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La guerra e la pace
— Cari ragazzi oggi parleremo della guerra, e sarà una preparazione all'esame finale che di questo tema tratterà; costituirà anche una bella e istruttiva lezione per tutti noi—
Con un tono esageratamente eccitato e malauguratamente commisurato al tema da trattare, una professoressa dai lineamenti delicati e rubicondi, con una stazza che la costringeva a stare a lato della cattedra, la quale aveva una sedia che sarebbe stata messa a rischio se lei si fosse seduta sopra, incitava la classe a guardare la vita in una delle sue tante possibilità, estrema non si capiva ancora quanto, ma certamente non usuale per dei ragazzi che affidavano il proprio futuro alla generosità dei genitori e ai conservanti delle tortine sintetiche.
— Forza allora, mi aspetto da voi una vera analisi, più approfondita e seria delle solite e banali considerazioni da pulpito pacifista e consumista—
— Che ha contro i pacifisti? — sbottò Arturo, un pankabestia che avevano dovuto faticare per convincerlo a lasciare il suo rothwailer legato all'inferriata del cortile
— Perché, adesso non si può più essere pacifisti? — aggiunse in fretta, prima di dimenticarsi il termine usato per definire chi ama la pace, ma soprassedendo sull'altro, quello che lo vedeva in fila al supermercato della droga.
La professoressa, una reduce di un sessantotto che aveva tradito, ingrassata anche lei ai banconi dei Discount dimenò, come fanno i cani, il culone impercettibilmente, ma la finta lattina di coca che conteneva la gomma e la matitona rossa e blu delle correzioni si rovesciò lo stesso
— Anch'io sarei una pacifista, se mi fossi dimenticata che la relativa pace che stiamo vivendo ora è il frutto dell'ultima guerra di resistenza— disse di getto, come per giustificarsi alla sua stessa memoria che le rammentava le molotov da lei lanciate ai cortei di protesta.
— Ma quale resistenza? Se non ci fossero stati gli Americani e i Russi, a liberare l'Europa, oggi lei vestirebbe una divisa con le aquile rampanti sulle spalline e una fila di medaglie le opprimerebbe il seno— l'interruppe un'esile figura, resa ancora più pallida dai vestiti, neri e lugubri, che non avrebbero avuto bisogno di una bara per far capire dove avrebbero ambìto sfilare.
La prof. faticò a mantenere un contegno, suo padre era morto eroicamente combattendo insieme ai partigiani, e lei non avrebbe tollerato quella mancanza di rispetto per i caduti della libertà
— Il modo in cui tu ti vesti, ragazzina, farebbe pensare che i nazisti non siano stati sterminati del tutto! — sbottò, nella fatica di non poterla aggredire con unghie e denti.
Per un attimo sembrò che la guerra si dovesse fare in quel momento, per riuscire a comprenderla a fondo, ma uno scontro generazionale non trovava ancora un terreno fertile, nello spazio che divideva la sessantottina, convertita alla realtà del consumo, da quei figli stanchi della vita prima ancora di averne inghiottito un morso.
— Ora, ragazzi, vorrei che cominciaste a riflettere sul senso generale che rivestono i concetti di guerra e di pace— svicolò la professoressa, nel tentare di coinvolgere quelli che, ai suoi occhi, erano solo elementi di una generazione che avrebbe meritato solo la guerra.
Dietro occhi cerchiati dal dormire senza sognare prese forma, stranamente, un concetto quasi compiuto, e una vocina rassegnata enunciò:— La guerra è sempre un male e non è mai giustificata, lo dicono occhi di bambini mutilati, lo urlano donne violate, lo ricordano le macerie rimaste—
Un applauso, iniziato come un risveglio dal coma profondo, si levò sullo sfondo dei muri scrostati di quella scuola che non lasciavano spazio all'immaginazione, la quale non sentiva la necessità di sforzarsi, lì dentro, per vedere rovine.
