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Non chiederò perdono
Una storia vissuta in silenzio, tra sogni di libertà e follia.
Il campo era ridotto a un immenso acquitrino, pioveva ininterrottamente da giorni. La baracca reggeva la sfida con difficoltà. Il rumore era talmente forte che per farsi sentire bisognava urlare. Alcuni di noi stesi sul letto leggevano riviste vecchie di mesi, altri giocavano a carte. Ero sdraiato a occhi chiusi tentando di ritmare i rumori, una sorta di colonna sonora per i miei pensieri sconclusionati. Alla solitudine ci si abitua, impari a rimproverarti, a compiacerti. Impari a cercare negli angoli più nascosti della tua mente episodi che ti aiutino a sopravvivere. Il difficile é impedire ai ricordi di smagliarsi, di affievolirsi al punto da diventare inservibili.
Ci sono notti in cui daresti qualsiasi cosa per ricostruire i volti delle persone care ma più ti concentri e meno riesci a metterle a fuoco. Immagini lontane che si sovrappongono alle tue paure. Non vuoi mollare ma è difficile continuare a credere che potrai ritrovare i tuoi affetti, vorresti gridare che tu non c'entri, che non è la tua guerra. Sai che non servirebbe a niente ma, resisti e ti aggrappi alla speranza di poter riprendere da dove ti hanno interrotto.
Rileggo a memoria l'ultima lettera che ho ricevuto, è trascorso quasi un anno. Spero che mio padre non si sia messo nei guai, è una persona tranquilla ma quando viene provocato perde il controllo e i fascisti in questo sono bravissimi. Meno male che mamma vigila e riesce quasi sempre a tenerlo lontano dai guai. Chissà come sarà cresciuto mio fratello. E Sara? La mia Sara. Non ho più avuto notizie. E Biagio? Eravamo inseparabili, un'amicizia cominciata alle elementari e mai più interrotta fino a quando... camicia nera e amore ci hanno divisi. Biagio mi chiamava il rosso ma sapevamo tutti e due che non era stata la politica ad allontanarci. Difficile dimenticare i suoi occhi quando gli comunicammo il nostro fidanzamento. Due giorni dopo arrivò la chiamata. Il mio primo pensiero fu per lui e fu un pensiero cattivo. Sara mi accompagnò alla stazione, restammo stretti fino a che fui costretto a salire sul treno. L'abbracciai fin quasi a farle male: "non sentirti impegnata, non voglio rovinarti la vita." Il sapore delle sue lacrime sono l'ultima cosa che ricordo. Eravamo nel 1940 e avevo appena compiuto 23 anni.
Non importa se non ci sono recinzioni, basta poco per capire che tutto quello che serve per non farti fuggire ce l'hai dentro. C'è chi si sente un eroe e pensa di sacrificarsi per il duce e chi lo odia e preferisce restare lì piuttosto che combattere per lui. Eppure quegli stessi uomini spesso solidarizzano, si aiutano, finiscono per fidarsi uno dell'altro. C'è anche chi a fare la guerra non rinuncia e allora la guerra se la porta appresso e cerca qualsiasi appiglio per attaccare briga ma, si finisce per farci l'abitudine. Chi ha vissuto in un campo di prigionia in Africa può dire di aver scoperto una dimensione impensabile, conosciuto contraddizioni intime inimmaginabili, difficili perfino da spiegare.
Molti prigionieri venivano richiesti come braccianti nelle fattorie, il mio passato di contadino si rivelò utile e il lavoro mi permise di non impazzire. Ho tantissimi ricordi di quegli anni ma c'è un episodio che più di ogni altro mi ha segnato. Ero seduto all'ombra del granaio in attesa del camion che ci avrebbe riportati al campo quando scoppiò un temporale violentissimo, tutti cercammo riparo all'interno del magazzino, il gruppo di lavoratori di colore non si mosse fino a quando non furono entrati tutti i bianchi, prigionieri compresi. Ci raggiunsero senza correre e presero posto nell'angolo più lontano. Tra loro un bambino di sei, sette anni stava aggrappato al grembiule della madre. Mi avvicinai e accarezzandolo gli porsi una piccola trottola di legno che avevo ricavato intagliando un ramo. Rimase immobile guardando un punto indefinito e prima di rendersi conto di quello che stava succedendo un lampo di terrore gli attraversò gli occhi. Fu un attimo ma non l'ho più scordato. Guardi quella gente e ti senti fortunato anche in quelle condizioni. I loro sguardi non vanno oltre la disperazione.
