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Il viaggio della conoscenza
Abbiamo deciso di andarci. Quest'estate se ne era parlato ma io avevo declinato, non mi sentivo pronta e tantomeno ero nello stato di affrontare un tema così delicato. Dopo un inverno che sembrava non passare mai e un'estate arrivata all'improvviso non mi volevo tuffare in un viaggio il cui scopo era quello di conoscere ciò che ci era stato detto in molti modi con diverse storie ma che mai era stato visibile e tangibile.
Rituffati nel freddo inverno e in previsione di una vacanza di mia iniziativa e poi di comune accordo ci siamo decisi a partire. Credo che non sarà uno dei soliti viaggi, no, qui dovrò soppesare tutte le implicazioni che ci possono essere al livello emotivo; non ci dovrò andare con uno spirito leggero, come se si andasse in un posto come tanti in visita perché questa è storia ma di quella che ha sconvolto, sradicato le più truci storie di battaglie in qualcosa di più accettabile e meno oscuro.
Qui la battaglia non c'è stata, qui è successo che un uomo è stato ridotto a un oggetto che non aveva né più né meno sostanza dello stesso; ridotti al niente, martoriati, saccheggiati nella loro dignità.
Mi sono sentita come chi andasse a violare una realtà, come chi non fosse degna di entrare perché il ricordo è cosa dura, l'afflizione può spettare solo a chi l'ha vissuta o da chi riporta la traccia indelebile tramandata... chi sono io per entrare in un luogo di sofferenza per me che la sofferenza non l'ho provata, sì posso come tutti abborrire, restare attonita ed incredula. Vedendo un film le lacrime possono scendere copiose ma poi tutto continua.
Ho pensato, allora che mi sarei fatta carico di un bagaglio superiore a quello a cui ero già stata preparata. Questo sarà per me il viaggio della conoscenza, che implicherà anche quella interiore.
Tutti nel ricordare la Shoà, ci rendiamo effettivamente conto che è successo relativamente in un tempo non troppo lontano dal nostro. E per ciò si inorridisce anche di più. Fosse successo mille anni fa ci saremmo trovati meno esposti a quest'evento abominevole. Come si può a distanza di quarant'anni pensare che si siano potuti compiere dei crimini così ben studiati e non ostracizzati. Un clamoroso vilipendio ai danni dell'intera umanità. Perché il carnefice era sostenuto da altrettanti carnefici che se non erano i mandanti diretti erano tuttavia i consacratori di un regime senza più nessuna remore, pudore, umanità. Per le vittime che non erano preparate sarà stata una sorta di Armagheddon anticipata.
Ho letto e riletto come hanno preso il potere con una mano che incedeva sulla terra come un ombra assassina. Dapprima facendosi concedere l'appoggio di qualche parlamentare non lungimirante, che al momento giusto veniva destituito e nominato al suo posto un legislatore senza scrupoli che seguiva i diretti comandi maggiori di esaltati razzisti. Prima c'erano leggi su carta che impedivano il normale svolgimento di una vita quotidiana, restrizioni che non permettevano di andare ad occupare posti spettanti alla razza ariana. Venivano costretti a svendere le loro attività commerciali, a non sostare in zone pubbliche riservate alla razza pura. A portare sul petto una stella che simboleggiava la loro subordinazione e la loro inferiorità. Si non c'era ragione di restare, era stato fatto per scoraggiarli a restare e prendere "il largo". Ma l'emigrazione di ebrei non era massiccia, qualcuno, pochi decidevano di andarsene. Affezionati alle loro case, ai loro quartieri. Mai si sarebbero aspettati un trattamento che non si destina neanche al peggior criminale. Dal giorno alla notte vennero massacrati, uccisi deliberatamente o spediti con viaggio di sola andata ai campi della morte. Quella che comunemente viene definita come la "Notte dei Cristalli" è la dichiarazione più virulenta di odio. Ebrei uccisi, ebrei deportati altri trattenuti dalle autorità in custodia cautelare. Tutte le sinagoghe e i luoghi di culto violati e distrutti.
