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Abissi di paura
Estratti repertoriati del diario di Nathaniel Crowe, rinvenuti nei pressi di Cala Scirocco, Isola di Montecristo
(Reperto A)
Forse sto per farcela. Finalmente il sogno di una vita, di studi approfonditi e ricerche infinite sta per regalare i frutti sperati. L’antro è piuttosto stretto ma me lo aspettavo. Dovrei percorrere ancora una distanza di circa trecento metri, dopodiché, secondo la mappa disegnata dal professore, dovrei ritrovarmi direttamente nella grotta della Villa, la misteriosa spelonca nella quale, ormai è certo, la famiglia Spada nascose il proprio prezioso, immenso tesoro.
Per fortuna ho con me la torcia, spero che la luce sia sufficiente per consentirmi di percorrere l’intero tratto che mi divide dalla fortuna che sto per abbracciare. Credo di aver percorso circa duecento metri, eppure la stanchezza inizia a farsi sentire. Il cunicolo presentava un diametro all’incirca di un metro per cui i primi passi sono stati difficoltosi, ma non impossibili. Improvvisamente il tunnel ha iniziato a scendere con pendenza maggiore e la circonferenza si è ristretta. Ma non posso tornare indietro. Ormai sono arrivato fin qui. Devo procedere, a qualsiasi costo.
(Reperto B)
Era un piovoso mattino, il solito piovoso mattino londinese quando di buonora il professor Milton mi convocò a casa sua. Mi presentai trafelato, la sua voce eccitata e scossa m’indusse a ritenere che dovesse comunicarmi qualche evento di particolare importanza, di quelli che non possono attendere oltremodo.
Entrai che sedeva dietro la scrivania, con un cenno mi invitò a sedere di fronte a lui. La governante mi porse una tazza di thè bollente ed ascoltai quanto il professore avesse da riferirmi.
“Mio caro Nathaniel,” esordì “tu sai quanti anni ho dedicato allo studio di questi testi”.
Compresi subito a cosa si riferiva. Per l’ennesima volta mi mostrò i libri e le cartine della misteriosa Isola di Montecristo, nell’Arcipelago Toscano, luogo arcano ed oscuro, le cui vicende narrano di ignoti segreti e tesori nascosti.
Bevve un sorso di thè e proseguì. “Credo finalmente che le tante notti insonni trascorse su queste vecchie carte finalmente abbiano dato i loro frutti. Le derisioni, gli improperi, le porte sbattutemi in faccia, mio caro Nathaniel, potrebbero davvero diventare acqua passata e non tormentarmi più. I colleghi dell’Università, gli studiosi, i giornalisti…le loro derisioni oggi possono avere una rivincita.”
“Ma professor Milton, volete forse dire che…”
“Si, mio caro Nat, si… credo di poter dire con certezza di aver capito, finalmente, dove è nascosto il famoso tesoro che la famiglia Spada ha nascosto sull’inaccessibile Isola di Montecristo!” il volto del professor Milton, segnato dagli anni e dalle fatiche, delineò un sorriso stanco ma compiaciuto. “E questa è la mappa, con le opportune istruzioni per giungere alla meta. L’ho disegnata io stesso, mio giovane amico, ma purtroppo l’incedere della vita m’impedisce di recarmi sull’isola. È per questo che dovrai andarci tu, Nat. Devi farlo. Per te, per la storia, per la gloria, per la scienza…e per il tuo vecchio amico che ti concede quest’opportunità di svelare al mondo intero una delle più grandi e magnifiche ricchezze mai appartenute ad essere umano”.
Confesso che fui scosso da un moto di eccitazione e di compiacimento allo stesso tempo. Io, un semplice ricercatore dell’Università di Sheffield, giovane collaboratore dell’eccentrico professor Milton, avevo tra le mani la possibilità di uscire da un guscio d’indifferenza accademica ed approdare alla notorietà grazie alla più grande scoperta del secolo, intorno alla quale molte menti avevano indugiato. E fallito.
