Io ho tre blog, uno di metafisica, un altro di microstorie macroscopiche e, infine l'ultimo, sia per ordine d'importanza che per contenuti, scritto in un inglese talmente stentato che Google translate mi ha più volte mandato affanculo.
Delle migliaia di visite avute migliaia sono dovute al mio controllare se qualche disgraziato, nel digitare male sulla tastiera, per un volgare accidente sia incappato in una delle mie pagine. Una volta uno ha persino commentato una mia storiella, lasciando detto:— Mamma! Oggi arrivo a cena in leggero ritardo per problemi di lavoro—
Io, comunque, non mi sono montato la testa e ho continuato a scrivere dimessamente, come non sarebbe nel mio stile fare, ma quando si è alla frutta la gentilezza nel doverla pelare resta l'unica possibilità di non avanzarne neanche un po'.
Col passare degli anni mi sono convinto che la scrittura, per essere efficace e passare alla storia, deve essere incisa su una stele di granito alta almeno trenta metri, con caratteri inventati di ardua interpretazione, come quelli che la mia vicina di casa, la signora Rosetta, verga sul biglietto appeso sotto l'occhio magico della sua porta, per dire al postino di suonare due volte ché lei è sorda.
Ora che mi son fatto saggio, però, dagli e ridagli ho imparato a gustare il sapore dell'anonimato, affinando il palato con l'abituare le mie papille, che il palato non ha, al gusto estremo che ha la solitudine. Ho addirittura timore che qualcuno possa leggere una delle cose che scrivo, e che possa commentarla con frasi criptiche del tipo:— Non ti preoccupare, figliolo, ho cucinato roba fredda—...