Quando si è avuta la diffusione di informazioni certe sulla loro sorte; o per tempo si sono dati alla fuga, prima che scoppiasse l'ira feroce; o si sono inseriti in quel circuito che li rendeva invisibili agli occhi degli assalitori.
Nascosti all'ombra degli altri che proseguivano nella vita; loro rimasero fermi, attoniti, inermi di fronte allo stravolgimento delle loro esistenze, insomma si scatenò l'inferno.
Da qui inizia il viaggio, durato solo qualche manciata di giorni.
Siamo arrivati il lunedì mattina con un volo preso alle sei. Il cielo era ancora buio, l'areo ha iniziato la sua ascesa dopo un decollo tempestivo.
Abbiamo oltrepassato lo strato di nuvole mentre si iniziava a profilare la luce mattutina. Sotto di noi negli spazi liberi tra un passaggio di massa vaporosa e l'altra la notte oscurava le strade, si distinguevano le luci e la calma si riusciva quasi a cogliere come un frutto maturo.
Alzandoci di quota, dalla striscia netta dell'orizzonte giungeva la prima schiarita, ancora intiepidita dalla notte incombente, in un punto il chiarore si stava facendo più luminoso: lì dove il sole avrebbe fatto la sua comparsa. Ho aspettato che facesse capolino, il primo spicchio, non volevo perdermi la sua venuta, bagnarmi nel suo territorio, come un battesimo di sangue, vederlo mentre si arrampica su una corda immaginaria, vederlo senza perderlo di vista finché non si fosse completato, diventando un disco perfetto. Il bagliore dei suoi raggi ha delineato una linea rosa, netta poi un attimo dopo, una volta raggiunto il punto di rottura la luce di un bagliore accecante mi ha cacciato via lo sguardo e ne é venuto fuori un cielo celeste. Appena pochi istanti dopo era già nel pieno della sua vitalità, la prima timidezza scomparsa, adesso invadeva il cielo dandogli forma e spazio.
Abbassandoci di quota il territorio straniero sottostante iniziava a farsi strada, la neve occupava grandi porzioni. Scesi, ci siamo incamminati per prendere il bagaglio. Io ero l'ultima, ho dovuto attraversare ed andare dal lato opposto del nastro trasportatore, dove era rimasto bloccato dopo che ne era stato arrestato il movimento. Subito prima di accostarmici mi arriva alle spalle un uomo della sicurezza che allarmato mi dice parole straniere, chiaramente mi induceva a sbrigarmi con un tono per niente cordiale. Io in tutta fretta, stordita, l'ho preso e sono uscita. Ad attenderci c'era l'autista che con pochi soldi ci ha accompagnato sotto il palazzo, dove c'era la ragazza che ci aspettava e con cui avevamo precedentemente comunicato per le disposizioni. Ci ha accompagnato lei all'appartamento.
L'edificio si sviluppa su più piani, ci sono delle vie di accesso con porte che vanno aperte e richiuse al nostro passaggio. Il portone d'ingresso, è l'unico che resta aperto fino alle dieci di sera. Attraversate due ampie scalinate in pietra, da una porticina in legno laterale si accede a un vecchio terrazzo che gira sui due lati. Composto da una balaustra che cade nel vuoto, uno stretto passaggio ti porta di nuovo all'interno. Aprendo un'altra vecchia porticina a vetrata, si arriva al nostro pianerottolo. Il legno domina, si vede chiaramente che si stanno effettuando dei lavori di smantellamento. È un materiale che è stato lavorato con cura per restituirgli compattezza, solidità, ma è anche levigato e profondamente caldo. Il palazzo, è una costruzione datata, che sta facendo spazio alle nuove esigenze: modernità, intraprendenza. È una città in tumulto, si nota subito e a me da subito mi viene alla mente il bagaglio di storia che pesa sulle spalle di questo e di altrettanti palazzi di Cracovia, quanta gente, famiglie sono passate per di qua, quante vi hanno dimorato; quanti hanno calpestato il legno che riveste il pavimento su cui noi adesso camminiamo: le rampe di scale annerite che portano la traccia indelebile di una vita vissuta, il corrimano: quante mani lo hanno percorso. Quante vite, giri di vite sono passati di qui: troppe, e tutto questo purtroppo viene perso, è inevitabile, lo so, ma fa tristezza. I passi che compio con la mente trovandomi a contatto con la realtà di adesso che miracolosamente viene a occupare percorsi vecchi, mediante l'oggetto che né rievoca la memoria, è recuperabile oggi, ma una volta andati persi, mi domando quel passato che fine farà?? Alzo la testa e vedo i piani superiori risistemati: il legno rimpiazzato con il freddo metallo.
