quella maledetta sera ha chiamato te, nessun'altro, ha cercato il suo migliore amico. Sono sicura che ti avrebbe voluto dire tutto ma forse in fondo si sentiva mortificato da quella situazione familiare triste e squallida, probabilmente non sapeva come esprimere i suoi sentimenti o forse si sentiva a disagio ammettendoli. In ogni caso aveva già preso la sua decisione e non c'era nulla che tu avresti potuto dire per persuaderlo a tornare indietro sui suoi propositi."
"Allora era un vigliacco! Un egoista vigliacco!" sibilò tra i denti.
"Dio mio Steven! Tu davvero non stai ragionando. Non siamo tutti uguali. Come puoi dire che era un vigliacco...!
Steven scattò in piedi come una furia interrompendo bruscamente la sua frase e incominciò a passeggiare convulsamente avanti e indietro a brevi intervalli. Annie lo fissava con gli occhi sgranati e il cuore che le batteva forte. Era chiaro, dalla tensione che gli stravolgevano i lineamenti del viso, che lui stava elaborando e mettendo in ordine i sentimenti che voleva esternare, stava preparando una sorta di arringa. Dopo un lasso di tempo esagerato Annie iniziò a sospettare che sarebbe andato avanti in quel modo all'infinito finendo per scavare un solco nel pavimento, quando di botto lui si arrestò parandosi davanti a lei a alzando le braccia al cielo esclamò,
"Allora dimmi cos'è una persona che preferisce togliersi la vita piuttosto che tirare fuori le palle e affrontare un problema!"
La veemenza con cui pronunciò quelle parole lasciarono Annie di stucco. Lui però non le concesse il tempo di replicare in quanto roteò su se stsso e scaraventò la lattina che aveva ancora in mano con tanta forza che rimbalzò dal muro a cemento,
"Porca miseria Annie!" gridò portandosi le mani alla testa, "ma quale problema può essere così enorme da preferire di essere morto? Lui adesso non esiste più! Ha scaricato giù per il cesso qualsiasi possibilità di trovare una soluzione, mi capisci?! Voglio dire..." dovette fare una pausa per ingoiare il nodo alla gola che gli stava soffocando la voce, "voglio dire, che forse in futuro le cose sarebbero cambiate, le avrebbe potuto cambiare lui stesso. Si sarebbe potuta aggiustare quella dannata situazione che lo ha logorato fino a quel punto. Avrebbe potuto scegliere di mandare tutti al diavolo, fare le valigie e andare a vivere per conto suo, lontano da quei due schizzati di genitori. Mio padre lo avrebbe aiutato a trovare lavoro, glielo abbiamo ripetuto centinaia di volta. Poteva crearsi una vita sua," chiuse gli occhi, piegò il capo stancamente poggiando le mani sui fianchi e tirò un lungo sospiro pieno d'angoscia, "ma ormai non... insomma... non lo saprà mai cosa avrebbe potuto fare della sua vita. È finita Annie. È finito lui..."non potè proseguire, le forze lo abbandonarono e si lasciò cadere sulla panca sprofondando il viso nelle mani per contenere i singulti di pianto.
Annie rimase discretamente in silenzio aspettando che lui sfogasse il suo dolore, nel frattempo rimasticava mentalmente le parole di Steven. Il suo punto di vista non era del tutto errato. Eugene si era barricato dietro una maschera che camuffava i suoi veri sentimenti. Non si era confidato fino in fondo impedendo persino al suo migliore amico di capire la gravità del suo stato emotivo e psicologico. Se si fosse aperto completamente avrebbe ottenuto tutto l'aiuto di cui aveva bisogno. Ma forse si vergognava di mostrarsi fragile, pensò Annie, o forse era per stupido orgoglio. Comunque non aveva cercato l'aiuto di Steven.
Dopo un po' lo sfogo liberatorio di Steven si placò, sollevò il capo, tirò su col naso e si asciugò gli occhi con un lembo della maglietta.
"Ha pensato solo a se stesso," sentenziò scrollando le spalle e riassumendo un'aria indifferente, "ha scelto la via più facile infischiandosene degli altri. È stato un codardo ed un egoista. Non lo perdonerò mai!"
Benchè condividesse in una certa misura le sue ragioni Annie non aveva intenzione di lasciare che Steven distruggesse il ricordo di una persona che aveva avuto una parte importante nella sua vita,
"Non ti credo, non dici sul serio altrimenti non avresti pianto fino ad ora," osservò lei sommessamente.
Annie si soffermò qualche istante per trovare le parole giuste prima di continuare,
"Eugene era solo molto fragile, emotivamente molto fragile. Più di quello che ci saremmo mai immaginato, più di quello che ci ha mai svelato. Forse per vergogna o per uno sciocco orgoglio, comunque non ha retto a una sequela infinita di delusioni e dispiaceri da parte di chi lo doveva amare e proteggere," lanciò un occhiata a Steven ma si accorse che quello che aveva detto era caduto nel vuoto perchè lui era assente, concentrato nei propri pensieri.