La prigionia insegna a distinguere la libertà individuale da quella di un popolo. Ti fa capire quanto sia importante comprendere, per essere davvero liberi. Vedi con più chiarezza ciò che hai lasciato e spesso finisci per sentirti più libero in quel campo che nel tuo paese. Ripensi ai silenzi, alle finzioni, a quando eri obbligato a tacere nascondendo il tuo disprezzo. All'umiliazione di quel silenzio.
... e ti accorgi che le distanze con quei negri possono essere minime.
Nel giugno 1946 l'attesa era spasmodica, le voci di una imminente liberazione circolavano da tempo e la tensione aveva rotto il normale equilibrio di quella comunità, non solo i prigionieri ma la stessa popolazione indigena e le guardie del campo ne erano contagiati. La conferma del rimpatrio arrivò insieme ai mezzi di trasporto militare che ci portarono ad Alessandria d'Egitto. Fummo imbarcati sull'incrociatore Duca degli Abruzzi e dopo tre giorni di navigazione arrivammo a Napoli. Si respirava l'euforia per la fine della guerra e la voglia di ricominciare si percepiva in ogni gesto. Qualche mese prima c'erano state le prime elezioni: l'Italia era diventata una repubblica e i festeggiamenti non erano ancora finiti.
Le illusioni però non durarono molto, i tanti che speravano in un miracolo dovettero prendere atto che il marciume accumulato non sarebbe stato rimosso tanto in fretta.
A Ferrara ero arrivato con mezzi militari. Per raggiungere Mesola ottenni di salire sulla littorina che da Porta Reno mi avrebbe portato a Codigoro *1, poi sarebbe stata una passeggiata, una lunga meravigliosa passeggiata.. Il controllore mi riconobbe e dopo avermi trovato un posto mi raggiunse per fare due chiacchiere: i fascisti si erano tolti la maschera ma continuavano a occupare molte poltrone importanti, qualcuno aveva bruciato la casa del podestà.
"Naturalmente ti avranno informato che Sara e Biagio si sono sposati, hanno una bambina. Un parto difficile, lei poveretta non si è mai rimessa del tutto."
Ho pochissimi ricordi dei giorni successivi, mia madre in lacrime, l'abbraccio commosso di mio padre. Mio fratello che sembrava quasi invidiarmi per tutte quelle attenzioni. Non mi mossi da casa per molti giorni, per fortuna la distanza dal paese mi permetteva un isolamento quasi totale. Aiutavo i miei nei campi e quando non lavoravo andavo a pesca lungo il fiume. Quante volte avevo ricostruito quei luoghi, li avevo disegnati. Quante volte avevo sognato di rivederli, adesso li avevo ritrovati ma non sentivo i profumi, i colori quasi mi infastidivano. Non c'era cespuglio che non mi ricordasse episodi della mia adolescenza, momenti felici vissuti con lei. Tentavo di scacciare il suo sorriso, le sue corse sull'argine. I primi baci che poi sono stati anche gli ultimi. I giorni trascorrevano e lentamente ripresi il controllo, quei ricordi mi tenevano compagnia, vivevo alla giornata, ero consapevole che avrei dovuto decidere cosa fare del mio futuro ma non c'era nessuna fretta.
Fu proprio in una di queste occasioni che incontrai Vanina, la sorella più piccola di Sara. L'imbarazzo era palpabile, mi guardava quasi intimorita e sembrava paralizzata. "Non aver paura, non hai nulla da temere."
Scoppiò in singhiozzi, mi corse tra le braccia stringendomi forte. La lasciai piangere, accarezzavo i suoi capelli quasi inebetito. La somiglianza con Sara era straordinaria.
"Se Biagio viene a saper che ho parlato con te mi ammazza". Feci la croce con le dita in segno di giuramento come facevamo quando era bambina.
"Non sono arrabbiato con tua sorella, la guerra è una brutta bestia. Mi basta saperla felice."
Quelle parole ebbero un effetto dirompente, riprese a singhiozzare e cominciò a parlare in modo sconnesso faticavo a seguirla ma, quello che avevo intuito bastava: l'aveva violentata. Quel porco l'aveva costretta con la forza e messa incinta. Vagai per ore sul fiume, gridai, piansi. Poi d'incanto tutto mi fu chiaro.