Entriamo nell'appartamento: bello, ben arredato, con una cucina, un bagno con dei mobili acquistati in qualche bel mobilificio, ricorre la marca ikea nelle stoviglie.
Sappiamo da G, la ragazza, che la fabbrica di Schindler cui noi eravamo intenzionati ad andare, il lunedì si visita senza pagare e avendo tutta la giornata a disposizione ne approfittiamo.
Per spostarsi agevolmente all'interno della città conviene prendere il tram, ti porta ovunque. Scendiamo dove c'è una grande piazza, con delle sedie in ferro incardinate. Monumento che commemora i sessanta mila ebrei caduti di Cracovia. La piazza faceva parte del ghetto ebraico.
Attraversando la strada, facendo una passeggiata di circa un quarto d'ora si arriva alla fabbrica. È ancora riconoscibile l'entrata con un cancellone in ferro ed un porticato bianco. Della fabbrica non è rimasto niente, è stata subito riutilizzata dopo l'abbandono degli operai e del proprietario, un grand'uomo che ha rivestito un ruolo di primaria importanza per la salvezza di più di mille ebrei.
I suoi resti riposano nel cimitero di Israele.
Il museo è impostato in maniera tale da fare capire al visitatore, attraverso un excursus, le diverse fasi che si susseguirono: partendo da una Cracovia, prosperosa, prima della guerra, alcune foto lo testimoniano; all'inizio di un declino graduale fino alla persecuzione degli ebrei e all'aiuto che ricevettero da parte di Schindler, con la fabbrica che restituì loro la vita, a chi aveva ormai un destino segnato, o così sembrava. Per la maggior parte non accadde lo stesso.
Ci sono stanze che richiamano attraverso immagini e spiegazioni, la vita degli abitanti. Conservati anche i simboli del nazismo: le divise delle SS, il cappello con il teschio, gli stendardi raffigurati su due bandiere poste su un area di passaggio, sfalsate, che si completano, evocando la brutalità, l'immoralità sotto cui vennero compiute stragi.
Contrapposte allo sguardo bonario di un impresario, mentre stringe le briglie di un cavallo, o si riunisce con capi ebrei; che voleva guadagnare soldi facili mettendo su una fabbrica di pentolame in tempi difficili e si ritrovò invece a comprare ebrei, a prosciugare la sua rendita, fino a diventare povero, al pari di un suo operaio, della sua stessa statura. Fuggendo nottetempo, dopo la liberazione, come un criminale perché appartenente a quella spietata classe di uomini cui il potere era stato finalmente tolto. Solo, lui e la moglie, anche lei impegnata in questa operazione. Vedendo il film, che narra la storia, si riesce ad intuire il suo carisma, la sua tenacia nell'affrontare la questione non più solo come spettatore passivo, ma come portatore di pace per molti ebrei. Gli ebrei di Schindler, come vengono definiti, e come amano essi stessi definirsi, che devono a lui la vita. Il film va assolutamente visto. Ti coinvolge e mette in risalto senza aver paura di osare. Raccontando senza mezze misure. Lui e il suo iniziale proposito di fare denaro, diventare più ricco di quanto non lo fosse già. Trovare delle persone disposte a finanziarlo, in un progetto folle, che fa leva sulla perspicacia di un uomo.
Amante della bella vita, delle belle donne, tradisce in continuazione la moglie, che poi lo aiuterà e lo sosterrà.
