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San Giorgio-parte terza
Profondo ammiratore e servo devoto di Santa Madre Chiesa, la prima azione del cavaliere fu quella di scendere da cavallo prima di accostarsi ai due ecclesiastici, operazione che gli permise di attendere alla debita distanza che la folla si diradasse del tutto. Avvenuto ciò si diresse, questa volta con passo calmo e quasi interrotto, verso i due uomini, che lo notarono già da lontano.
Ora si poneva il dubbio sulla precedenza degli omaggi, in quanto prediligere uno sull’altro avrebbe potuto causare malintesi e pregiudiziali antipatie. Optò per la soluzione più astuta. Giunto in prossimità dei due uomini, si inginocchiò e cominciò a declamare con voce sicura : “ Credo in un Solo Dio, Padre Onnipotente…”, a tali parole, ci fu un cambiamento di espressione da parte di tutti e due i personaggi : quello in piedi alzò un sopracciglio ed inclinò la bocca in uno specie di sorriso stupito, frammisto a compiacimento incredulo, l’altro, sempre accovacciato al lato del piedistallo, inclinò leggermente il capo ed emise un suono che pareva integrare nel suo significato disillusione e scherno. Uguale fu la successiva azione di tutti e due, che fermarono la declamazione di Giorgio, in particolare l’uomo in abito talare disse: “Non siamo in tempo di eresia, cavaliere, non c’è bisogno di proclamare il Nostro Santo Credo, ma apprezziamo il tuo desiderio di mostrare devozione”, l’ altro aggiunse: “siete un chierico di qualche ordine combattente?”. Giorgio, mantenendo sempre la posizione inginocchiata, guardava i due personaggi alternativamente, inclinando le pupille sotto la fronte agrottata, col capo reclinato in avanti, riflettendo a chi dei due dovesse per primo rivolgere la parola. Alzandosi in piedi lentamente, decise di mantenere una linea di equilibrio: “Il Credo è sempre il miglior segno di riconoscimento per chi opera alla luce della Fede, anche per chi vive nel Mondo ed è un semplice uomo, quale io sono, Giorgio, figlio del Conte Aghemo Di Pseudindia, servo del nostro Imperatore, devoto fedele del Santo Padre”.
“Bene, voi siete il messo imperiale che attendevamo da tempo, Giorgio Cavaliere” disse l’uomo in piedi, porgendo la mano, munita di grossi anelli, che il giovane si affrettò a baciare. “Ma giungete quanto mai in ritardo” soggiunse con voce stanca il vecchio vestito di iuta.
Ora che era in piedi, vicino a quelle due uomini, Giorgio, poteva osservarli in tutta la loro figura e coglierne appieno il lampante contrasto.
Il primo, che -ormai era evidente- era un vescovo, troneggiava su quel piedistallo, rivelatosi poi essere il capitello di una vetusta colonna, come se fosse la guglia di una cattedrale, cesellato fin nel più piccolo particolare, eccezion fatta per il volto e le mani, che spuntavano fuori da tutto il resto.
Già, perchè tutto il resto era di per sé un microcosmo visivo: l’intera figura del personaggio era ricoperta da un pesante paramento ecclesiastico, che discendeva fin oltre ai piedi, dando l’impressione che non ci fosse distacco fra la persona ed il blocco di pietra. Tale paludamento era degno di un arazzo Fiammingo. Composto di stoffa broccata, di un blu lapislazzulo intenso, alternava a quest’ultima delle damascature dorate che componevano motivi floreali richiamanti il cardo, il garofano e l’iris, con chiari riferimenti alla morte e passione di Nostro Signore. I bordi del mantello, senza i quali non si sarebbe fatta distinzione fra il medesimo e l’abito vero e proprio, tale era l’intensità e lo spessore della stoffa, erano decorati con ricami d’oro e di porpora, raffiguranti tutta una serie di sante e santi, raccolti dentro delle piccole strutture architettoniche, delimitati ai due bordi da una sottile linea di perle irregolari, ma estremamente piccole nella fattura e quindi per nulla discordanti le une dalle altre. Il vestiario, già di per sé pesante e duro, era poi fissato all’altezza del petto, da una vistosa ed incredibile fibula, così lavorata da incatenare con prepotenza lo sguardo dell’osservatore ad essa: si presentava come un disco piatto, rotondo, con un bordo di oro traslucido, nel centro del quale un rubino a forma rettangolare mostrava tutto il suo fulgore, acquito dal contorno di zaffiri e perle che gli era stato posto attorno, proprio con l’intento di far risaltare le reciproche cromie.
