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Il miracolo nascosto
La signora Beatrice era seduta nella stanza numero dodici al quinto piano dell'ala malattie infettive, nel cuore della città, torturandosi le mani nell'attesa che il dottor Berni le comparisse davanti. Era il quinto appuntamento in tre mesi. Erano tre mesi, ormai, che lo sapeva.
-Signora, buongiorno,- disse il dottore facendo il suo ingresso nella stanza. Girò attorno alla scrivania allungandosi per stringerle la mano, dopodiché si accomodò al suo posto.
-Come va? Mi faccia dare un'occhiata, un momento,- disse, e prese a scartabellare una serie di fogli che aveva portato con sé nella stanza.
-Diciamo che non mi sento particolarmente meglio,-disse tanto per stemperare la tensione che in quella patetica circostanza le si accumulava dentro come un mare in tempesta. Patetica perché per la signora Beatrice -che aveva da poco compiuto i cinquant'anni e cresciuto già tre figli ormai grandi- non c'era niente di più patetico che sentirsi piccola e impotente sotto gli occhi severi di un medico che a occhio e croce sembrava a stento raggiungere la sua stessa età. Non c'era niente di più patetico, pensava Beatrice, di doversene stare inermi alla mercé della scienza e della medicina, di fronte a qualcuno che sapeva quanto tu fossi ignorante in materia, quanti anni di studio separavano chi stava seduto da una parte della scrivania e chi dall'altra. Sapeva, o meglio sentiva, che per qualunque medico del mondo -compreso il dottor Berni- lei e tutte le persone nelle sue stesse condizioni o anche peggio, venivano guardate attraverso la lente dell'ignoranza, con quel filtro speciale con cui un laureato in medicina potrebbe guardare qualcuno sapendo che il massimo dell'esperienza in campo medico di quest'ultimo fossero acqua ossigenata, ovatta e cerotti.
-Le ultime analisi non hanno rivelato nulla di particolare,- disse il dottor Berni. -Nulla in più di quello che avevano già rilevato le analisi precedenti, intendo-. Girò un foglio e la guardò. Nel suo sorriso empatico lei ci lesse un'ombra di arrogante superiorità. Benché fosse quasi impercettibile, era impossibile cancellarla dal volto di chi sapeva. O da chi era convinto di sapere.
-I c3 sono apposto. I c4 sono fermi lì. Non si muovono.
Lei non obiettò. Non ricordava cosa fossero quelle "c", tantomeno cosa fossero quei numeri.
-Bene,- disse il dottor Berni, stringendosi una mano nell'altra. L'odore pungente del suo dopobarba le fece pizzicare le narici.
Eccola là, si disse. Una donnona tutta compattezza seduta su una piccola sedia col vestito buono della domenica, che stringe tra le mani la stessa borsetta piena di pacchetti di fazzoletti e di caramelline, l'unica che le piacesse davvero.
-Tra breve cominceremo la terapia, signora. Dalle analisi credo che siamo a un buon punto. Il dietologo dice che ha fatto passi da gigante. I cinque chili di cui avevamo parlato, li ha persi con successo. Complimenti.
-Be', grazie. Io mi sono impegnata molto, sì.
-Certo, signora. Lei deve impegnarsi. Non si butti giù, coraggio. Sta andando molto bene, mi creda.
-Grazie.
-Le ho già spiegato come funzionerà la terapia farmacologica che andrò a prescriverle; ma credo che sia il caso di ribadirlo ancora una volta, perché sa, in casi come questo è molto molto importante seguire bene le indicazioni. Mi segue?
-Sì,- sorrise Beatrice, martoriando di nascosto la borsetta. Avrebbe preferito essere dovunque in quel momento, tranne che lì. In nessun altro posto del mondo ci si sente tanto malati quanto di fronte a un dottore.
-Mi stia bene a sentire,- disse il dottor Berni. -Lei dovrà prendere due o forse tre pillole al giorno, non lo so, adesso vedremo con le prossime analisi che saranno quelle decisive. Mi creda, non le somministrerei mai dei farmaci come questi se non fosse assolutamente indispensabile.
