Aveva speso parte della propria esistenza, nel costruirsi una vera fortuna.
Sempre nell'ombra e sempre pronto a mercanteggiare.
Anche con la sua cattiva coscienza.
Un Usuraio, che non si rendeva conto dell'inutilità del proprio operato e
del male causato a tante, a troppe persone.
L'inverno aveva stirato le cuoia e nell'aria sentori di risveglio primaverile.
Nel cielo celeste, un gorgheggiare continuo di canti d'amore.
Nel ruscello, alimentato dal disgelo delle nevi, guizzi argentati.
Nell'Ospizio, i pazienti ammalati e ancora in vita.
Si narra che Qualcuno restò folgorato sulla via di Damasco e si narra anche
che qualcuno si sia pentito dei propri peccati.
Non folgorato, né pentito, il nostro rapace Usuraio giaceva in un cantuccio,
aspettando che il cancro, diagnosticatogli, facesse il proprio dovere.
Già! Il proprio dovere?
Si era dato la pena di nascere e imparò presto che era dura vivere
in una società egoista e piena di falsi sorrisi.
Imparò a dominare le proprie passioni e imparò anche a trarre vantaggi
dalle disgrazie altrui.
Vendeva moneta ed era esoso.
In tanti s'erano arricchiti, comprando il suo danaro e facendo ottimi affari.
Tanti altri, meno fortunati, si erano rovinati per restituire interessi e capitale.
Così vanno le cose della vita e così l'Usuraio si arricchiva.
I prestiti gli erano sempre stati richiesti e mai, Lui, li aveva offerti.
In quel cantuccio rifletteva sugli epiteti di cui lo avevano gratificato.
Licantropo, Vampiro, Succhia-sangue, Avvoltoio, Sciacallo, Serpente, Cancro...
Nessuna illusione.
Adesso, il cancro era il suo capitale e quei dolori lancinanti erano i suoi
miseri interessi.