Terminati i convenevoli e le ultime disposizioni, mi congedai dal professore con tanta speranza per un futuro di luce ma anche angoscia per una possibile sconfitta. Ma soprattutto, con una preziosa mappa ed un importante manoscritto stretti tra le mani.
(Reperto C)
Partito di notte da Ventotene, sono finalmente giunto sull’Isola. Il viaggio è stato terribile, il mare grosso e furioso, il vento sembrava accanirsi contro di noi. Nonostante i pescatori avessero tentato di distogliermi dall’idea di partire a quell’ora così insolita e pericolosa, dietro una lauta mancia hanno preferito sfidare le intemperie pur di assecondarmi. Sbarcai all’alba a Cala Maestra dove ad attendermi, a pochi metri dalla sua casa, c’era Giacinto, il guardiano nonché unico abitante dell’isola.
Montecristo: un posto solitario, denso di nebbie scontrose, celato dai profondi abissi marini che lo rendono stentoreo ed aspro. Le immense pareti lisce si tuffano fino alle più buie profondità marine, le rocce sono acuminate, pungenti, tetre. Un posto misterioso, notturno. Silenzioso, catartico.
Giacinto mi salutò freddamente, quasi infastidito della presenza di un altro essere umano. Forse troppo abituato, ormai, a trascorrere il tempo guardando i gabbiani ed ascoltando le onde frangersi sulla riva.
Come d’accordo, mi condusse nei pressi del Monastero e, da lì, scendemmo brevemente attraverso un sentiero malmesso e pericoloso fino al punto che il professor Milton aveva segnato sulla mappa con una croce. Era là che iniziava la mia avventura, era là che avrebbe preso origine la discesa verso il tesoro, verso l’ignoto. Verso il cuore pulsante dell’isola.
Giacinto, la solita ed immutata espressione sul volto, afferrò la busta col denaro pattuito e si allontanò. Lo invitai ad iniziare la discesa con me, ad aiutarmi almeno a far luce lungo i primi passi del tunnel.
“Per nessun motivo al mondo entrerei in quell’antro, signor Crowe. Neanche altre dieci di queste” disse soppesando la busta con il denaro “potrebbero convincermi. È ancora in tempo. Ci ripensi. Addio”. Il suo inglese era stentato ma non ebbi alcun problema a comprendere cosa mi disse. Bastava la terribile luce dei suoi occhi per capire che lì sotto avrei giocato una partita difficile. Mi guardo intorno: erba, alberi, rocce nude. Il vento freddo che mi taglia il viso. Abbasso gli occhi: il buio sta per inghiottirmi.
(Reperto D)
Sono dentro da pochi minuti e già pare un’eternità. La luce non è abbastanza forte per andar oltre con la velocità sperata. Riesco a muovere brevi passi, con la schiena piegata in avanti, tenendomi con le mani alla parete che, man mano che avanzo, è sempre più umida e morbida. Le dita affondano nel muro, sembra quasi cartone. La terra s’infila sotto le unghie. Per il momento non ci penso, continuo ad avanzare, presumo di giungere a destinazione nel giro di poche decine di minuti. Ancora uno sforzo e sarò nella grotta della Villa. Mai nessuno è giunto fin lì.
(Reperto E)
Avanzare stando curvi su se stessi è decisamente faticoso. Avrei voglia di drizzare la schiena ma non è possibile, il cunicolo non raggiunge l’ampiezza di un metro, tende a restringersi sempre più, per cui dovrò proseguire accucciato. Il tunnel inizia a scendere verso il centro dell’isola, a degradare aspramente, ma la discesa non è più dolce come prima; ora mi sto piegando sempre più ed il petto è ormai a contatto con le ginocchia. Mi sdraio per procedere aiutandomi con le braccia e spingendo con i piedi. Avverto un’umidità sempre più forte e l’aria è piuttosto rarefatta. La parete rocciosa gratta la schiena, ormai anche la camicia lurida di terra si sta docilmente strappando a contatto con gli aculei di pietra.
