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Mery Jane
Mery Jane amava la pioggia.
Era stata una di quelle bambine a cui la vita insegna subito la differenza fra chi chiude gli occhi per dormire, e chi li chiude per poi non aprirli più. Sapeva anche che il genitore non era sempre il buono, che per chi alza le mani le scuse valgono ben poco, e che se ti dicono che mamma è partita per un viaggio molto lungo probabilmente stai facendo compassione a qualcuno.
Ma non importa, questa è un'altra storia, perché Mery Jane, assieme alla sfortuna di esser nata in un campo di battaglia, portava con se la consapevolezza di poter affrontare tutto. La sconfitta non era concepita, le lacrime facili considerate un insulto alle corazze come lei.
Così, se la guardavate fra i banchi di scuola, potevate ammirare una ragazza dai lunghi capelli rossi con l'espressione fiera di una leonessa. Se non coglievi il marchio della vittoria, quella scintilla invisibile nascosta fra le ciglia, una ragazza mediamente felice che stava crescendo. Una ragazza come tante, quindi.
Ma Mery Jane non lo era affatto, perché il suo punto debole la rendeva speciale.
Quando grossi lampi argentati squarciavano il cielo plumbeo, mentre copiose gocce bagnavano l'asfalto e il vento scuoteva le chiome degli alberi, nulla poteva scostare Mary Jane dalla finestra. Se l'incontravate per strada e le offrivate un ombrello, vi avrebbe risposto che di fronte a tutta quella grandezza, un misero ombrello non avrebbe potuto far altro che volar via come una foglia secca.
Un pomeriggio d'autunno si trovava in un parco vicino casa. Portava a spasso Pippo, il suo cucciolo di dalmata. Quelli erano i momenti che più amava della giornata, quando il crepuscolo dipingeva tutto di rosso e arancio, l'aria si faceva più fresca e Pippo la deliziava con le più mere dimostrazioni di affetto e innocenza.
Sciolse il guinzaglio, gli fece due coccole sul muso e, dopo avergliela mostrata per bene, gli lanciò la pallina da tennis. Non calibrò bene la forza, e la pallina sfrecciò oltre lo scivolo e le altalene, andando a perdersi fra i cespugli. Ma questi non sono certo problemi che un animale si pone. Mery Jane ridacchiò, osservando il cucciolo salterellare al pari di un cerbiatto, alla ricerca del suo tesoro.
Poi, improvvisamente, si alzò un forte vento. I pali della luce presero a traballare, un cestino si rovesciò causando un tornado di cartacce. Le madri richiamarono i bambini mentre i passanti affrettarono il passo. Ben presto, parve calata la notte, e nello spiazzo d'erba rimase solo Mery Jane. Quando le prime goccioline le accarezzarono le guance, alzò la testa al cielo e chiuse gli occhi. Riusciva a percepire chiaramente un formicolio sottopelle, il movimento rabbioso delle nuvole oltre le palpebre e una forte energia scuoterle le ossa a ogni tuono.
Le goccioline divennero torride, ma a Mery Jane non importava. Si sentiva finalmente ciò che realmente era, ciò che noi tutti siamo. Piccola.
Le emozioni si annullavano e tutto poteva aspettare, per una volta non si doveva far altro che ascoltare in silenzio, senza dover per forza pensare a qualcosa. Lasciarsi trasportare dalla meraviglia della potenza di una Terra arrabbiata.
-Ehi, tu!-
Mery Jane si voltò di scatto, sinceramente sorpresa. Quella voce era riuscita a ridestarla, vincendo il canto del vento.
-Ti prenderai un raffreddore- continuò. Si trattava di un ragazzo dai capelli neri. Era seduto su una panchina poco lontano, e poggiava i gomiti sulle ginocchia fumando pacificamente una sigaretta. La testa lasciata a ciondoloni. Indossava una maglietta a maniche corte altrettanto nera, e un paio di jeans strappati sul ginocchio.
Mery Jane si avvicinò, attratta dal quel ragazzo dall'espressione indifferente.
-Nemmeno tu sei coperto- disse lei, cercando di cogliere cosa si nascondesse dietro quelle ciglia folte.
Lui sollevò la testa, la inclinò e sfoggiò un sorrisino storto. -Che importa.-
Si sedette in parte a lui, e assieme osservarono il temporale a lungo.
-Si sta facendo tardi, ti staranno aspettando- disse lui. Mery Jane lo osservò con la coda dell'occhio. Le braccia pallide e muscolose erano ricoperte di lividi, alcuni vecchi, altri in via di guarigione, mentre profondi solchi gli contornavano gli occhi scuri.
-Nonna sa che non mi piacciono gli orari, quindi non ho fretta. Tu, piuttosto, non c'è nessuno a casa ad aspettarti, vero?-
Il ragazzo alzò la testa e la guardò sorpreso. Poi, sorrise. -Non sei molto gentile.-
-So riconoscere chi cerca conforto sotto la pioggia.-
Rimasero in silenzio. Pippo corse a ripararsi sotto la panchina.
