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San Giorgio- secondo capitolo
L’alba giunse molto rapidamente quel giorno e Giorgio era sveglio già da un paio di ore.
“Non è ancora tempo di incamminarsi, visto che il cavallo è molto stanco e la gente sta ancora dormendo” si disse, così aspettò ancora qualche momento prima di riprendere la sua marcia verso il compimento della missione.
Già, la missione a cui era stato chiamato era la più singolare che gli fosse mai stata affidata.
Fino a quel giorno, ciò che aveva dovuto affrontare rientrava, in una maniera o nell’altra, nell’ordine di imprese fattibile per qualsiasi uomo valoroso, ma oggi era chiamato ad un’impresa che aveva dell’inverosimile.
Pareva infatti che, da molto tempo, nella regione in cui si stava dirigendo, una strana creatura facesse stragi di vittime, distruggesse campi e pretendesse vergini in sacrificio.
Un Drago, dicevano alcuni, per altri una Manticora, secondo altri ancora solo una farsa organizzata da un gruppo di briganti, infine per i più disillusi, solo una diceria popolare per mascherare con l’assurdo l’incapacità di pagare i tributi al Sovrano.
Il compito di Giorgio era proprio quello di vagliare la fondatezza di queste voci e, qualora fosse stato necessario, occuparsi di risolvere la situazione, in qualunque modo si fosse presentata.
Erano le prime luci del mattino quando Giorgio, avvicinatosi ad uno specchio d’acqua, cominciò a dedicarsi alle sue abluzioni mattutine.
Non che amasse particolarmente l’acqua e il lavarsi, ma ciò era necessario per risvegliare dal torpore notturno i muscoli, rendere reattivi gli occhi e rinfrescare la pelle dall’incipiente calura che ormai stava aumentando, facendo presagire un giorno più caldo addirittura di quello precedente.
Mentre si immergeva nel piccolo stagno e detergeva le sue braccia, non perdeva mai di vista il cavallo ma soprattutto le armi e l’armatura di metallo scuro. Era quella infatti una situazione propizia per un gruppo di briganti, non solo per derubarlo di tutto, ma per coglierlo impreparato ed eliminarlo molto facilmente.
Giorgio, che era decisamente abituato alle imboscate, sapeva bene che la guardia non andava mai abbassata, neanche in un momento come quello, tuttavia dopo essersi accuratamente deterso il corpo, stette immobile in mezzo all’acqua come un Sisifo, e ciò permise allo stagno di acquietarsi e riflettere l’immagine del cavaliere.
Giorgio si incantò a contemplarla. Guardava il contorno dei suoi occhi, i suoi capelli, il colore della sua pelle e ciò che vide, come ogni volta che lo vedeva, non gli piacque per niente.
Come era diventato vecchio rispetto alla sua fanciullezza in fiore di un tempo!
Il suo aspetto di trentenne alle soglie della maturità compiuta e già andante verso il declino, lo gettava in uno stato di indecifrabile agitazione.
Non era più quello che fu e quando lo era stato non aveva saputo rendersene conto.
Aveva sprecato la sua bellezza giovanile senza accorgersene; non che ora fosse brutto e vecchio, ma comunque non si vedeva più al massimo della bellezza.
D’un tratto si accorse che tali pensieri lo avevano distratto dal controllo del destriero e della sua armatura, ciò lo irritò moltissimo. “Penso troppo ed agisco troppo poco” pensò in quell’istante.
Con un balzo rapido ed un abbondante scroscio d’acqua, uscì dal laghetto, si vestì e si mise la pesantissima armatura, che per le sue spalle abituate era nient’altro che una seconda pelle.
Dette una scrollata al cavallo, montò in sella e con trotto leggero ritornò lungo la strada. L’obbiettivo era il più vicino villaggio, che, secondo quanto gli era stato riferito, era anche l’ultimo prima dei territori dove il presunto Drago imperversava.
Il villaggio, che per essere precisi era un paese piuttosto sviluppato, si divideva in una zona più periferica, popolata da contadini e mercanti di bassa lega ed una zona urbana propriamente detta, con tanto di Cattedrale e Feudo.
L’accoppiamento di due inurbamenti simili derivava da due abitati che col tempo e con l’aumentare della popolazione si erano conglomerati l’uno all’altro.
