Via del Corso è un fiume di persone, rintronate da luci e vetrine, le cui onde ogni tanto ti spingono nelle chiese, molteplici lungo le sponde.
Sono come oasi, che aldilà del proprio credo ti accolgono sempre, nel loro silenzio che sa di pace e riposo.
Mi ritrovo così nella chiesa di S. Marcello. "Bene, finalmente lo rivedrò".
Mi aspettava nel buio della sacrestia, che un sacerdote pacioccone, dietro mia richiesta, apre solo per me. Ecco, è lì, come anni prima eppure mi sembra di vederlo per la prima volta: su di una grande tela, dipinto ad olio da Antoon Van Dyck c'è Cristo alla croce.
Il fiammingo, famoso per i ritratti di nobili e re dell'epoca, lavorò a quest'opera nel suo soggiorno romano, creando il ritratto dell'estremo dolore.
Ha colto Gesù in croce ma vivo: le braccia hanno un'inconsueta posizione, anziché essere distese come nella maggior parte dell'iconografie, puntano verso l'alto; i chiodi sono conficcati nei polsi e le dita delle mani chiuse a pugno.
Il corpo perfetto in quella posizione estrema è immacolato, non ancora trafitto è il costato, ha solo piccoli rivoli di sangue dai polsi, sul dorso dei piedi e intorno alla corona di spine dove una luce s'affaccia pacata mischiandosi alle gocce d'amore.
Nulla c'è a collocarlo, sembra sospeso nello spazio e nel tempo; il fondale è buio, soltanto in alto a sinistra si nota un piccolissimo squarcio di cielo velato, senza colore, da dove filtra una luce fiochissima.
Nessuno che piange ai suoi piedi, l'uomo d'Amore è solo con la morte come ogni uomo.
Ha gli occhi aperti che guardano in alto ed è lì che si è concentrata ogni sofferenza. Lo guardo e spero finisca lo strazio: siamo abituati al tutto donato, al capo reclinato, morto, tolto dalla croce ed adagiato in terra... qui invece vive ancora, anche il piccolo telo bianco che copre la sua virilità... sembra che un vento invisibile l'agiti.
Vado via ma tornerò.