- Mi chiamo Peter.-
-Mary Jane.-
Peter aveva diciassette anni, frequentava la terza superiore perché era già stato bocciato una volta, e temeva di perdere nuovamente l'anno. Lavorava come aiuto meccanico quasi ogni pomeriggio ma sognava di fare l'astronomo.
-Parli come se il tuo sogno fosse irrealizzabile.-
Allora Peter ridacchiò e scosse la testa. -Certo che sei strana, tu.-
Ma Mery Jane continuava a guardarlo seriamente, come se gli stesse leggendo l'anima. Nel frattempo, piccoli fiumiciattoli avevano preso il posto del sentiero in terra battuta ed entrambi faticavano a tenere gli occhi aperti.
Mery Jane emise un profondo sospiro, ed alzò nuovamente la testa al cielo, come se stesse per fare un'importante giuramento: - Ascoltami, Peter. Qui, nella realtà, è più dura. Non ci sono seconde possibilità. I sentimenti e le emozioni sono più crudeli, vive, indisciplinate. La mera determinazione non esiste, c'è sempre l'un per cento di dubbio e se non ce l'hai, te lo fanno venire, la sicurezza è un'illusione. Il coraggio sfuggevole. Brancoliamo tutti nel buio, senza sapere ne dove andiamo ne il perché. Vince chi è in pace con se stesso, ma le condizioni non sono mai favorevoli. Potremmo riempire un oceano con lacrime che versiamo.-
Peter si era lasciato sfuggire la sigaretta dalle mani e man mano che Mery Jane parlava lui si voltata sempre più dalla sua parte e la consapevolezza che quelle fossero lacrime e non pioggia si consolidava nella ragazza.
-Perché, perché mi dici tutto questo?- gridò.
Lei rimase impassibile. -Perché per tutto questo tempo mi hai parlato con tono rassegnato e sconfitto, come se raccontassi una triste storia ormai conclusa.-
Lui si guardò attorno, come se cercasse le risposte fra i rami degli alberi. -E allora... allora, lasciarsi andare è giusto. Se qui non c'è niente di sensato... noi...-
Stavolta fu il turno di Mery Jane di spalancare la bocca. Si alzò in piedi e aprì le braccia come un grande uccello.
-Lasciarsi andare? Niente di sensato? Come puoi dire questo?- Fece un giro su se stessa. -Osserva la potenza del cielo! Come fai a credere che basti lasciarsi andare per fregare l'Universo? Credi che qualcosa di così immenso e perfetto possa lasciarti andare così? La vita... salda sempre i suoi conti. Sempre, e se non in questa, nella prossima. Non si può scappare. Ma puoi sempre pensare, che se un fiore, così piccolo e fragile può resistere al freddo gelido dell'inverno o sbocciare fra le crepe dell'asfalto, noi siamo invincibili! Osserva i meccanismi di questo mondo, Peter, così impeccabili ed autonomi. Come puoi credere... che esista il caso?"
Mery Jane si sentì svuotata, non aveva mai detto niente del genere a nessuno. Eppure aveva sentito l'irrefrenabile bisogno di aprire gli occhi a quel ragazzo, così cocciuto e pieno di sofferenza. Gridargli che nessuno nasceva per lasciarsi andare.
Peter era un concentrato di immobilità assoluta e inespressività. Mery Jane lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Non si era nemmeno accorta di stare piangendo, così come nessuno dei due si era accorto che aveva smesso di piovere.
D'un tratto, le nuvole era già lontane, e il crepuscolo, prossimo all'arrivederci, regalò gli ultimi raggi di luce al parco.
-Il sole tornerà, giusto?- chiese Peter con un filo di voce.
-Certo. Ma anche la pioggia.-
-Ma il Sole, tornerà sempre.- Mery Jane sorrise di fronte alla domanda tramutatasi in affermazione.
Peter sfilò una lettera dalla tasca, la gettò a terra e, alzandosi, attirò Mery Jane a se, stringendola in un abbraccio. Le diede un bacio sulla fronte.
-Sei un angelo.-
E corse via.
Mery Jane rimase imbambolata un pochino, finché non si chinò a raccogliere la lettera. Una semplice busta bianca con all'interno un bigliettino stropicciato. La calligrafia confusa e calcata.
Era una lettera d'addio. Alla madre, e a una certa Sara. Al centro, un "vi voglio bene", e in basso, il "perdonatemi".
Oh, Peter. Come se il perdono curasse i cuori infranti.
Mery Jane lasciò al vento il compito di custodire quella lettera, e di portare lontano il frutto del tormento. Poi, riagganciò il guinzaglio a Pippo.
-Ti spetta una bella ripulita!- cominciò a correre verso casa e scoppiò a ridere.
Senza riuscire a smettere.
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- Bravissima, è vero, c'è più di qualche incertezza nel tuo racconto, devi rileggere più volte prima di pubblicare, ma c'è ritmo nel tuo raccontare, e questa è la cosa più importante.
Sei giovanissima a quanto pare, ragione in più per darci dentro con lo scrivere se davvero ti piace. Complimenti e saluti
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