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A 13 anni soldato
Oggi è il primo giugno del duemilaotto, sono con mia madre, al calduccio fra le sue braccia rovinate da trent' anni di lavoro nei campi di grano; oggi è il mio compleanno.
Dodici anni fa nacqui a Naypyidaw, la capitale di Myanmar, con il nome di Kirikù, avevo undici anni quando il due Maggio si è abbattuto su di noi il Ciclone Nargis che ha spazzato via la mia baracca, mio padre, i miei migliori amici e la mia sorellina ancora in fasce.
Da quel funesto giorno mia madre non è più in sé, delira, urla, piange e si scortica il viso con le sue lunghe unghia che un tempo erano sempre pulite e curate; ma oggi sembra che si sia calmata, mi stringe a se, mi molla un bacio umido sulla mia guancia sudata e poi mi sussurra, quasi cantilenando, che da domani sarei dovuto andare a lavorare nella casa di un ricco signorotto in periferia, come domestico, perché non abbiamo più soldi e se non paghiamo l'affitto del magazzino del pesce in cui viviamo, ci cacceranno via.
Cerco di opporre resistenza ma ho sempre saputo che non avrebbe mollato, allora non discuto oltre, perché prevedo che mi arriverà un ceffone.
Mi sveglio al sorgere del sole, mi siedo sul mio pagliericcio umido e mi lavo la faccia con dell'acqua che mia madre era andata a prelevare nel pozzo in centro; mi vesto e poi esco, trovo mia madre sull'uscio mentre saluta il proprietario del magazzino, un'omone basso e tozzo.
Io e lei ci incamminiamo per le viuzze desolate che portano direttamente in un villaggio al centro di una foresta pluviale; nel nostro cammino abbiamo incontrato un imponente albero del mango, con i frutti dolci e succosi e ne abbiamo prelevato qualcuno per il nostro piccolo viaggio.
Dopo un'ora piena di cammino finalmente siamo arrivati alla casa del mio futuro padrone, una piccola struttura di tre piani cementata e rozza, ma si può considerare una residenza per ricchi dalle nostre parti.
Non c'erano porte, solo una specie di tenda fatta di foglie di banano, mia madre si avvicina e chiama a gran voce il proprietario della villetta, che esce barcollando perché evidentemente ha sperperato tutti i soldi in alcolici; dalla sua espressione ci pare a dir poco adirato, ci da un'occhiata veloce, dall'alto in basso, si gira e rientra.
Dopo qualche minuto viene verso di noi una bambina, con gli occhi spenti e pieni di dolore, mi afferra la mano e mi guida verso l'interno, senza nemmeno darmi il tempo di salutare mia madre. Se solo avessi saputo che non l'avrei più rivista...
Lei mi guida tra stanze e stanze piene di bambini che vanno dai sei ai sedici anni intenti nel loro lavoro domestico.
La mia accompagnatrice è una fanciulla di non più di centootto mesi, con le piccole mani deturpate da orrende cicatrici, non oso neanche chiederle come se le fosse procurate, perché sicuramente la risposta non mi piacerà, a patto che parli perché non ha spiccicato una lettera da quando mi ha gettato in contro al mio destino funesto.
Juny, il nome l'ho letto sulla sua logora camicetta, si ferma all'apice di una latrina, sporca e puzzolente, simile alle fosse organiche che si trovavano fuori dai baraccamenti, solo ricoperta di ruvido cemento.
C'è anche un'altra ragazzina lì con me, mentre Juny si era praticamente dileguata, piegata dalla stanchezza, con in mano uno straccio sporco era intenta a pulire un lato del bagno turco.
Appena si accorge di me mi saluta e mi dice che sarei dovuto essere "il suo compagno di pulizie"; mi passa uno straccetto bagnato e mi spinge ad aiutarla.
Mentre ero indaffarato nel mio scopo di purificare quel sudiciume lei mi rivela che si chiama Kim e che, come me era lì da poco; ogni tanto le getto un'occhiata mesta, piena di timidezza e noto che ha un viso bellissimo, gli occhi scuri e grandi, una piccola bocca che però quando sorride mostra tutti e trentadue i denti, i capelli neri, lisci e lunghi che appaiono morbidi come la seta e lucenti. Ha un corpo piccolo e minuto, ma proporzionato, dodici anni e anche suo padre è morto nel ciclone.
Credo che ci siano molte cose che ci legano, anche se è da appena mezz' ora che la conosco.
Siccome abbiamo finito di pulire il bagno andiamo a parlare con il "Buon Padrone" , così si fa chiamare, che ci assegna un altro lavoro: lavare i panni.
All'uscita però urto accidentalmente un grande vaso di ceramica cinese, che si stacca dalla scrivania in cui era posato, e l'ho visto che si distruggeva ai miei piedi incapace di pensare alle conseguenze che mi sarebbero aspettate dopo questo incidente.
Io e Kim cerchiamo di riparare il danno anche se sappiamo che non sarebbe servito a niente, perché credo di non avere i super poteri anche se ho fatto sogni che confuterebbero questa realtà innegabile, d'altronde i sogni son sogni.