Tornai a casa e obbligai mia madre a raccontarmi tutto. In un paese come il nostro certe cose non si possono nascondere. Ripresi a frequentare la casa del popolo, riallacciai il rapporto con i pochi amici rimasti. Una domenica mattina incontrai Biagio con tutta la famiglia, uscivano dalla chiesa. Accennai un saluto senza avvicinarmi e fui ricambiato nello stesso modo. Mi sforzavo di sorridere, per fortuna nessuno poteva leggermi il pensiero, sarebbe fuggito terrorizzato. Cominciai a elaborare un piano, non ero certo di fare sul serio ma più prendeva forma e più diventava reale. Individuai una casa molto vicina al fiume, un vecchio rudere inservibile ma il fienile poteva fare al caso mio. Cominciai a portarci vivande, acqua, qualche libro. Per non dare nell'occhio mi muovevo con molta cautela, non era il tempo a mancarmi. Con i miei e con gli amici manifestavo sempre più spesso il desiderio di ripartire per cercare fortuna altrove. Una notte non rientrai e mi trasferii al vecchio fienile. Una lettera ai miei che motivava il mio gesto completò la messinscena.
La sistemazione si rivelò accettabile. La notte facevo lunghe passeggiate sul fiume, mi godevo gli ultimi giorni di un autunno che avevo sognato diverso. Spesso non riuscivo a scacciare l'angoscia, sapevo che stavo progettando la mia fine ma l'odio e il rancore erano più forti di tutto. Una notte rischiai di brutto, per fortuna il silenzio era assoluto e potei percepire le voci in tempo per nascondermi. Tre uomini, riconobbi solamente Alvo, stavano scendendo il fiume per recuperare le reti e si muovevano con cautela per non farsi scoprire. Mi accorsi che parlavano di me, non distinguevo tutto ma, abbastanza per dare un senso ai loro discorsi: la mia sparizione, il nervosismo di Biagio e poi una frase nitida, "l'è mei che Luigi al sia andà via, sles imparà la vrità al la copava." *2
Fui sul punto di saltar fuori dal mio nascondiglio ma, strinsi i pugni e rimasi immobile. Non c'era niente da aggiungere, sapevo già abbastanza e se avessi avuto voglia di altri particolari li avrei chiesti direttamente a quella carogna.
All'alba rientravo e dormivo fin quasi al tramonto. Costruivo fionde, qualche trappola, intagliavo legno. Scavavo fosse. Tutto filava liscio, l'esperienza del campo si stava rivelando preziosa. Coltivavo odio stando ben attento a non disperderne nemmeno una goccia.
Una volta nel campo fui avvicinato da un prigioniero che mi chiese se ero a conoscenza dell'utilizzo di gas tossici e dei danni che avevano provocato nella popolazione. Gli risposi che mi sembrava impossibile si potesse fare una cosa simile a delle persone. Vittorio, un fanatico che si vantava di aver ucciso molti nemici a mani nude, aveva ascoltato la conversazione e accennando un sorriso cattivo disse "infatti non sono persone, sono negri."
Anche quello era odio. Allora pensai che non avrei mai voluto assomigliargli, adesso nel buio del fienile quel pensiero mi assillava ma, nulla avrebbe potuto farmi cambiare idea.
Ad ogni tramonto facevo una tacca nel manico del badile che usavo per scavare, quando arrivai a cento decisi che era arrivato il momento. Il copione lo conoscevo a memoria, lo avevo ripassato migliaia di volte anche se l'ansia aumentava. Una notte lo aspettai fuori dal circolo, conoscevo le sue abitudini e se anche ci fosse stato qualche intoppo avrei solo rimandato di qualche giorno. Invece filò tutto liscio, rimasi nascosto dietro una siepe finché non imboccò l'ultimo tratto di strada, quello che avrebbe dovuto percorrere da solo. Sbucai alle sue spalle, gli puntai la Beretta M34 alla testa e lo obbligai a seguirmi. Sorrisi all'idea che stavo usando l'arma che mi aveva fornito il regime. Ero riuscito a sotterrarla prima di essere fatto prigioniero e recuperarla prima di ripartire dall'Africa. Un gesto incosciente che avrebbe potuto costarmi la vita. Un gesto incomprensibile considerando che non avevo praticamente mai sparato.
Camminavamo in silenzio, la destinazione era lontana e sarebbero servite quasi due ore per raggiungerla. Provò ad aprire bocca ma gli intimai di tacere. Il freddo era tagliente, la campagna sembrava infastidita dai nostri passi, forse voleva restare sola o forse era il modo per dimostrarmi la sua disapprovazione. Le pozzanghere sulla strada sterrata sembravano trappole seminate per difendere l'argine. La luce della luna illuminava il sentiero che immetteva nella golena, gli dissi di fermarsi. Appena vide la buca tentò di fuggire ma sparai e lo colpii a una gamba. Cadde a terra gridando a squarciagola. Gridava con tutta la forza che possedeva ma, invece di supplicare cominciò a inveire: "sei un codardo, non avrai il coraggio di uccidermi. Pezzo di merda pensavi davvero che ti avrei lasciato Sara? Tu un pezzente. Sono stato io a mandarti in Africa... dovevi sentirla, gridava, mi implorava di non farlo..." Mi avvicinai e guardandolo negli occhi senza aprire bocca mirai alla testa. Bastò un colpo solo. Lo scaraventai nella buca e mi fermai a guardarlo a lungo prima di ricoprire di terra quella che sarebbe stata la nostra tomba per l'eternità. Una chiazza di alberi che la primavera avrebbero reso inaccessibile.