-Certo. Certo, lo capisco.
-Bene. Come le ho già spiegato, queste pillole dovrà prenderle con una regolarità quasi maniacale. Tutti i giorni, alla stessa identica ora, per tutto il resto della sua vita. Sono stato abbastanza schietto, signora?
-Sì,- sorrise imbarazzata lei,-credo proprio di sì.
-Benissimo, perché la schiettezza, qui, è il metro del successo. Non immagina nemmeno quante volte mi sia capitato di vedere entrare da quella porta pazienti disperati che lamentano un'insoddisfacente terapia farmacologica, prima di individuarne la vera causa. Dimenticanze, orari traslati, dosaggi fai-da-te e consigli dalla vicina di casa. Non esiste.
-Certo.
-Mi guardi: non esiste. Se le sembro severo è perché ci tengo alla sua salute, signora.
-Grazie,- disse Beatrice.
-I farmaci sono molto potenti, e hanno tra i più vari e possibili effetti collaterali. Nausea, vomito, depressione, attacchi di panico, mal di testa. A volte potrebbe sembrarle una tortura. Mi creda, se le dico che lo so. Ma se lei mi salta una pillola oggi e una domani, il virus finisce con il diventare immune al principio del farmaco. Lei ha figli. Sicuramente saprà come funziona un antibiotico.
-Certo, sì sì.
-Il principio è lo stesso. Ma qui non stiamo parlando di un'influenza o di una tonsillite, lei lo sa. Mi dispiace doverle fare un discorso del genere, non lo prenda come un'offesa alla sua intelligenza o una mancanza di fiducia da parte mia, ma non posso permettermi che i pazienti prendano la cosa superficialmente. Non con questo genere di malattia. Non con me.
-Io la capisco benissimo,-disse Beatrice, e provò un po' di pena, in fondo. Nonostante le impressioni sbagliate che hanno in genere le persone quando si scontrano con esperienze diverse, il dottor Berni sembrava parlare con una certa sincerità autoritaria ma rassicurante. Ciò non toglie che quello che le aveva detto suo marito le prime volte, quando lei, la sera a letto, disperata, soffocava il pianto nel cuscino, affidando ciecamente la sua vita a quella struttura ospedaliera senza nessun'altra opzione apparente, le sembrasse ancora così maledettamente sensato: -Ai dottori interessa la malattia, mica il paziente. Specialmente in un istituto di ricerca come quello in cui vai tu.
-Non so, signora... se ha qualche domanda da farmi, l'ascolto con piacere.
-Io...,-prese coraggio Beatrice,-... io ho preso un bel raffreddore circa una settimana e mezzo fa.
Il dottor Berni annuì, in silenzio. Lei continuò.
-Be', è... è assurdo, direi,- rise imbarazzata. -Siamo in piena estate.
-Gliel'ho detto. Il suo sistema immunitario è leggermente compromesso. Per ora, s'intende. Ma il mio compito è proprio quello di mantenerlo così com'è. Purtroppo, signora, non posso ripararglielo. Ma posso tenerlo fermo lì così com'è. Leggermente compromesso. Intanto lei eviti di girare troppo intorno a persone che tossiscono o starnutiscono o cose simili. Questo è quello che può fare lei.
-Ho capito,- sorrise lei, insoddisfatta. Fino a quel momento aveva pensato di non aver abbastanza coraggio per affrontare l'argomento, ma in quel momento la stanchezza e lo sconforto presero il sopravvento. Chi, se non un dottore, poteva mettere al proprio posto i dubbi atroci che l'avevano assalita negli ultimi giorni?
-Dottore,- disse allora, -io ho letto una cosa. Su internet-. Fece una pausa, controllando il respiro. Non le andava a genio di recitare ancora una volta la parte della sprovveduta, e così tentò di riordinare parole e idee in maniera che fossero il più professionali possibile. Riprese: -Voglio dire, lei come si pone di fronte a certi negazionismi a riguardo di questa malattia? So di persone che hanno avuto una lunga vita senza aver bisogno di assumere alcun farmaco. So anche di studi condotti trasversalmente rispetto alla medicina ufficiale che affermano che... be', sì, che affermano che, insomma...