La prof. cominciò a intravedere una possibile riuscita del suo progetto di portare quei delinquenti a ragionare
— Vorrei, ragazzi, che rifletteste anche su cosa potrebbe diventare una pace imposta—
Aveva così commesso l'errore fatale che la classe intera attendeva per rivoltarsi, perché non c'era uno studente, tra loro, che non fosse convinto di subirla quella pace fasulla.
— Si riferisce all'ipocrisia capace di definire una qualsiasi pace come fosse il frutto di scelte individuali? — sibilò il fricchettone dell'ultimo banco vicino alla finestra, quello col mozzicone di canna spento in mano e che lo riaccendeva ogni volta che la prof. si girava a scrivere sulla lavagna
— Eh... adesso si esagera, quello che si può dire è che nessuno di voi contribuisce all'arricchimento di quella che non considerate una pace vera
— Io mi riferivo a cosa sarebbe oggi la pace se governassero i nazisti—
— E chi è che ci governa oggi, scusi? — irruppe il solito comunista manifestaiolo con la Kefiah attorno al collo.
La donna si irrigidì nel ricordo di quella studentessa ribelle che era stata, e si riconobbe nella stessa rigidità che caratterizza i giovani che hanno vissuto poco e male, rigidità che svaluta anche le buone ragioni che li sostengono
— Voi non avete la minima idea di cosa significhi il terrore! — ormai la discussione sembrava dirigersi in una direzione che l'avrebbe data quell'idea
— È terrore alzarsi tutte le mattine col pensiero di dover sopportare la vostre ribellioni esagerate, che danno forza alle ragioni con le quali i poteri di uno stato, autoritario e ipocrita, vi dominano attraverso la restrizione delle libertà che, quando lasciate respirare voi strapazzate, volgarizzandole verso i vostri interessi personali! — alitò imbestialita la donna, ormai allo stremo di una pazienza da tempo agli sgoccioli.
— Ha parlato una che manco riesce a salire le scale senza il nostro aiuto—
— Già, prof. faceva una più bella figura a star zitta, evitando di sparlare di consumismo ché, confronto a lei, il mio frigo pare un termos da passeggio—
Il fricchettone dell'ultimo banco, annusata l'aria, si riaccese la canna quasi finita, e un odore di biglietto da metropolitana bruciato si diffuse, gareggiando con la rabbia che spaventava la scarsa e maleodorante aria della classe che vi annegava dentro.
Un tamburellare odioso di mani sui banchi crebbe improvvisamente d'intensità, e la prof. non ci vide più: i suoi occhi furono occupati dall'odio, anche se privo del sacco a pelo che si usava per dormire nelle aule delle università occupate in gioventù, dominate dai baroni, rettori mafiosi in quegli anni di piombo, e una stazza da portaerei vestita da donna si lanciò dal rialzo di legno, che la reggeva a fatica, per piombare sulle prime file di studenti che reagirono come dei partigiani avvezzi alla lotta per la libertà.
Certamente non si poteva più dire che la pace, in quel luogo di cultura, fosse ancora imposta, e la rabbia di tutti si scatenò contro una belva mostruosa che si era spogliata di tutte le ingombranti sovrastrutture, che anni di raccolta bollini premio avevano convertito in un cetaceo ansimante. La lotta durò un tempo che nessuno riuscì a misurare con precisione, ma fu sufficiente a rendere quelle facce, appartenenti a studenti che amavano il dark, ancora più violacee e livide e quel muro di gomma, che una volta era stato una professoressa amante della vera pace, quella che ingrassa, si rivelò imbattibile nella capacità di assorbire colpi che avrebbero inginocchiato un rinoceronte. Quattro poliziotti riuscirono a portarla via dalla scuola solo dopo averla tramortita con diverse scariche elettriche, sparate con una Taser di ultima generazione, quella sperimentata contro le tigri Tamil di Ceylon, ma si dovettero far aiutare da altri colleghi per caricarla sul furgone blindato, e nessun poliziotto volle salire dietro con lei, nonostante avesse le manette ai polsi.
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