Quando i suoi operai rischiano di finire nei campi lui lì riprende ad uno ad uno, pagandoli. Riuscirà nel suo intento grazie agli stretti rapporti che manterrà con i capi influenti del partito nazista, ingraziandoseli con doni.
Soprattutto con uno di essi, il generale Amon Goth, che ha sulla coscienza migliaia di ebrei, fu lui a ordinare il rastrellamento del ghetto. Dove erano stati trasferiti in massa, più di tre famiglie occupavano singoli appartamenti.
In quella giornata uccisero e deportarono senza più controllo migliaia di civili ebrei.
Molti vennero uccisi, altri deportati nel campo di Plaszow a capo del quale stava il generale Amon Goth.
Gli ebrei della fabbrica, coinvolti anche loro nella retata, vennero restituiti, attraverso un'opera di convincimento da parte di Oskar Schindler, adducendo, come prova, per non destare sospetti la necessità di riaverli per scopi di interesse redditizio.
Schindler invece, li protesse, dando loro la possibilità di vivere all'interno delle mura della fabbrica, in dormitori non troppo distanti dal luogo di lavoro. Ciò che resta del muro, che separava il ghetto dal resto della città, è riportato a noi, sgretolato come ghiaia, in tanti piccolissimi frammenti. Era stato eretto servendosi delle tombe di un vicino cimitero ebraico. Nel museo, inoltre, sono conservate in una grande vetrina stipate l'una sull'altra le pentole che erano state realizzate dalle numerosa compagine, riunita nella buona sorta, come questi utensili, sopravvissuti a distanza di anni. In una teca, libri che furono bruciati appartenenti alla cultura millenaria ebrea. Rimangono aperti come farfalle a cui è stato tolto il dono di volare, scatto una foto: Claudio osserva a capo chino sullo sfondo loro come tanti piccoli e decidui resti.
Volevamo individuare il punto in cui sorgeva l'area del campo di Plaszow o di quello che ne resta. È situato dietro una serie di palazzine e un Mc donald's. Dove finisce il quartiere cittadino e ne inizia un altro, lì in quel vuoto temporale si stendono ettari di terra solcati da sentieri e stradine in terra battuta, coperti di neve. Ci viene segnalato da un cartello l'entrata, perché altrimenti non si sarebbe potuto capire, è una terra desolata, non né rimane quasi niente. Nel punto più alto dove una depressione del terreno forma una grande conca si erge un monumento imponente: scolpiti nella pietra, dei corpi stilizzati, piegati, la testa china guarda in basso. I tratti induriti dei volti mostrano sofferenza, rassegnazione. Sotto di noi l'autostrada, un insegna di una marca ben nota si affaccia senza ritegno. La zona è lasciata all'abbandono, viene utilizzata per la passeggiata di cani e padroni. Ne incontriamo un paio. Ma non c'è nessun'altro. Ripercorsa la stradina a ritroso arriviamo a costeggiare un burrone. L'aria che si respira è pregna di quel non senso, porta dietro una fredda consapevolezza che si intuisce. Allungando lo sguardo nel crepaccio, in lontananza rimangono dei resti: due torrette, una casa a ridosso, - quella del generale Amon Goth - che si distingue appena. E tutto intorno l'orrore che ne riporta: infido, beffardo, crudele, per chi l'ha subito. Dei rovi ricoperti di bacche rosse colpiscono la mia attenzione, sembra che vogliano richiamare con quel colore intenso il sangue che è scorso, fiumi di porpora il cui ricordo è impresso per sempre nella terra che ha conosciuto, ha deposto. Si, perché è un immenso luogo dove migliaia di corpi hanno perito.
Ci avviamo presto alla stazione centrale. Il treno che parte per Auschwitz è quello delle sette. Due ore di tragitto, passiamo per i centri urbani e in mezzo a campi, sterpaglia secca che spunta dalla neve, boschetti di giunchi: alberi rinsecchiti che hanno braccia esili, slanciate, rigide: li tagliamo in due e ci ritroviamo a percorrerli come se fossimo degli individui vaganti, che si lasciano trasportare mentre una scia rimane e ci allontana.