Lo sfavillarre di una tale e tanta preziosità aveva poi il suo acme nel momento in cui l’occhio, che aveva bisogno di non poco tempo per osservare tutti questi tesori, si spostava sulla tiara che il Vescovo portava.
A differenza di quelle canoniche ed anche in contrasto con esse, era letteralmente ricoperta di pietre preziose. Quasi fosse una pelle colpita da qualche malattia bubbonica, qui la stoffa era crostificata di perle, chiazzata di rubini grossi come ferite, attorno ai quali, in maniera casuale, ma sicuramente studiata, altri piccoli zaffiri della medesima tonalità del vestito erano stati posti come riempitivi. Completavano la decorazione un grosso quarzo nero tagliato in maniera romboidale ed incastonato dentro una cornice di sei perle-le più grosse di tutta la serie-posto all’altezza della fascia frontale della tiara. Infine, dietro la testa scendevano due nastri nei quali era possibile riscontrale la precisa alternanza di uno zaffiro, quattro perle montate a guisa di croce greca, un rubino e poi di nuovo questa sequenza fino al termine della fascia, dove altri tre quarzi neri bloccavano tre piccoli pennacchi di stoffa rossa.
“Costui si porta addosso un tesoro…una sola di quelle perle chissà per quanto avrebbe potuto dar pane a quei contadini…” pensava Giorgio tra sé e sé, in un misto di ammirazione per tale bellezza e di rimprovero per una ricchezza così ostentata e decisamente fuori luogo, soprattutto data la manifesta miseria di una regione in cui, molto probabilmente, lui era l’unico ecclesiastico di un certo livello rimastovi.
A fare da contraltare ad un simile abbigliamento, vi era il vecchio seduto sul bordo del medesimo capitello, per il quale bastava un’occhiata veloce di esame.
Un semplicissimo mantello con cappuccio di un colore misto tra il grigio cenere e la terra umida, forse anche macchiato e sbiadito dal tempo, sotto il quale emergeva una tunica di iuta piena zeppa di rattoppi e cuciture. Le scarpe, che, a differenza del Vescovo, erano ben visibili, sembravano poco più che stracci tenuti insieme da una cordicella.
Tanto era accuminata la figura del primo, tanto pareva curva quella del secondo: appoggiato sul suo bastone, la linea della schiena si piegava in una tale parabola da sembrare gravata da un grande peso. Entrambi infatti reggevano in mano un sostegno, ma con atteggiamenti diametralmente opposti. Il vescovo recava nella mano sinistra un pastorale che, ad un primo sguardo, pareva d’oro ed intarsiato d’argento, sulla cima del quale, preceduto da un elemento decorativo a cuspide, formato da una serie di nicchie intagliate nell’avorio, che ricordavano contemporaneamente le effigi di santi del mantello e le evoluzioni architettoniche della cattedrale lì vicina, si stagliava una croce i cui bracci erano composti da un materiale vitreo, di sostanza indefinibile, davvero stupefacente per trasparenza, alle cui estremità, prima di quattro terminazioni d’oro sbalzate in forma floreale, trovavano ancora spazio quattro piastre circolari di smalto blu intenso, in perfetto accordo col colore del vestito e dei gioielli.