Timore.
Il respiro si sta assottigliando, probabilmente il diametro del tunnel si è accorciato. Le spalle riescono ad avere ancora una certa comodità di spinta ma certamente lo spazio per procedere è appena sufficiente. Ho timore che la luce, ormai fioca, possa abbandonarmi, a quel punto la vista sarebbe totalmente oscurata. Non devo pensarci, non devo pensare a nulla. Solo al tesoro, a quel maledetto tesoro.
La gola si sta seccando. Non riesco a respirare con il naso, inizio a sudare copiosamente. Temo che il battito cardiaco stia celermente aumentando il proprio ritmo. Ho sete. Per l’ennesima volta attingerò un sorso d’acqua dalla borraccia. Il transito lungo il cunicolo si sta rivelando più difficile e complicato del previsto. Ritenevo di impiegare solo pochi minuti, ma non è così. Non sarà così.
(Reperto F)
La stanchezza mi sta attanagliando le membra. Ho dolore ovunque, la posizione che ho assunto è innaturale e faticosa da mantenere. Il cunicolo si è ristretto ulteriormente, ritengo di dover proseguire in uno spazio non superiore ai quaranta centimetri. Le spalle faticano a trovare appoggi, vorrei tornare indietro ma non è possibile, non posso girarmi, non ho lo spazio necessario.
Paura.
Ho paura. La luce sta divenendo sempre più timida, riesce ad illuminare appena una decina di passi davanti a me. Vedo nero, tutto nero. Improvvisamente, il tunnel ha iniziato a scendere, quasi verticalmente. Sono a testa in giù ed ormai devo proseguire in questo modo, non ho alternative. Gli occhi iniziano a bruciarmi tremendamente, avverto la polvere ormai a contatto con i bulbi. Respiro a fatica, sento pressione sul petto, percepisco le pareti del cunicolo che mi abbracciano la schiena ed il torace, lo spazio è sempre di meno. Continuo a scendere fino alle cavità più profonde dell’isola, temo che, piuttosto che il tesoro, alla fine della via troverò il diavolo ad attendermi al suo banchetto.
(Reperto G)
La luce si è spenta. La torcia è inutilizzabile. Sono avvolto dal buio più completo, inghiottito dal nulla. Non ho idea di quanti metri sia riuscito a percorrere, ma ormai non ha più alcuna importanza.
Trenta centimetri. È il diametro del cunicolo. Cerco di attraversarlo, di passare. Ho la gola secca e molta sete, ma la borraccia semi vuota è rimasta dietro di me e non riesco a girarmi per afferrarla. Ancora per qualche centimetro riesco a portarmi avanti, affondando le dita nella terra morbida circostante. Venti centimetri. Il tunnel è ancora più oppressivo. Sono ormai incastrato, non posso avanzare, non ci riesco. Tornare indietro è impossibile. Con un po’ di fatica la testa riesce a proseguire verso il nulla dinanzi a me, ma le spalle sono ormai incastrate. Gridare aiuto. Ma a chi? Nessuno potrà sentirmi, né aiutarmi.
Terrore.
È ormai finita. Procedere è impossibile, sono stretto nella morsa del cunicolo, ormai inaccessibile. Riesco a muovere solamente la testa, il resto del corpo è intorpidito, stretto nella morsa delle morbide ed acuminate pareti rocciose. Muovere anche solamente un dito è rimasta un’illusione. Sono bloccato a testa in giù, avverto ormai il sangue rifluire verso le gote, gli occhi, le tempie pulsanti. Respiro a fatica, sempre più. La gola è soffocata da terra e saliva, impossibili da deglutire. Il petto è schiacciato, immobile. Le braccia bloccate si stanno intorpidendo, un lamentoso formicolio si sta impadronendo delle membra.
Resto in attesa. Cedevole, arrendevole, inumana attesa. Della fine.
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