Il treno dopo la seconda fermata si svuota, e noi troviamo posto a sedere.
Il sonno è latente ma cerco di restare sveglia, giusto il tempo di riposare gli occhi per qualche istante.
Arrivati ci rendiamo conto che il freddo è di qualche linea più bassa, ma tutto sommato siamo stati fortunati. La neve, fiocchi piccoli, cadono nella notte per posarsi a terra, pigramente, non ci sono state e non ci saranno per i giorni a seguire bufere e gelo insidioso. Si resiste, coprendosi per bene. Oggi poi qualche raggio si è scorto, ha travalicato le nubi che non trasportavano pioggia.
Auschwitz è una cittadina, credevo si trovasse solo il campo, che non ci fosse null'altro che lui. Invadente, scomodo per molti versi. Chi ci abita forse non lo nota neanche più, ci si arriva percorrendo una strada provinciale con dei marciapiedi su ambo i lati. Di fronte la fermata. Case, palazzine basse, un edificio con una insegna: fast food si trova proprio di fronte allo spiazzo per il parcheggio di pullman organizzati e taxi; c'è anche una navetta gratuita che porta a Birkenau che noi prenderemo poi.
Qui come è giusto che sia l'entrata è libera, non si poteva lucrare su tutto questo. Prendiamo una mappa per orientarci, una donna ci dà delle indicazioni.
Sulla strada principale, prima dell'ingresso vero e proprio si vedono una fila di costruzioni: principalmente garage, un capannone dove si svolgevano gli atti amministrativi e sede del comando generale. La scritta "il lavoro rende l'uomo libero" è lì ad attenderci. Cerco di inquadrarla per immortalarla nel mio scatto. Cerco di fare foto là dove me la sento. Dentro i blocchi tra l'altro non è permesso. Dai filmati storici che mi sono passati "tra le mani" non avevo mai fissato la struttura di questo campo. Non sapevo degli edifici alti in mattoni, pensavo fossero solo baracche. Entriamo nel primo, si vedono numerose foto. In questa parte ci troviamo d'innanzi a documentazioni, le camere svuotate sono state rimpiazzate con scene di deportazioni, impiccagioni, corpi martoriati dai soprusi, dal gelo. Sono rimasta colpita da un passaggio del libro "Se questo è un uomo", parafrasando, pressappoco dice che si pensava che non sarebbe mai più arrivato, il gelo, che mieteva molte vittime, perché nelle condizioni estreme a cui erano sottoposti l'inverno era un altro tiranno, che si portava via molti di loro. I morti fioccavano come la neve che scendeva impietosamente, in quelle strade che si ghiacciavano, quei vestiti fradici, congelati che era come non averceli, per molti neanche i calzini per coprirsi i piedi che si intirizzivano. Vecchie lenzuola cenciose dove si annidavano pidocchi, dove malati erano lasciati marcire o ai quali era data una dose di veleno che bloccava loro il cuore. Prima i lager erano stati aperti per far lavorare senza uno scopo ma solo per il solo piacere di vessarli, rieducarli; trasportavano pietre da una parte all'altra da mattina a sera. Poi potendone trarre vantaggio vennero usati per uno sfruttamento di lavori nell'armamento bellico o in diverse mansioni. Seguitando ogni volta che si percorre la "navata centrale" dei blocchi, si entra in un mosaico infinito di nomi, sguardi, facce, (racchiusi in piccole cornici). Molti volti sembrano mostrare ancora la speranza, l'ingenuità, altri sembrano già abbracciare la morte: visi stanchi, emaciati; quasi sempre in questi casi si legge la data di scomparsa che risale a pochi giorni dopo l'arrivo. Infatti su tutte le fotografie è riportato data di arrivo e decesso. Resistevano massimo un anno. Ricorrono anche dei volti nel pieno della giovinezza, ragazze che forse avevano conosciuto da poco l'amore, le emozioni che si provano: meravigliose, ammiccanti. In uno dei numerosi blocchi che paralleli formano delle lunghe file, sono raccolti gli oggetti appartenenti alle persone, milioni di persone: centinaia e centinaia di scarpe, centinaia e centinaia di valigie, centinaia e centinaia di capelli; e pensare che è solo una piccola parte, non si riesce ad immaginare quante vittime siano state fatte, o meglio il numero lo si conosce, ma quanti sono effettivamente, in quanti palazzi si possono contenere, in quante case che non esistono più. Quando ti trovi di fronte a tutto ciò non riesci a vedere solo l'orrore, ma ti imponi ti vedere anche le gioie nella vita che li ha abbandonati. E allora quella scarpa rossa aperta sul davanti, la vedi ancora indossata ai piedi, camminare per le strade. È elegante, femminile, andrebbe bene anche ai giorni nostri. Quando l'ha comprata?, nel vanto di un giorno imprecisato, quando la normalità era cosa scontata, quando tutto scorreva con piccoli e fugaci momenti. E si voleva anche essere desiderabili.