Tuttavia, almeno per quanto riguardava il tipo di popolazione, era ancora ben evidente una suddivisione tra le due città, posto che da quando il Drago aveva cominciato a mietere vittime, molti dei ricchi e dei nobili che abitavano nella parte più grande della città erano fuggiti abbandonando i loro possedimenti senza mezzi termini, lasciando i contadini ed i pochi rimasti, in una straniata situazione di dominio su ciò che non era loro, ma anche in una difficile situazione di isolamento, che a lungo andare li aveva portati a quel tipo di bizzarria, a metà strada fra il grottesco e l’inquietante, tipica di chi vive isolato dal resto del mondo.
E Giorgio se ne accorse presto.
Fu infatti alle soglie della città che fece il suo primo incontro con alcuni abitanti che si stavano dirigendo verso il centro. Due contadini. Marito e moglie.
Giorgio si accostò a loro col cavallo e prima di rivolgergli la parola ne dette un giudizio estetico nella sua mente.
L’uomo, che dall’aspetto poteva avere una quarantina d’anni, ma avrebbe potuto averne sia di più che di meno, presentava una fisionomia del tutto asimmetrica e sbilenca.
Il viso aveva un sottile mento a punta, ma le guance erano grasse, flosce e rugose, mente le fronte, sovrastata da un caschetto unto e disordinato, era solcata da rughe profondissime.
Tutta la parte inferiore del volto era irsuta da una barba brizzolata ma non disposta in maniera omogenea, quanto al naso, era evidente che esso si fosse rotto in qualche modo, dato che piegava da un lato in maniera vistosa, mentre gli occhi, di un azzurro troppo chiaro, erano sbarrati e stupidi.
Quanto al corpo, gambe sottili ed arcuate, sorreggevano una pancia non troppo prominente ed una schiena piegata di sghimbescio.
Il tutto era ricoperto da un vestito da festa, che però dimostrava con innumerevoli macchie e rattoppi, di essere vecchio di parecchi ann; in testa, un cappello nero dal quale emergevano grosse setole di lana ed un cucchiaio infilato di lato, indice che sarebbe servito ad una festa paesana, tutto incrostato di macchie color rame, addosso una casacca nera tenuta in vita da un coltellazzo legato ad una cordicella di iuta, sotto di essa una camiciola rossa con macchie di urina, che dimostravano una recente ritintura, un paio di pantaloni color terra ed infine due scarpe scure a punta, tutte lorde di fango.
La moglie invece mostrava una fisionomia più salutarmene contadinesca.
Un volto rotondo con due guance pingui e rosse, come cotte da un costante calore di fornelli, un sorriso lineare, invariato, come se fosse un’espressione abitudinaria, due occhi marroni, a volte tenuti a mezz’asta a volte spalancati in ampie contrazioni, come ad indicare l’arrivo di un’idea imminente nella testa della contadinotta, un seno prominentissimo, ma già cadente e visibilmente proteso in avanti, più sulla destra che sulla sinistra, tanto che col bordo già copriva una parte della fascia del vestito dalla vita molto alta, il che metteva in risalto un deretano enorme e mosso con enfasi sotto la gonna, tutta strappata ai bordi e che lasciava vedere, tra di essa e le pantofole, due caviglie degne di una bestia da soma. I capelli erano coperti da un velo bianco, stretto alla menopeggio sulla fronte, ma palesemente malfermo e quindi in continua oscillazione tra gli occhi e l’attaccatura dei capelli. In fine al fianco una bisaccetta con le chiavi di casa o qualcosa di simile.
Giorgio attese che i due lo notassero e mostrassero un timore reverenziale nei suoi confronti (ed infatti così avvenne) per poter rivolgersi a loro col dovuto distacco.
“Dimmi, buon’uomo, è questo il famoso villaggio più vicino ai territori in cui dimora il Drago?” disse Giorgio in tono perentorio.
Il contadino, preso alla sprovvista, ebbe un attimo di agitazione e poi rispose: “Oh, buongiorno Messere, vi porgo, io e la mia moglie, i più sentiti omaggi, se siete qui per riscuotere i pagamenti, sappiate che noi quest’anno si ha avuto…..”
“Non sono un usuraio ne è funzionario Imperiale, ti ho chiesto se questo è l’ultimo paese prima del confine…impara a rispondere” lo interruppe Giorgio.
“Avete ragione, Messer Cavaliere, scusate la mia maleducazione, ma sono solo un contadino…. e questo è per l’appunto l’ultimo villaggio prima del mondo sconosciuto”.
Giorgio proseguì nelle sue domande: “è vero che siete bersagliati dall’attacco di un Drago?”.
A queste parole la moglie del contadino trasalì e rispose prima che il marito trovasse le parole per farlo : “Oh no, Cavaliere, vi sbagliate e di grosso! Qui non c’è un Drago, ma una Bestia Infernale! Un Mostro!”.