Giro la testa di scatto verso il buon padrone, che però non trovo sul suo grande scranno di legno intagliato, ma davanti a me con un braccio alzato e rosso in viso; è indescrivibile il dolore che sto provando in questo momento, credo di stare piangendo, non lo so con certezza, tutto quel che sento sono le urla della mia compagna che sta a terra, inerte e con un occhio viola e una mano che stringe la mia.
La mia unica amica pestata a sangue ingiustamente, anche io sono ridotto in condizioni pessime, la testa mi gira, la gamba non la sento più, e per cosa? Un misero vaso ripagato con la sofferenza di due innocenti bambini.
Non ci vedo più dalla rabbia, mi alzo tutto dolorante e mi avvento su quel lurido schiavista ubriaco, non so bene cosa mi stia passando per la testa in questo momento, un raptus improvviso ha preso possesso del mio corpo, tempesto di pugni la grossa pelata del Buon Padrone, lui urla, si contorce e mi scaraventa verso il muro.
Urla a gran voce e chiama Shien-shing una guardia del corpo cinese, muscoloso e terrificante, aiuta il signore ad alzarsi e poi viene verso di me, con un ghigno divertito sul volto, mi prende per la collottola e mi alza come farebbe una gatta al suo cucciolo; mi guarda con circospetto e mi porta via.
Attraversiamo tutte le stanze glabre e piene di bambini che ci fissano, alla fine arriviamo in un piccolo salone senza finestre e pieno di polvere e ragni velenosi.
Mi butta a terra e con una voce roca e con un forte accento mandarino, dichiara che a quelli come noi prima li scuoiavano e poi li appendevano fuori dalla porta come avvertimento, ma ora i tempi sono cambiati per mia fortuna: mi venderanno ai soldati dell'esercito birmano contro i guerriglieri Karen, che sono una minoranza etnica che lotta per l'indipendenza.
Non posso credere alle mie orecchie, diverrò un bambino soldato! Ho sempre sognato di entrare a far parte della milizia da grande, ma non avrei mai pensato che sarebbe successo proprio ora.
Però non mi hanno neanche dato il tempo di salutare Kim che è già venuto il tempo di partire, chi sa se mai la rivedrò, magari ci sposeremo un giorno... sarà proprio felice di essere la moglie di un vero soldato!
Fuori ci attende una piccola jeep gialla mezza scassata che non appena il motore si è acceso si è sentito come una specie di bombare di un'ape. Fortunatamente non sono solo... ma c'è Kim con me! Non sapevo esistessero le donne militare!
Sarà un bel viaggio, forse anche un modo per conoscerci meglio.
Dopo tante chiacchiere e anche dopo una bella dormita rilassante, siamo arrivati ad un 'accampamento composto da tre centurie di militari, ogni gruppo ha a disposizione due accampamenti rozzi ma imponenti, pareva che uno di essi fosse formato solo da ragazzini, più o meno della mia età..
Tutti loro hanno un'espressione scura in volto, sembravano come... in lutto. Mi chiedo perché.
Purtroppo la risposta è arrivata troppo in fretta, veniamo trascinati con foga verso una baracca, ci mettono i colori tipici della bandiera birmana: giallo, rosso, verde e bianco; un caschetto militare e un piccolo giubottino logoro antiproiettile, con una macchia scarlatta in pieno petto, forse è fango oppure, nell'ipotesi più probabile è sangue, anche perché quel punto è forato.
Ci urlano che dobbiamo prepararci perché fra poco ci ritroveremo in marcia per il fronte, durante la confusione generale perdo di vista Kim, ma spero che dopo ci ritroveremo.
Un'ora dopo siamo lì, piegati dietro dei ripari di fortuna, io e la mia compagna, oltre noi c'è l'inferno, persone che urlano dal dolore o dall'euforia, il fuoco è come un abbraccio mortale attorno e all'interno del piazzale di combattimento; le nostre forze si sono divise e sparpagliate, più della metà invece è morta.
Non sono mai stato attaccato alla mia esistenza come in questo momento, l'unica cosa che mi separa della pazzia è lei, luce dei miei occhi, che ravviva la mia speranza di vita.
Vediamo molotov che volano sopra le nostre teste e vanno a schiantarsi contro i nostri alleati agonizzanti che non vedranno la luce del giorno dopo.
Tutti giovanissimi, con speranze, sogni, amici, tutto frantumato in quell'unico momento. Tutto.
Non ho mai avuto la testa a posto, e neanche la mente aperta, non avevo pensato neanche un momento che la guerra fosse questo, d'altronde sono ancora un bambino immaturo. Solo ora apro gli occhi, solo ora quando ogni cosa è perduta.
Sentiamo le pallottole di un mitra che infuriano accanto alle nostre teste, suoni che ci fanno accapponare la pelle ma non osiamo muovere un dito.
Mi giro verso Kim, con gli occhi chiusi sembrava stesse dormendo, le tolgo i capelli dal viso, e le sussurro all'orecchio, ma nessuna reazione. Dopo solo panico, la scuoto, le urlo in faccia, controllo il suo battito cardiaco e a quel punto che capisco, le tocco il petto, sangue, solo sangue, Non capisco più niente, piango, urlo, mi dispero, ma tutto ciò non la riporterà indietro.
Capisco che per i miei compagni è finita, per me è finita, sento una vocina nell'orecchio, la riconosco, è quella di Kim, ma la sua bocca non si sta muovendo. Mi dice che devo raggiungerla, si sente sola.
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