Dietro una vetrata ammonticchiate altre scarpe, stavolta piccole, troppo piccole, qui non puoi far altro che restare ammutolita.
Mi riprendo, e proseguiamo, delimitato dalle pareti dei palazzi ai due lati, (dove le finestre sono oscurate con dei basculanti per non permettere di vedere a chi era dentro) , sorge la piazza dove si veniva giustiziati. È il segmento di un muro. Lì con un colpo a bruciapelo e si moriva. Dei fiori freschi né ricordano la tragicità.
Più avanti vicino al perimetro delimitato dal filo spinato, sempre uguale, con i pilastri in cemento armato che ne fissano le estremità, si trova il blocco delle prigioni. La natura dei capi d'accusa poteva variare. Da chi aveva avuto un comportamento ambiguo o ribelle, a quelli che pianificavano la fuga, o si adoperavano per proteggere i più deboli; ma potevano anche non avere alcun fondamento. Esisteva un tribunale interno della Gestapo: su un lungo tavolo si decideva la sorte dei prigionieri. Si può immaginare, e ce ne sono anche le prove degli atti, che chiunque finiva lì veniva ammazzato dopo ripetute vessazioni e maltrattamenti.
I bagni, una lunga fila di lavandini, gabinetti, la sporcizia è stata assorbita. Sono neri. Scendendo ci sono le celle, in alcune si trovano dei graffiti, i più importanti perché se ne distingue la rappresentazione sono protetti da un vetro. Altre camere di detenzione erano chiuse e strette a tal punto da non poter stare in piedi, una di queste è ancora integra, nelle altre spaccate si vede in che razza di posto dovevano dormire, dopo aver svolto i lavori durante la giornata.
Entriamo in una ex camera a gas e un ex forno crematorio adiacente è uno dei pochi che rimangono in piedi. A precederci c'è una famiglia con una bambina piccola che fa domande alla madre. Il nero delle pareti predomina, un grido, tante grida riecheggiano.
Ci spostiamo dirigendoci a Birkenau, campo prolungamento di Auschwitz, infatti veniva anche chiamato Auschwitz due. È stato utilizzato in una seconda fase. Era il campo della morte per eccellenza. Inizialmente fu concepito come campo per prigionieri russi. Successivamente qui venne attuato in maniera massiccia il piano noto col nome di soluzione finale della questione ebraica. Poco prima di entrare si vedono le rotaie, che finiscono dritti nella bocca del diavolo. Il treno proseguiva la sua corsa fino ad arrivare in fondo al campo. A quella che era la zona di smistamento. Da una parte gli uomini dall'altra donne e bambini. Qui risiede anche il monumento commemorativo, con lapidi messe a terra.
Un mazzo di rose fresche variopinte con dei sassi su cui sono impresse delle frasi, sono poste dove il treno finiva la sua avanzata, ci si trova alla sua altezza arrivando distintamente a distinguere, rimpicciolita, come fosse un plastico, qualcosa di irreale, il portone d'entrata.
È qui che si trovano le macerie delle fornaci, con le annesse camere a gas.
Sono accartocciate, su se stesse, raccapriccianti, si contorcono come fossero serpi dalla lingua schiacciata. Non potranno più fare del male.