Il dottore fece un gesto con la mano, spazientito.
-Che questa malattia è inventata. Vero? Che è tutto un imbroglio, una farsa. Che una malattia del genere,- disse alzandosi in piedi, -è frutto di una qualche cospirazione atta a distruggere una determinata etnie di persone, dico bene?-. Girò intorno alla scrivania, raggiungendo uno schedario. Lo aprì..
-Lo dica a loro,- disse facendo scorrere le dita sulle cartelle. -Lo dica a loro che è tutto finto.
-Mi dispiace, io...
-Per ogni persona che rifiuta la terapia e ha una vita lunga, signora, ce ne sono altre dieci che muoiono nel giro di pochi anni. Alcune anche di mesi. Per favore,-disse, richiudendo con un colpo lo schedario,-restiamo con i piedi per terra. L'ho ripetuto più e più volte ai miei pazienti: non dovete cercare soluzioni alternative. È questa, la soluzione alternativa. Su internet lei può trovare di tutto. Può anche trovare che assumendo del sale in una particolare fase calante della luna si possa guarire da qualsiasi malattia, ma non è così. E sa perché non è così, purtroppo? Perché se fosse così né io né lei staremmo realmente qui a parlare. Questo è tutto.
Beatrice si sentì sprofondare dentro se stessa. Ma come aveva potuto credere anche solo per un istante che tesi del genere che andavano completamente contro la medicina ufficiale potessero essere convalidate da un rappresentante della medesima come lo era il dottor Berni? Dannata me, si disse. Dannata me.
-Mi dispiace. Io non volevo azzardare nessuna ipotesi. È solo che le cose che ho letto, ecco, non avrei saputo con chi altro condividerle, tutto qui. Mi fido di lei.
-Lei non deve condividere niente con nessuno. Niente che non riguardi strettamente quello che le viene detto dentro queste quattro mura, signora. Lasci stare impicci e imbrogli.
-Mi fido di lei. Veramente. Io mi fido.
-Mi fa piacere, -sorrise il dottore. Avanzò di un passo verso di lei. Le strinse la mano. Le sorrise.
-A me lei sta a cuore. Esattamente come tutti gli altri miei pazienti,- disse. -Se continuerà a fidarsi di quello che le dico io, le giuro che non si troverà mai dentro quello schedario, signora. Certo, avrà a che fare con una vita piuttosto limitata, ma non sarà in quel maledetto schedario. Stia tranquilla.
-Grazie, dottore.
-La saluto,-sorrise lui. -E non si dimentichi di passare a firmare dopo aver fatto il prelievo, mi raccomando.
-Non mancherò, stia tranquillo.
Detto ciò Beatrice si alzò in piedi, si sistemò il vestito, si adagiò la borsetta su una spalla e salutò di nuovo. Aprì la porta e si infilò nel corridoio dell'ospedale, dove tutto le parve improvvisamente più reale e malinconico.
La giovane infermiera che rispondeva al nome di Teresa si infilò i guanti in lattice e le infilò la siringa nel braccio. Come sempre, c'era stata qualche difficoltà nel trovare la vena. Cinque chili erano il giusto, aveva detto il dietologo, ma se solo fosse riuscita a perderne altri cinque, o magari dieci...
-Ecco fatto,- disse l'infermiera, affabile e sorridente. -Qui abbiamo finito, cara. Ti metto il cerotto e puoi tornartene tranquilla a casa.
-Grazie.
Beatrice si alzò dalla poltrona nella sala prelievi e si avvicinò al banco degli infermieri, dove l'anziana caposala le mostrò un registro fitto di nomi e firme.
-Qui,- le indicò col dito il suo nome scritto in stampato maiuscolo. Lei ci depose accanto la propria firma e sforzò un sorriso. La caposala non lo notò neppure.
-Arrivederci.
-Buongiorno,- disse Beatrice.
-Ciao cara,- salutò l'infermiera.