Il contadino rifilò una tal gomitata alla moglie da farla sobbalzare e disse : “Oh, Messere, perdonate mia moglie! È una cagna che abbaia anche quando non deve e si permette di rispondere anche quando non è interpellata, ma il Signore ha voluto darmela in sposa per punirmi di qualche malefatta, ahi povero me!!! Perdono perdono Messere! Non voleva contraddirvi…”
“Quindi non sarebbe un drago ma un mostro? E sareste così gentile, Madama, da spiegarmi la differenza?”.
Il contadino fu sensibilmente sconvolto e si voltò verso la moglie come per dirle “e adesso sei sistemata, cosa gli dici ora?”, lei invece fu presa dall’agitazione di chi crede di saperla lunga ma non viene mai ascoltata da nessuno o ha il divieto di parlare, poi disse tutta balbettante: “Si, Messere, un mostro che io e mia marito abbiamo visto con questi nostri stessi poveri occhi!!! Una creatura orrenda e smisurata! Vero, diglielo tu, era una Bestia, vero, vero????” ed intanto tirava la manica del marito che cercava di liberarsi da quella stretta convulsa.
“Perdonate le maniere fastidiose di mia moglie, che è un’asina indisciplinata, ma in effetti capitò un giorno che eravamo andati a raccogliere la legna, intendo io, lei ed uno dei miei figli, di incontrare il mostro alle soglie della città e pur non avendo mai visto io nella mia misera vita un drago, posso affermare con certezza che un drago non poteva essere per come è fatto, almeno stando quanto il Vescovo ed il Monaco vanno predicano…. no, Messere, in effetti vi dico che il mostro è più un Diavolo”.
Giorgio si tese sulla sua cavalcatura…se si trattava di diavoli la situazione era seria: “Un diavolo…ma di che tipo? Come era fatto? Cosa avete visto?”.
Intervenne di nuovo l’incontrollabile moglie del contadino :”Ahhh, se voi aveste visto! Una creatura smisurata, e che bocca! Gli artigli poi! Più grosso di un cavallo e puzzolente come un porcile!!!”.
Dopo una calcio nello stinco della donna, il contadino disse: “Niente, non c’è verso di farla tacere, sta gallina, col risultato che parla male e non vi descrive la bestia!!! Dunque…. dovete sapere che, da quel che ricordo, perché dovetti scappare appena la vidi, essa, intendo la creatura, aveva una bocca grossa e forgiata come il forno del panettiere, tutta in ferro e sprizzante fiamme, con tanto di chiusura…”
“Vero! Vero!” andava ora dicendo la donna che annuiva col capo.
“Le zampe invece, che parevano forconi, erano piene di spunzoni, come coltelli e forconi, e con essi rivoltava la terra in cerca di cibo da divorare, sicchè non pareva solo carnivoro, ma ingordo di ogni genere di cibo!!!”
“Vero! Vero!” continuava a dire la donnona.
“Il suo ventre, poi, gonfio come un sacco pieno di patate…e dico, che mentre esso correva come se fosse un carro da mercato, in effetti cose simili a patate uscivano fuori dalla sua pancia, ma che poi subito lui le rimangiava”
“Vero! Vero!” la contadina ormai ripeteva la cantilena.
“La coda, invece, sembrava un frustone per muli, e la agitava infatti in aria come per frustare qualcosa, dal culo poi…oh ma mi scusi le parola….. da quel posto insomma ne usciva poi una quantità enorme di cibi di ogni sorta e di fanghi e di merda da porcile, che lui divorava con furore, ma mentre faceva questo, io dico che trovava, la bestiaccia, il tempo di inseguirci per azzannarci tutti.. ed infatti è stata in quella volta che persi il mio povero figliolo di dieci anni!!!”
“Ah! Vero! Verissimo, Messere! Non ne abbiamo ritrovato neanche i brandelli!” la contadina ora strillava con fare melodrammatico.
Il contadino continuò: “E se io non avessi fatto la più veloce corsa della mia vita, dico che sarei finito nella sua pancia come mio figlio e tutta la foresta dove ci trovavamo, solo dentro la città non ha osato seguirci, di certo intimorito dalla nostra chiesa”.
“Intimorito dalla miseria e dalla mancanza di cibo che c’è in città, vorrai dire, ingordo com’era!!!” aggiunse la donna.
Giorgio rimase incredulo e sospettoso di quella carnevalesca immagine di una bestia più farsesca che altro, ma non espresse più di tanto i suoi timori.
“Ed ora voi dove state andando? “ disse in tono risoluto.