"L'ha fatto per ripicca," sbottò Steven con la sorpresa di chi ha appena fatto una scoperta rilevante, "ecco cosa ha fatto quello stupido. L'ha fatto per farla pagare ai genitori," blaterava quasi sull'orlo dell'isteria. Aveva ripreso a solcare il pavimento con falcate lunghe e decise, "si è tolto la vita per attirare l'attenzione dei genitori, per fargli scontare tutta la sofferenza e la solitudine che loro hanno procurato a lui. Non ci posso credere! Poteva fare qualsiasi altro gesto eclatante! Poteva drogarsi, poteva rubare, poteva unirsi a una banda di strada! Ma no! Il genio si è ammazzato!" urlò Steven con tutta la rabbia che aveva in corpo. Poi, come stremato dallo sforzo si lasciò cadere a terra carponi esplodendo in un pianto spasmodico.
Quella specie di ululato di dolore allarmò il padre che era nel giardino dietro casa ad annaffiare il suo piccolo orto. Ne riconobbe immediatamente la causa, se lo aspettava era solo questione di tempo. Sperava che prima o poi il figlio tirasse fuori l'angoscia che stava reprimendo e che lo stava divorando. Mollò istintivamente il tubo dell'acqua e si precipitò in casa scendendo le scale a due a due per soccorrere il figlio, provando pena ma anche un interiore senso di sollievo. Quando scorse Steven prostrato in quella maniera il suo viso si contrasse in una smorfia di afflizione e si chinò accanto al figlio, sollevandolo e stringendolo al petto.
Sentendosi di troppo Annie fece per andarsene in punta di piedi, indugiando solo un momento per ammirare la scena toccante che aveva davanti. Un pizzico d'invidia le punse il cuore osservando quella manifestazione di intimità tra padre e figlio. Chissà quante volte anche Eugene era stato ghermito dallo stesso morso d'invidia. Il suo gesto tragico era scaturito in un clima familiare che Annie conosceva fin troppo bene. Gesti scostanti, sguardi astiosi, commenti mordaci, parole dispensate con il contagocce per non doversi esporre più del necessario, e quei lunghi ed esasperanti mutismi che logorano e distruggono. Dalla prima infanzia Annie aveva percepito il disagio racchiuso tra le pareti della sua casa. Ed era cresciuta arrovellandosi l'anima tentando di trovare il bandolo di quella pseudo-famiglia in cui era capitata. A differenza sua, Eugene si era lasciato schiacciare. Aveva rinunciato a sperare, a lottare. Anche i fratelli di Annie avevano deposto le armi e da anni lanciavano un silenzioso grido d'aiuto. Micheal aveva scelto di giocarsi la carta dell'autolesionismo e si era lentamente trasformato in un drogato che trascorreva la sua esistenza tra prigione e comunità di recupero. Nick invece aveva adottato un'altra corrente di pensiero, 'loro se ne fregano di me e io me ne frego di loro', tagliando la corda appena gli si era presentata l'occasione.
Steven aveva ragione dicendo che Eugene si era sparato per mandare un ultimo disperato messaggio ai suoi genitori. Le si riaffacciò alla mente quella maledetta sera i il salotto dove era disteso senza vita il suo caro amico, e rivide tutte le fotografie di famiglia seminate intorno al suo corpo. Mimando una macabra metafora Eugene si era sistemato al centro, come avrebbe voluto essere nella vita, al centro dell'attenzione di suo padre e di sua madre.
Uscendo da casa di Steven Annie notò subito che la temperatura si era alzata sensibilmente rispetto a prima e il calore che emanava il sole era più intenso. Si sfilò il maglioncino e se lo legò intorno alla vita.
In un primo momento si avviò verso la scorciatoia che prendeva solitamente per tornare a casa, ma si arrestò sui suoi passi e ripensandoci decise di fare il giro più lungo. Aveva bisogno di stare sola per riflettere, così si diresse in cerca dell'unico posto che le dava un senso di pace e serenità. Dopo una lenta passeggiata di alcuni minuti si fermò davanti al campo di grano del Signor Hoyte. Si arrampicò sulla staccionata di legno e si appollaiò in cima come faceva sin da bambina quando avvertiva la necessità di allontanarsi dalla sua vita e raccogliersi nei suoi pensieri. Socchiuse gli occhi e inspirò profondamente inebriandosi del profumo delle giovani spighe di grano che fiorivano. Fra qualche mese sarebbe stato trebbiato e quel vasto mare dorato che creava un quadro incantevole e riposante avrebbe lasciato dietro di se un campo brullo e malinconico. Tuttavia lei sapeva che la prossima estate sarebbe stato di nuovo lì ad ondeggiare a ogni folata di brezza e a lasciarsi accarezzare delicatamente la superficie dai tentacoli luminosi del sole.
L'ultima settimana della sua vita l'avrebbe segnata per sempre. Cosa aveva detto il professore Russell? La famiglia è un nido? Che ci ha avvolto nel suo calore? In cui siamo stati cullati e coccolati? Preparati ad aprire le ali e volare da soli? Meditando sulla famiglia di Steven lo scetticismo di Annie dovette fare un passo indietro. Forse il professore non era del tutto in errore.
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