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La morte
Fu una mattina di metà maggio, quando l'aria cominciava a riscaldarsi e lo scioglimento delle nevi creava dei piccoli ruscelli sui fianchi delle montagne. A Self pride erano spariti quasi tutti. Il paesino era molto piccolo e se ne stava ai margini della foresta. Al termine dell'inverno l'unica cosa che distingueva quel paesino da una città fantasma era il suono continuo e tagliente della segheria. La notte potevi sentire il canto di qualche operaio ubriaco ma quel suono sprofondava nel silenzio che la foresta lasciava cadere sul paese.
Fu in quella mattina, sotto l'incessante suono che la segheria spargeva nell'aria. Fu quella mattina e lo ripeterò perché un fatto come questo va ricordato. Fu quella mattina che qualcuno busso alla mia porta. Un vecchio come me, che aveva visto l'intero secolo davanti ai suoi stanchi occhi verdi. Chi mai avrebbe potuto cercarmi?
Impiegai diversi minuti a sollevarmi dalla mia sedia e ad avviarmi verso la porta. La persona dall'altro lato sembrava avere molta fretta e bussava sempre più forte chiamandomi a gran voce.
Dopo aver aperto la porta, la voce della signorina Sarah mi colpì violentemente. Quella dannatissima voce, così squillante e preoccupata per qualcosa che non era in grado di spiegare.
<La prego signor Gard, mi segua, la prego.> Non compresi subito la gravità del caso, i suoi occhiali spessi nascondevano magnificamente le lacrime e un vecchio come me di certo non faceva caso ai suoi capelli neri, sporchi e in disordine.
<Sarah si calmi, cosa sta succedendo?> La ragazza mi guardò disperata, una lacrima sfuggì allo schermo dei suoi occhiali e fui in grado di vedere la sua disperazione.
<Signor Gard, mio padre, da due giorni rifiuta di muoversi.> La guardai stupito.
<Rifiuta di muoversi?>
<Sì, io non dormo da giorni perché la notte urla terrorizzato e il giorno resta immobile nel suo letto. Dice in continuazione di non potersi muovere ma in verità lo fa.> La guardai, le sue parole erano rotte dalle lacrime e i suoi occhi, cerchiati di rosso, imploravano il mio aiuto. Non compresi bene il significato di quelle frasi ma decisi di farla contenta.
<Allora andiamo, mi porti da Soan.> Conoscevo bene suo padre e sapevo che non ci sarebbe stato motivo di preoccuparsi. Camminavo il più rapidamente possibile dietro a Sarah che sembrava aver molta fretta. Fui fatto entrare in casa e mi trovai davanti il volto stravolto e spaventato di Soan, seduto ai piedi del letto.
<Soan, cosa diavolo stai combinando? Tua figlia è spaventata.> Lui parlò, ma lo fece senza mai guardarmi. Osservava qualcosa di misterioso alle mie spalle, qualcosa che, da quel ipotizzai, lo stava spaventando a morte.
<Non vedi che non riesco a muovermi?> Nel dirlo gesticolò con le mani, nel modo in cui una normale persona farebbe.
<Ti sei appena mosso però.>
<Anche tu non lo vedi.> Disse con voce delusa. <Non sono i miei movimenti, non sono i miei, sono i movimenti di un qualcosa che non mi appartiene più.> Fu questo il momento in cui cominciai a pensare che fosse completamente impazzito. In guerra avevo incontrato molti pazzi e il modo migliore per non farsi male con loro era quello di assecondarli, se ti puntavano contro un'arma. Soan l'arma la possedeva, la stringeva ossessivamente nella mano sinistra, la coccolava e in alcune occasioni, durante il suo discorso, pensai anche che stesse parlando con lei.
<E dimmi, di chi sono quei movimenti?> Parlai lentamente, scandendo le parole. Un pazzo è in grado di ammazzarti anche solo per il modo in cui parli. Non avevo paura ma preferivo essere sicuro di ciò che sarebbe successo.
<Sai bene che la morte arriva per tutti.>
<La morte ti muove?> Soan rise fragorosamente.
<Che idea stupida, devi essere un po' più sveglio, intendo dire altro.> Mi osservò con superbia, si aspettava che io chiedessi chiarimenti ma non intendevo dare una soddisfazione simile a un pazzo. Sollevò lentamente la pistola e me la puntò alla fronte con un movimento meccanico. Uno di quei movimenti che la gente assembla nella propria testa per poi eseguirli con estrema precisione. La sua fronte era imperlata di sudore e stava faticando molto.