Prese un'autobus affollato. Durante il tragitto osservava la città che scorreva fuori dai finestrini, così diversa dalla campagna morbida in cui abitava. A volte le capitava di percepire ostilità nei suoi confronti, quasi come se l'intera città non fosse altro che un gigante di ferro e cemento che la guardava dall'alto con superbia. Tu qui non c'entri niente, sembrava le dicesse. Questo senso di estraneità quel giorno le durò più a lungo del normale. Sparì soltanto quando lentamente i fabbricati cominciavano a cedere il passo a prati e orizzonti estesi; allora si sentiva al sicuro, libera di pensare. E pensò che in fondo anche il dottor Berni aveva ragione, come suo marito. Che l'uno convalidava l'ipotesi dell'altro, tutto sommato. I dottori studiano le malattie, e il dottor Berni era interessato a quella che aveva lei perché quella malattia esisteva semplicemente. Spesso è facile rifugiarsi in una fantasticheria soltanto per non provare dolore. Era così che si spiegava come tante persone dei ceti più diversi potessero cadere vittime di maghi e stregoni alla tv dando via loro a volte interi patrimoni col solo scopo di conoscere il proprio futuro o di farsi levare il malocchio. Era tutto reale, e se ne sarebbe dovuta fare una ragione, prima o poi. Ma allora perché le sembrava così maledettamente reale solo quando era in quella città? A casa, quando innaffiava le piante di pomodori nell'orticello sul retro, non le sembrava di essere malata. Non ci pensava, ad essere malata. Le capitava di pensarci soltanto di notte, quando i rumori si attenuavano e suo marito si addormentava e non c'era più nessuno lì tranne lei, allora sì, forse allora aveva un po' paura. Paura perché all'improvviso tutto le sembrava così vero. Ma che cos'è che è reale?, si domandò scrutando il cielo dal finestrino. È reale quello che crediamo reale, oppure c'è una realtà oggettiva che è sempre lì anche quando non guardi -specialmente quando non guardi- e che proprio per questo è pronta a morderti le chiappe in qualsiasi momento?
Era quasi giunta a destinazione. Si alzò dal posto che aveva rimediato strada facendo e si mise in fila tra gli altri passeggeri per la prossima fermata. L'autobus sbuffò fermandosi, e le persone scesero una dietro l'altra. Scese anche lei. Si sistemò la borsetta sulle spalle e dalla pensilina si incamminò lungo la via aperta tra due campi in direzione della croce che grattava il cielo in lontananza. Là in fondo. Dove c'era casa sua.
Arrivò fino alla piazza centrale, dove ogni mattina si svolgeva la stessa scena: il proprietario del fruttivendolo lavava il fazzoletto di marciapiede di fronte al suo esercizio, cassette di frutta e verdure lucenti in bella vista accatastate l'una sopra l'altra; il gestore del Barney Bar fumava accanitamente accoccolato sullo sgabello accanto alla vetrina, vecchio e malato, con i capelli scoloriti e profonde rughe sul suo volto dalla pelle dura come cuoio; Miriam si prendeva cura delle proprie piantine all'interno del chiosco di fiori; il ragazzo dell'edicola al centro della piazza (Ruggero o Raniero, non ricordava) sfogliava qualcosa appisolato sul banco tra le riviste; l'alimentari di zio Gino era nel pieno dell'attività, casalinghe e vecchie signore entravano a mani vuote e uscivano traportando sacchetti bianchi rigonfi di pagnottelle e affettati. Qualche pensionato passeggiava tranquillo fumando un sigaro, tenendo al guinzaglio cagnolini festosi, con il quotidiano sotto un braccio e qualche piccola commissione nell'altra mano; qualche giovane scherzava all'ombra di una panchina. Beatrice pensò che fosse l'unica persona di passaggio, lì, ad avere paura della morte. E pensò che il dottore aveva ragione, gliene diede tanta quanta non gliene avesse mai data fino ad allora. Non c'era niente di più reale della realtà delle cose. Le cose hanno una forma; e la forma è delle cose, pensò.