L'azione distruttiva è stata voluta dalle SS per nascondere i crimini commessi; ma prima di mettere le cariche esplosive si erano sbarazzati di quante più ebrei potevano. Qui i numeri sono davvero alti.
Questa prigione coatta era anche peggio di Auschwitz a quanto pare. Si soffriva come cani a cui si nega il cibo, l'assistenza medica, si portava l'uomo ad uno stato vegetativo. Molti non capivano neanche più il dolore talmente era troppo: offuscava la mente.
Facciamo una lunga camminata, tra le macerie di un'altra camera a gas e delle costruzioni basse e circolari di vaste dimensioni come silos, che raccoglievano i suppellettili e gli oggetti che venivano sequestrati all'arrivo.
Compiamo un'ampia curva per trovarci di fronte all'edificio dove spogliati i prigionieri dovevano indossare le divise.
Degli alberi ricoprono l'appezzamento circostante, in uno spiazzale la gente veniva uccisa in gruppi, delle foto fanno vedere delle donne nude assieme ad altri che aspettavano la morte. In mezzo alla neve e al freddo che non era più una loro preoccupazione.
Un ticchettio forte ci giunge alle orecchie, sollevo la testa e non capisco finché Claudio non mi indica un picchio. Qui cresce vita, altri volatili si servono di quei cerchi perfetti per abitare le cavità dei tronchi.
È la prima volta da quando siamo qui che sorrido, mi dà un senso di continuità, in questi luoghi marchiati a fuoco dalla morte. Vuol dire che c'è, esiste una rinascita anche dove non pare possibile. A pochi metri dal confine tra l'altro ci sono case, abitate, trovo meglio sia così, che ci sia intorno qualcosa: La vita, la sua prosecuzione. Un'altra divagazione ce l'abbiamo alla vista di tre cerbiatti, appena si accorgono di noi si danno alla fuga. Occupano quella parte di terreno dove ci sarebbe dovuto essere un ampliamento del campo ed invece è demarcata la fine di una furia che ha cessato di esistere.
Visitiamo le baracche: grossi capannoni in legno. Erano destinati agli uomini. Ci sono letti a castello e una caldaia centrale che veniva alimentata a combustibile fossile. Quasi tutti sono crollati ed è rimasto in piedi solo la canna fumaria, tanti piccoli relitti che si perdono a vista d'occhio. Il settore femminile, lo visitiamo per ultimo. I dormitori sono costruzioni in mattoni, non ci si entra.
La luce sta calando, filtrano i raggi. È il momento che precede la quiete, le ombre si impadroniscono di tutto.
Anche nel luogo dove venivano fatti esperimenti umani. Ci stavo passando sopra, non capendo se fosse un vialetto o cos'altro perché terminava subito. Più in là una targa mi mette al corrente di cosa sia effettivamente. Era il perimetro che ospitava il laboratorio degli orrori, dove si effettuavano dei test su cavie umane soprattutto bambini gemelli.
L'eugenetica messa in pratica da Joseph Mengele, soprannominato, "l'arcangelo del male". Dopo che aveva massacrato e invito a tutti di approfondire questo tema, è riuscito a espatriare non avendo neanche la giusta fine. Ma se c'è un Dio, probabilmente starà scontando la sua pena. Lo spero.
Usciamo con un peso al cuore, riguardo dall'esterno il campo quel filo spinato una luce colpisce i cespugli e le pozzanghere a terra, non parliamo, non diciamo niente, il silenzio si impadronisce dei nostri pensieri.
P. S
È doveroso toccare tutto questo con mano, si riesce meglio a capire. Per chi crede che sia meglio non vedere l'orrore io suggerisco che sia necessario perché se gli stessi ebrei hanno voluto che tutto questo restasse in piedi allora vuol dire che dovremmo imporci con un piccolo sforzo a commemorare la memoria anche andando sul posto, perché non si ripeta, e non dovremmo un giorno essere noi ad occultarla ma ad abiurare insieme in un'unica voce la violenza, la crudeltà a cui non si dovrà più arrivare.
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