<Soan, calmati.>
<Bang.> Finse di spararmi, ma non tolse la pistola dalla mia fronte. <Siamo tutti liberi, vero?>
<Vero, verissimo.> Ormai mi trovavo in preda al panico, avevo paura e sapevo che sarei morto.
<Siamo noi a costruirci la vita, ma la morte?>
<La morte?>
<La morte! In vita possiamo fare tutto ciò che vogliamo ma cosa accade nel momento in cui si avvicina la morte!? Quando si avvicina la morte che significato ha muoversi? A cosa serve correre o anche solo camminare!? Alla fine dovrai pur morire.>
<È questo il tuo problema?>
<Io la vedo, la vedo benissimo, se ne sta negli angoli delle stanze, non la vede mai nessuno ma io sì. Potrei ucciderti ora ma finirei comunque per morire.> Abbassò la pistola con sguardo rassegnato e la gettò sul cuscino. La distanza era ottima, ora potevo tranquillizzarmi.
<Io la vedo.. La sento, ha un profumo inconfondibile che a volte somiglia all'odore dei cadaveri in estate mentre altre volte profuma come un campo di fiori in primavera e ti chiama dolcemente con la voce di bambina.> Soan afferrò nuovamente la pistola e la scaraventò con forza per terra, sdraiandosi. Mi avvicinai a lui e mi accorsi che stava tremando. <La morte arriva, io non posso più muovermi, non dopo averla vista. La morte arriva e noi...> Cominciò a ridere, una risata isterica che entrava nelle ossa fino a congelarle. <La morte arriva e noi non possiamo far niente per scappare, non posso più muovermi, non ne ho più bisogno.> Il suo sguardo si era perso sul soffitto buio della stanza. Lo osservava respirando affannosamente, la sua mente era già lontana da questo mondo e non sarebbe stato facile riaverla.
<Soan, c'è un ospedale più a valle, possiamo andarci.>
<Non mi serve.> Il suo affanno aumentava dopo ogni parola. <Non mi serve, lei viene ogni notte, la morte. La morte ogni notte si siede ai piedi del mio letto e mi tocca le caviglie.>
<Ti tocca le caviglie!?>
<Ha una mano gelida, lo fa solo per divertimento.>
<Ma per quale motivo vuole te!?> Ormai, osservando i suoi occhi avevo compreso che la sua paura era reale, poteva non essere la morte ma sicuramente era spaventato da qualcosa.
<Perché sono appena tornato da una battuta di caccia e ho riportato un piccolo taglio vicino alla spalla. Nessuno lo sa, non voglio far preoccupare nessuno ma ora che si è infettato, non mi resta molto da vivere.>
<Ma ti possono curare.>
<Non voglio, ora arriva, la sento, mi tocca la caviglia e le sue dita scorrono su di me, è sulla mia gamba, il mio petto, mi manca il fiato.> Respirò in silenzio, era vivo, niente era successo. Decisi che sarebbe stato meglio farlo riposare, mi avvicinai per prendere la pistola e portarla lontano da lui quando lo udì. Fu un rantolo sinistro, durò solo qualche secondo e da quel momento fui terrorizzato.
Mi sedetti ai piedi del letto, non avevo bisogno di controllare il suo stato vitale, quel rantolo era lo stesso suono che emettevano i soldati che venivano colpiti in testa. Lo stesso suono che emette il cavallo nel momento in cui viene soppresso. Pensai di tornare a casa ma qualcosa, toccando le mie caviglie, mi fece intuire che non avrei cambiato ciò che aspettava me. Avevo vissuto un secolo, avevo visto tanta morte ma anche tantissime stelle, tantissimi mari, tantissime foreste e tantissime persone. Avevo visto tutto ciò che desideravo vedere e l'idea di sedermi sulla poltrona che stava all'ingresso della stanza e di lasciarmi morire mi piacque sempre più.
Arrivai alla poltrona, ero stanco, troppo stanco per un tragitto così breve. Cominciai a sedermi, l'impresa era ardua, la mia schiena era dolorante. Chiusi gli occhi e aspettai nella consapevolezza che, se mi fossi tolto le scarpe per stare più comodo non avrei di certo cambiato la situazione. Dannate scarpe, sempre troppo strette.
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1 recensioni:
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- il finale cambia tutto... geniale, e originale!
- veramente bello piaciutissimo
- bello e particolare... sembra un testo teatrale!