“Noi si sta andando alla festa della Beata Santa del Paese! Vogliate che almeno una volta l’anno anche noi si festeggi di quel poco che abbiamo” lui... e lei subito in aggiunta: “Ah, con quel poco che abbiamo da festeggiare! per colpa della carestia e del mostro che ha mangiato tutto, ormai siamo in quattro miserabili nel villaggio e c’è ben poco da festeggiare con questo caldo che non fa crescere niente!”.
Giorgio, che ormai non ascoltava più il cicaleggio dei due contadini, rimase a riflettere: la prima descrizione che aveva avuto del drago da parte di chi lo aveva visto, faceva presagire il bisogno di un combattimento contro un mostro dotato di parti ferrose e volto ad una smisurata fame. Ciò contrastava molto con l’idea che si era fatto prima di partire e prima di tutto sembrava che qualche strano animale infestasse davvero quei luoghi.
“Vi ringrazio e tenete” Giorgio gettò loro qualche moneta, fatto che gettò i due omini nell’agitazione ed in una situazione inaspettata, subito si volsero a terra, in mezzo al fango per raccoglierle, senza neanche ringraziare troppo il cavaliere, che tanto era già andato avanti verso il villaggio.
Qui il rumore di una festa aveva subito attirato la sua attenzione; si trattava sicuramente della ricorrenza paesana di cui parlavano i due contadini, fatto che fu confermato dalla presenza di altrettante figure grottesche a creare la scena che gli si presentava.
Nel mezzo di una piazzetta centrale, precisamente davanti ad una taverna, la cui insegna era una scrofa semilanuta, vi era tutto un gruppo di coppie o simi-coppie intente a ballare al suono di una singolare orchestra formata da tre elementi.
Il primo, un panciuto uomo di mezza età, intento a soffiare con quanta energia avesse in corpo, dentro ad un’enorme zampogna di budello, sormontata da due canne, una delle quali era pure rotta, creando un suono palesemente stonato, vestito con due braghette corte che mettevano in risalto gli attributi e le gambe, in testa invece una cuffia che faceva pandan con la giacca, tutte e due di color grigio scuro. La caratteristica che maggiormente colpì Giorgio era la deformazione che le guance subivano ogni qual volta l’uomo soffiasse dentro lo strumento: il viso ne risultava così sfigurato da rendere difficile il riconoscimento della persona quando essa aveva il volto rilassato per riprendere fiato.
Il secondo, un uomo vecchio, magro ed ossuto, col volto allungatissimo, un naso aquilino, gli occhi completamente nascosti sia dai capelli lunghi, fini e spioventi, sia dalla berretta azzurro scura a forma di campana. Aveva le gambe incrociate in posizione romboidale e le spalle inclinate verso il basso, dalla bocca, anch’essa attirata verso il basso da una smorfia indecifrabile, lasciva vedere una dentatura scarna. Suonava una ghironda mezza spaccata, con un movimento fastidiosamente meccanico e continuo, in modo che, se il suono della zampogna interveniva in modo forte ad intervalli regolari e corrispondenti al fiato del suonatore, la ghironda azionata a manovella era il sottofondo costante della ballata.
Il terzo uomo, che era l’addetto alla canzone e quindi il più importante, era un contadino sulla trentina, col naso rosso, i capelli sudati ed un vestito purpureo, completamente ubriaco, che sia appoggiava al suonatore di zampogna, che dalla fisionomia poteva anche essere suo fratello, tenendo in una mano una brocca di terracotta tutta crepata ed agitandola in mano a tempo di musica, mentre era intento a strillare una canzone in dialetto locale.
Tutta la piazza era poi circondata da una serie di coppie o di personaggi singoli, intendi nelle più disparate attività.
Principalmente erano coppie intente in balli contadineschi, vi era poi chi si appartava, caldo di cibo e di vino, pronto a lanciarsi in arruffati amori confusi…seguivano poi quelli troppo pieni di cibo o troppo ubriachi per poter fare qualsiasi attività, che sedevano sdraiati ai lati della piazza, intenti tanto a vomitare quanto a defecare, assimilati dal comune bisogno di scaricarsi.
Fu proprio da questa zona che partì una rissa che gradualmente investì tutto il gruppo, proprio nel momento in cui Giorgio si stava affrettando a lasciare la piazza, visibilmente infastidito da tanto volgo in giorno di festa.
Si affrettò poi del tutto a lasciare quella zona quando due contadine, giovani ma assai brutte, invocarono il suo aiuto per sedare la rissa tra contadini, che ormai vedeva volare brocche e farfugliati insulti indistintamente. Giorgio, che ora era proprio inorridito da tale spettacolo, dette una speronata, più forte del dovuto, al destriero e si allontanò di tutta corsa da una situazione che di nobile, e quindi di adatto a lui, non poteva proprio avere nulla.
