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Due feste differenti
L'anno esatto non lo ricordo con precisione, era intorno al millenovecentonovanta, e questa imprecisione è data dal fatto che facevo i turni che mi scombinavano il senso del tempo, al Don Gnocchi di Milano. Mi è capitato di lavorare anche in pieno capodanno, di notte e senza suore in giro ché stavano anche loro a festeggiare e io, con la siringa d'insulina a pungere Natalino sul tricipite, mentre fuori scoppiavano i mortaretti e tutti erano quasi felici tranne Natalino, perché io non ho il dono di essere indolore come erano le suore, quando faccio un'iniezione, anche se solo sottocutanea.
Quella domenica era la festa degli Alpini e io ero di turno nel reparto dei disabili più gravi, simpatici e giocosi, scalcagnati quasi quanto me, di quell'Istituto che, in quegli anni, era ancora Pro-Juventute. Mi telefona il Direttore e mi dice che gli Alpini gli avevano chiesto di mandare due ragazzi disabili in qualità di delegati di Don Carlo Gnocchi, che era stato cappellano degli Alpini, alla loro festa, dicendogli anche che ci sarebbero stati ad attenderli due sostanziosi assegni. Tra tutti gli assistenti del Centro io ero il meno amato, perché minacciavo denuncie con facilità e pure lettere ai giornali, e quell'Istituto viaggia a cospicue donazioni e teme la cattiva pubblicità. Così, a malincuore e non senza lottare e vendicarsi, capitava che mi accontentassero. — Vacci te e scegli i ragazzi da portare... — mi disse il Direttore nella speranza, almeno per quel giorno, di non incontrarmi nei corridoi. Erano circa le otto del mattino e dovevo correre per arrivare alla funzione religiosa che, in Duomo, sarebbe cominciata forse alle dieci. Via Capecelatro è distante dal Duomo, e non sarebbe stato facile arrivare in tempo. Scarto subito i ragazzi lunghi da preparare e opto per Luciano, che avevo già lavato e bendato (per via del grosso decubito da spina bifida che lo affliggeva) e Natalino che, anche lui già in piedi, avevo però dovuto convincerlo col miraggio dell'assegnone. Li carico sul pulmino bianco e bello, che non mi davano mai, e partiamo decisi e scherzosi, come sempre. Luciano ha vent'anni che sono riusciti a superare i centotrenta chili nonostante le gambine piccole, e una forza mostruosa con braccia che gli consentono di scucire i soldi di scommessa agli sprovveduti autisti dell'ATM, addetti al servizio scuola, che non lo conoscono bene e non sanno che lui e la sua carrozzina spostano un'autobus di sessanta posti a sedere per dieci metri e passa. Lui ogni tanto perde tutti i capelli, che gli ricrescono a chiazze, e poi s'infoltiscono di nuovo per ricadergli ancora a ciclo continuo, sopra una barba col pizzetto che gli dà un'aria da professore contento dei suoi alunni.
Natalino è Siculo, piccolino e magrino, ammalato di non si sa bene cosa che sembra una distrofia, ma non lo è, diabetico grave e vero uomo, ché c'ha lo zio che si chiama Vito Pesce e spara. Quindi se gli fai girare le palle lui gli telefona e quello non sa più a chi deve sparare per primo, tanti sono i nomi che lui gli detta per telefono giù in Sicilia. S'addormenta all'improvviso e tutti pensiamo che è andato in coma diabetico e lo pungiamo per controllare il sange e lui si sveglia... bassstardiii... e minaccia tutti di morte dolorosa e lenta. Alla Vito Pesce.
Corro come un matto, più per la voglia di guidare un pulmino vero che per la fretta, perché quello che mi rifilavano di solito era scassato e ruggine e vecchio e non superava i sattanta all'ora, vuoto. Questo è lucido e ha persino i fermi per le carrozzine, così che i ragazzi non picchiano le teste sul tetto a ogni tombino profondo. Anche loro godono, a parte Natalino che "non gli frega una minchia", e dorme. O forse è in coma.
Arriviamo in tempo e la piazza è piena di Alpini. Belli e lucidi con le penne dritte e orgogliose, che aspettano di entrare in chiesa. Nessuno ci nota, — Strano... — penso...
Stiamo lì, intimiditi in un angolino della piazza, ed entriamo in Duomo per ultimi. Assistiamo a tutta la funzione e alla predica solenne, che evocava un cannoneggiamento sulle montagne gelide solcate da scarponi rotti nella neve alta, e poi usciamo per primi e divaghiamo, guardandoci attorno...
Vediamo spiccare una penna bianca in alta uniforme che, in un gruppetto al centro della piazza, parlottava con un alto prelato in veste porpora e capiamo subito che gli assegni era da lì che dovevano arrivare. Ci avviciniamo senza fretta e ci piazziamo attorno al gruppetto blasonato, cincischiando lievi e cercando d'incrociare gli sguardi che contano.
Niente.
A un certo punto io mi spazientisco e dico a Luciano, ché Natalino sonnecchiava:— Io quasi quasi gli chiedo gli assegni a questi... —
E Luciano:— Ma sei scemo? Io mi vergogno... —
Si muove uno di loro, vecchio di brutto, e accarezza Natalino sulla testa e lui la scuote infastidito e gli lancia un'occhiataccia alla Vito Pesce.
— È fatta!... Addio assegni... — dicono gli occhi miei e di Luciano.
Mestamente risaliamo sul pulmino e torniamo a casa scontenti, sempre correndo ché a me piace guidare quel mezzo lussuoso.
Appena ci vedono, quelli della portineria cominciano a sbracciarsi e ci avvertono che avevamo sbagliato funzione. Altri Alpini avevano telefonato ancora, chiedendo quando saremmo arrivati che lì avevano già cominciato a bere. Ci aspettavano per il pranzo e di fare in fretta, che bere senza mangiare scombussola anche un Alpino...
Telefonavano da lì vicino, al quartiere Gallaratese, fuori dalla chiesa del prete operaio che dice messa in una chiesa che è sicuramente opera di un architetto ubriacone. Arriviamo di corsa e gli Alpini sono già ciucchi, slungati sotto due tavolacci lunghi dell'oratorio, pieni di cibo e bottiglioni, che suonano la tromba e il tamburo e un violino non di Stradivari. Ci fanno una festa boia che anche Natalino si sveglia e sorride. Lo stesso timido sorriso del Don Gnocchi. Smollano subito gli assegni ai ragazzi, che non ho mai saputo cosa c'era scritto sopra, e iniziamo a mangiare, bere e ridere e cantare con loro. Luciano stona Romagna mia, che non c'entrava nulla, ma era l'unica che sapeva bene a memoria, e gli chiedono una replica, e lui la ricanta almeno quattro volte, con quel suo terribile vocione da basso che se avesse gridato "Arrendetevi!" sulle montagne dell'ultima guerra, questa sarebbe finita prima.
Quel giorno, Yin e Yang danzarono scombinatamente vicini e, davanti ai miei occhi, forse imbrogliandoli e forse no, il gioco degli opposti non riuscì a ricomporsi.
P. S: L'errore di credere che gli assegni potessero arrivare solo dal Duomo di Milano lo commise la Direzione, e anch'io non ho dubitato.
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- racconto carino e anche divertente! il contrasto e l'incontro tra l'allegria degli alpini e la realta' di questi poveri ragazzi...
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