Il monaco invece, come già accennato, poggiava le sue mani su quello che un tempo doveva essere il ramo di un ulivo o di qualche altra pianta vivamente nodosa: il manico ricordava la forma della lettera tau, ma senza mai assumere finiture di intaglio regolare. Il corpo di tale sostegno assumeva la vaga forma a spirale man mano che scendeva verso il terreno, intervallando ad una serie di nervature parallele, dei noduli lignei di svariate forme e dimensioni, alcuni di essi anche molto sporgenti; a tratti era difficile capire se una volta fosse stato effettivamente un ramo, piuttosto che una radice.
La situazione però si invertiva nel momento in cui ci si soffermava sui volti e sulle mani dei due personaggi, ovvero sulle uniche parti anatomiche realmente visibili di questi due uomini.
Su quelle del vescovo c’era poco da dire: si adattavano molto bene ad una figura che, nel suo complesso, pareva poco umana.
Lunghe, appuntite, con le dite rivolte in un’unica direzione, sembravano punte di alabarda intagliate da qualche fumista dentro una sottile lastra di metallo, ricoperte da un vellutato strato bianco di verniciatura -i guanti- per poi averci incastonato sopra una serie di anelli con i soliti colori ormai noti.
Ma quelle del monaco erano mani che difficilmente si scordano: uscivano dal logoro saio come una rivelazione.
Grandi, callose, con le dita che si avvolgevano attorno al bastone, parevano due grosse radici che, esaurito il terreno in cui muoversi, fuoriuscivano dal pendio dove la pianta madre aveva anni prima attecchito, venendo a loro volta ricoperte da tortuosi tralci d’edera?"le vene¬- che si facevano da parte solo dove le asperità del legno erano troppo dure e cioè in prossimità delle nocche, incise da rughe come lo è l’interno di un albero dagli anelli del tempo.
Coi due volti, infine, la cesura diventava totale.
Sporgente da un ampio e sottile bordo e schiacciata della geometrica mitra, si trovava una testa di medie proporzioni, i cui capelli erano completamente coperti, nascosti dal copricapo -così che avrebbe anche potuto essere pelato da quel che si vedeva- dove i lineamenti del volto, per lo più affilati e scarni, lasciavano spazio a due occhi così freddi e chiari nel loro azzurro, da stonare con tutte le altre tonalità presenti in questa figura, o, parimenti, da rappresentare la massima gradazione di una scala di tonalità, che dal mantello alle pupille, aveva tutti i possibili toni del ceruleo. Da contr’altare a ciò, un mento che, pur non essendo il Vescovo un uomo grasso, era doppio e per giunta ricco di corti e setolosi peli neri, di una barba che era stata rasata, ma che probabilmente la delicatezza della pelle non permetteva di accorciare più spesso, simili anch’essi all’opera di un fabbro.
Seminascosto dal cappuccio e visibile solo di profilo, il volto del vetusto monaco sporgeva anch’esso, ma, come un sottobosco che, ogni anno e per molti anni, in Primavera risorge da un manto di foglie secche, esso rivelava un particolare fascino.
La prima ad esser vista era la barba, composta da lunghe ed annodate fila di crini bianchi e grigi, dove il colore era disposto in maniera eterogenea, molto simile a quei drappi di muschio e foglie che è possibile trovare appesi a vecchi alberi in prossimità di qualche palude. Seguiva la bocca, contratta da profonde rughe, col labbro inferiore portato in avanti rispetto al superiore, lasciando intendere che molti denti non c’erano più da tempo; il naso, dal profilo marcato, greco, pieno di pori scuri e dilatati, di come chi non è avvezzo a troppi bagni; le guance, picchiettate di ampie macchie scure difficilmente distinguibili tra nei e lentiggini simili a quei licheni che si vedono sulle rocce ad alta quota; le sopracciglia, lunghe, canute e raccolte in disordinati ciuffi, fin sopra a due occhi, questi si, di un azzurro vivo, intenso, pieni di intelligenza e consapevolezza; ed infine i capelli, rappresentati da un unico ciuffo sporgente sulla fronte e intriso di vecchiezza.