Non appena su sufficientemente lontano dalla piazzetta, il cavaliere tirò un respiro di sollievo. Odiava quel tipo di volgo, anche se cercava di nasconderlo in una maniera o nell’altra. “Dio deve averli proprio in scarsa considerazione -ripeteva spesso- se li ha fatti così brutti e sfortunati” ed infatti Giorgio, profondo amante della pulcritudine
, era, nell’intimo del suo animo, convinto che solo nella nobiltà potesse sbocciare la vera bellezza, bellezza che era anche sapienza e sapienza che si faceva giustizia. Adorava, soprattutto quando era ancora molto giovane e viveva nei possedimenti del padre, trascorrere intere giornate primaverili, chiuso con pochi amici all’interno di curatissimi giardini, di profumati roseti, rincorrere diafane fanciulle sotto tettoie ricoperte di edera, danzare la Carola al suono di piccoli cembali, osare fin troppo verso una fanciulla amata, lontano da sguardi severi, intrattenersi in schermaglie di ogni tipo con i suoi amici. In quei momenti, ora se lo ricordava bene, sembrava che il mondo fosse composto solo da quei pochi fanciulli in fiore, nella totale assenza di qualcosa che potesse ricordare loro l’inesorabile trascorrere del tempo, che presto li avrebbe chiamati a ben altri compiti; ora invece si trovava in una via di uno sporco e decadente villaggio, pieno di sudici pezzenti che, se di certo non gli avevano fatto alcun torto, avevano però la colpa di non essere come lui.
Tali pensieri si dileguarono quando la strada sterrata divenne un selciato in pietra, indice che si stava dirigendo nella città vera e propria, sebbene non avesse incontrato per tutta la parte rimanente del percorso alcuna persona che potesse confermare la sua impressione.
Ciò avvenne quando, svoltato a destra lungo una via più grande, si ritrovò in un’altra piazza, questa volta ampia abbastanza da permettere, ancor prima della visione del Duomo, di comprendere che era la principale della città.
Qui, vi era tutto un gruppo di persone disposte in luogo di processione che stavano uscendo dal portale più grande della costruzione religiosa: un imponente ingresso a strombatura, ricco di decorazioni di santi e patriarchi biblici, sormontato da un rosone a vetrata policroma, sgargiante di molti colori.
I personaggi che uscivano dalla chiesa erano quasi la completa antitesi di quelli incontrati alla festa paesana, solo che non erano meno tragici nei loro esiti estetici.
Vi era, ad esempio, tutto un gruppo di vecchie donne, vestite con un telo nero, che facevano a gara per fare l’elemosina a quei quattro o cinque storpi, mutili a volte di gambe a volte di braccia, a volte di entrambi, che sostavano ai bordi dell’entrata. Mentre donavano, chi dei soldi, chi cibo ed indumenti, ripetevano una strana litania in maniera cantilenosa, senza il benché minimo trasporto.
Altri, per lo più uomini e mercanti, distinguibili dalle loro ricche pellicce, si defilavano in gran fretta nella speranza di non essere arpionati da qualche mendicante, cosa che però spesso accadeva.
L’intero gruppo di persone, che nell’insieme sembrava piangere di una malinconica miseria e che quindi faceva da contraltare alla belluina goliardia dei contadini in periferia, mentre era intento a disperdersi per tornare alle proprie faccende, passava per un angolo della piazza, dove, assiso su in piedistallo, un uomo in ricchi abiti ecclesiastici, impartiva benedizioni a chi gli si accostava e gli porgeva i propri omaggi, accanto a lui vi era invece, in posizione visibile ma al tempo stesso defilata, un uomo vestito in maniera monacale.
Giorgio capì che era alla Chiesa che doveva rivolgersi per avere notizie attendibili su ciò che lo aspettava, soprattutto dal momento che pareva fosse il Diavolo il suo nemico. Aspettò quindi che la folla si diradasse, dopodichè incitò il suo cavallo a dirigersi verso la coppia di uomini, i quali -potè capirlo non appena gli fu più vicino- non erano decisamente uguali, erano infatti un vescovo ed un monaco.
L’uno in piedi con in mano il pastorale, l’altro seduto appoggiandosi ad un bastone a Tau. Un’altra coppia avrebbe quindi dato indicazioni a Giorgio.
fine secondo capitolo
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- un bel racconto anche se non è il mio genere,è molto buono. Bravo
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