Tornai al fienile, sfinito mi abbandonai in quel letto improvvisato, stavo malissimo, vomitai più volte e ascoltavo la mia voce che urlava parole senza senso. Non saprei dire per quanto tempo rimasi in quello stato, un giorno però vidi la luce del sole entrare dalle fessure. Ero vivo. Mi concessi il tempo necessario per recuperare le forze, non temevo di essere scoperto ma, le scorte si stavano esaurendo. Il pane era talmente duro che dovevo intingerlo nell'acqua per poterlo mangiare.
Sotterrai tutto quello che poteva rivelare la mia presenza e viaggiando a piedi e sempre di notte mi allontanai per sempre.
Tornai in Africa dove ritrovai qualcuno con cui avevo condiviso l'esperienza del campo. Per me la guerra non era finita, forse non sarebbe finita mai. L'idea era di cercare lavoro in qualche fattoria ma, il giorno stesso del mio arrivo fui colpito da una febbre altissima, e qualcuno dovette accompagnarmi in ospedale. Un piccolo ospedale dove un medico italiano aveva deciso di sfidare le leggi della natura: dieci persone, comprese le tre suore che gestivano anche la mensa per una cinquantina di ricoverati. C'era anche un ambulatorio dove sempre lo stesso medico visitava anche sessanta persone al giorno. Il medico mentre mi comunicava che ero guarito mi propose di restare a lavorare e non mi sono più mosso.
Sono tornato a casa una sola volta per il funerale di mia madre. Mio padre era morto poco dopo la mia partenza ma, ne ero venuto a conoscenza solo dopo molti anni. Nessuno dei miei ricordi trovò conferma, nemmeno il cimitero sarei stato in grado di riconoscere. Passai in rassegna le tombe, il mio mondo era tutto lì, quello dei vivi ormai apparteneva ad altri. Ritrovai Sara. Nella lapide era incisa la data della morte: 2 novembre 1948. C'era anche un quadretto con la foto di Biagio in divisa. Nessuna scritta, nessuna data. La conferma che non era mai stato ritrovato. Le indagini furono chiuse quasi subito. Non era stato un fatto isolato, c'erano stati altri fatti di sangue, qualche fascista fucilato e abbandonato, molte rappresaglie ma, le indagini non decollarono e la voglia di girare pagina aveva avuto il sopravvento.
Mio fratello nel raccontarmi questi dettagli si lasciò sfuggire "Se fossi rimasto qualcuno probabilmente ti avrebbe dato la colpa". Rimasi in silenzio e lui fece lo stesso.
Nemmeno il fiume era più lo stesso, faticai a trovare il punto esatto, mi venne in aiuto un vecchio pontile rimasto miracolosamente al suo posto. Salii sull'argine, l'alba era spuntata da poco, il cielo era di un azzurro spento, una leggera brezza muoveva appena l'acqua. Mi accorsi che stavo piangendo perché le lacrime calde facevano da contrasto con il freddo umido di quell'autunno. Mi sentivo svuotato, la rabbia e l'odio che mi avevano sorretto per più di quarant'anni erano svaniti lasciando il posto alle domande che avevo sempre represso. Non mi sentivo in colpa, anche se davanti al sorriso spento di Sara ho vacillato. Ma Sara era già morta.
Guardando il fiume ho pensato per un attimo che poteva essere la soluzione ma, sarebbe stato troppo facile. Rivolsi un ultimo sguardo a quella chiazza di alberi con la certezza che non li avrei più rivisti.
* * * * *
*1: Ferrara - Codigoro la linea ferroviaria che collegava la città con il basso ferrarese. È ancora attiva.
*2: è meglio che Luigi se ne sia andato, se fosse venuto a saper la verità l'avrebbe ucciso.
N. d. A.
Ho letto Point Lenana (Wu Ming 1 e Roberto Santachiara) e subito dopo Fuga sul Kenia (Felice Benuzzi) dal quale avevano tratto lo spunto. Ho ripensato a un fatto che sentivo raccontare da mio padre, frasi mozzate, ricordi confusi. Troppo poco per raccontare quella, abbastanza per inventarne una. La scelta di Mesola, del Po, del basso ferrarese vuole essere un omaggio alla bellezza di luoghi troppo spesso ignorati.
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