Costeggiando la piazza si fermò a bere alla fontanella dalla quale sgorgava acqua fresca e frizzantina, per gentile concessione delle abbondanti sorgenti là attorno. Rialzando la testa, con l'acqua che le rotolava divertita giù dal grosso mento, si ritrovò a fissare incuriosita la grande facciata bianca della chiesa di San Gaspare; maestosa, forte. Battesimale.
Attraversò la strada gomito a gomito con una giovane mamma che spingeva un passeggino colorato. Raggiunto l'altro lato, indugiò di fronte ai gradini di pietra che salivano verso due massicce porte di legno. Una parte di lei pensò che non fosse più saggio continuare a illudersi. E che nonostante la speranza le sembrasse l'unica cosa che in quei momenti le potesse riempire il cuore, sarebbe stato meglio voltarsi verso la strada e proseguire dritta fino a casa senza più voltarsi indietro.
I c3 erano apposto davvero. Ma i c4 non c'erano.
In tre mesi la paziente aveva effettuato cinque prelievi di controllo, tre di test e uno (il primo, lì) di prassi. E i c4 erano sempre stati presenti, lì, a testimonianza dell'infezione. Sempre eccetto quelle che aveva tenuto in mano nel loro ultimo incontro. E ora il dottor Berni, seduto alla stessa scrivania, attendeva che la caposala Wilma Dimitria gli consegnasse il risultato delle nuove analisi a cui lui l'aveva esortata a sottoporsi, per scrupolo. Continuava a scartabellare nervosamente i fogli, confrontando i valori con quelli delle analisi precedenti. Non c'era alcun dubbio che il prelievo venoso analizzato dal laboratorio fosse lo stesso: i restanti valori erano pressoché identici.
Wilma Dimitria fece il suo ingresso dopo aver bussato di routine senza attendere di essere invitata ad entrare. Andò incontro al dottor Berni e gli poggiò i nuovi risultati sotto il naso, nascosti in una cartellina di cartone gialla.
-Eccoli,- disse soltanto.
Il dottore non le prestò attenzione. Rimase per un istante a fissare il fascicolo quasi stesse valutando l'ipotesi di lasciarlo così com'era, chiuso, per sempre. Ma poi lo aprì, e ne lesse avidamente il contenuto facendo scorrere gli occhi giù per la pagina su tutti i valori accanto alle varie diciture che oramai riconosceva al primo sguardo.
-Non c'è,- disse scioccato, e riprese con gli occhi a risalire la pagina, bagnandosi di tanto in tanto l'indice con la lingua e scrutando la pagina successiva che era stata allegata alla precedente mediante pinzatrice.
-Non c'è, perdio, non c'è.
Wilma Dimitria lo osservava inespressiva, le braccia incrociate sul petto assente.
-Controlli meglio, prego.
-Tu hai controllato?
Wilma non rispose. Il dottore sapeva benissimo che non era usanza della caposala quella di leggere i risultati delle analisi del sangue.
Il dottore richiuse il fascicolo con un tonfo sordo.
-Come lo spieghi. Sentiamo.
-Uno sbaglio, dottore. Non c'è altra spiegazione.
-Wilma, lavori qui da più tempo di me. Hai anche più anni di me. Non diciamo stupidaggini qui dentro, per favore. Non tra noi due. Lo sai benissimo che una cosa del genere non è possibile, e per due motivi: primo, i restanti valori sono identici ai precedenti prelievi. Segno che il sangue analizzato appartiene alla stessa persona. Secondo, perché uno sbaglio del genere potrebbe capitare una volta su cinquecento, o giù di lì, e qui siamo già a due uno appresso all'altro. E, lasciami dire una cosa, Wilma, c'è anche un terzo motivo: tutti quelli che si fanno analizzare il sangue qui, non sono nel dubbio di essere malati, sono ammalati e basta. Vengono spediti qui da tutti gli ospedali della città proprio per farsi confermare l'infezione. Non può esistere uno scambio di fialetta tra una paziente malata e una sana, perché non c'è nessuna paziente sana qui dentro. Se queste analisi o quelle precedenti fossero state di qualcun altro avremmo trovato tracce di epatiti, segni di emofilia o che so io. Qui non c'è niente.
Wilma ascoltava assorta nei suoi pensieri.
-Quindi ora, dimmi, ti prego, Wilma, come è possibile che stia succedendo davvero... questo.
-Vuole che contatti la signora per un colloquio?
-Ma perdio, perché giri intorno alle mie domande?,- sbraitò lui sbattendo una mano aperta sulla scrivania.
Wilma Dimitria non si scompose. Restò perfettamente immobile, le braccia strette attorno a sé, inflessibile.
-Non lo so,- disse solo. -Non so spiegarglielo, dottore.
Lui annuì, ricomponendosi. Era mai forse possibile interpretare una cosa del genere? La medicina non sbaglia mai, tantomeno la scienza di cui questa fa parte. Quello che aveva sotto gli occhi era semplicemente impossibile.
-È semplicemente impossibile,- disse.
-Vuole che chiami la signora o no?
Il dottor Berni scosse la testa.
-No,- rispose. -Chiamarla per dirle cosa. Chiamarla per dirle che qualcosa che noi le abbiamo diagnosticato e che le abbiamo inculcato in testa essere una malattia molto pericolosa, infettiva, trasmissibile e soprattutto incurabile, ora non c'è più? Così, per caso?
-Sarebbe opportuno, dottore.
-Sarebbe opportuno un cazzo, signorina Wilma. Perdoni il francesismo, ma io, qui, non gioco con la vita delle persone. Se dicessi una cosa del genere manderei all'aria tutto il lavoro che ho fatto, sia su di me che con quella donna. E quella si rifiuterebbe di cominciare una terapia con dei farmaci che oltre a essere molto costosi hanno anche effetti collaterali micidiali. E quando poi si scoprirà la verità che ora ci sfugge agli occhi, Wilma, chi glielo dirà alla paziente? Chi è che prenderà il telefono una seconda volta, la farà arrivare fin qui e guardandola negli occhi avrà il coraggio di dirle che come ci eravamo sbagliati la prima volta nel diagnosticarle qualcosa ci siamo sbagliati anche la seconda nel dirgli che non aveva più nulla, e che pertanto da quello stesso momento può -e deve- di nuovo considerarsi malata? Tu, Wilma?
-No, dottore.
-No, certo. Spetta a me questo compito. E io non sono un'idiota. E tantomeno un farabutto del genere. Qui l'errore c'è stato, è evidente. Ma è nostro, e nostro deve rimanere. Renderne partecipe l'interessato equivale a condannarlo a morte in un certo senso, e questa è la prima cosa che va evitata. La seconda, mia cara Wilma, è che vada screditato tutto l'istituto, la ricerca, la medicina e la scienza.
-Faccia come crede, dottore. Dal canto mio manterrò il riserbo assoluto su questa storia.
-Almeno fino a che non capiamo che cosa accidenti è successo, Wilma. Te ne prego.
Wilma Dimitri annuì.
-Bene,- disse il dottore soddisfatto. Riprese a sfogliare i documenti che aveva sottomano, distrattamente. Poi disse:
-La rimanderemo qui e mi inventerò qualcosa per farla sottoporre di nuovo ad un prelievo venoso. Dopodiché, quali che siano i risultati, le assegnerò la terapia farmacologica in ogni caso. Lei sarà protetta e la nostra immagine non subirà danni. La nostra immagine è tutto, per quelli che ora stanno aspettando fuori dal corridoio con la pena nel cuore. Non possiamo -mi correggo: non dobbiamo- fare in modo che quelle persone non si fidino più di noi, lei mi capisce vero? Sa di che cosa sto parlando. La loro vita è nelle nostre mani. E noi dobbiamo sapere sempre tutto quello che succede, anche quando non lo sappiamo.
-Sì, dottore,- disse Wilma Dimitria. Quando fu certa che lui avesse finito, tornò sui suoi passi fino alla porta. Lui la fermò poco prima che l'aprisse.
-Wilma, non faccia stupidaggini.
-Stia tranquillo, dottore,- disse Wilma Dimitria, e uscì nel corridoio, che sapeva di alcool, e urina.
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