Nel vedere queste due figure, Giorgio aveva squadernati innanzi a se i due estremi della classe di chi è destinato a pregare: quelli che volevano fare di questo mondo -quello ecclesiastico- una realtà che rispecchiasse, con quante più ricchezze possibili, gli splendori della Gerusalemme Celeste, e quelli che il mondo?"ecclesiastico e non- lo disprezzavano e lo vivevano come un deserto, del corpo e dell’anima.
La sua propensione per tutto ciò che fosse bello, gli faceva giustificare il più grande lusso mai esistito e cioè quello della Chiesa, ma la sua ammirazione per gli anacoreti non era mai venuta meno, sebbene lui fosse stato di tutto tranne che eremita.
“Come mai dite che giungo in ritardo? Il Drago è già stato ucciso da qualcun altro per caso?” disse, rivolgendosi al monaco, vedendo che però egli non rispondeva girò il suo sguardo verso il vescovo, attendendo da lui una risposta.
“In ritardo perché, quello che voi chiamate drago, ha ormai fatto tutti i danni che gli era possibile compiere”.
“Ma come? Di che danni parlate? Gente del popolo mi ha riferito di campi distrutti ed armenti divorati vicino alle campagne, ma qui in città, sebbene mi sembri poco affollata, non mi pare di vedere danni agli edifici…. a cosa vi riferite dunque?..” disse Giorgio con fare interrogativo e guardandosi intorno come per trovare con gli occhi una risposta ai suoi dubbi.
Il Vescovo allora fece un sussulto come se si fosse sentito chiamato direttamente in causa, poi proruppe: “ Prima di tutto voi ignorate che esso non è un Drago come sono soliti chiamarlo la gente del popolo, ma è un vero e proprio Demonio!!!” -Giorgio tirò indietro il collo e aggrottò la fronte- “ Si, messere, io vi dico che questa creatura sorge dalle più profonde viscere dell’Inferno con uno specifico compito affidatogli dall’Avversario in persona!!”.
“ Vi paleso il mio stupore nel sentire che le vostre informazioni sono diverse da quelle che ho raccolto in precedenza….” Disse il cavaliere con tono di voce bassa.
“Tacciano quegli zotici del volgo! Disobbedienti spergiuri, miscredenti senza carità…devono la questua alla Santa Madre Chiesa e dicono che non hanno più denaro, aumento le loro tasse e dicono che è già stato tassato tutto quello che hanno, io gli sequestro i beni per il sostentamento della diocesi e loro dicono che non c’è più niente da portar via: insolenti!!!
Non credete ad una sola parola di quello che esce dalle loro impure bocche; oltre ad essere bugiardi sono anche sciocchi, come ogni popolano del resto…non si può pretendere che sappiano cosa effettivamente sta flagellando la nostra regione ormai da tempo immemore. Quel che vi possono riferire è per lo più diceria e menzogna. Ma io, Vescovo di questa diocesi, io, vi dico, ho più di una volta incontrato personalmente l’avido Demonio contro il quale ormai in pochissimi opponiamo una resistenza disperata”. Nel dire tali parole, il prelato agitava la sua bocca con fare nervoso.
“In pochi? Eppure mi fu detto, prima della partenza, che questa regione è ricca di monasteri, di chiese e parrocchie…per giunta, non vi è d’aiuto l’autorità locale rappresentante l’Impero?” . Quando Giorgio parlò così, il Vescovo reclinò la testa leggermente indietro e guardò il cavaliere dall’alto in basso con gli occhi quasi del tutto chiusi, simili a due punte di freccia, poi disse con tono sibilante: “ Qui sta uno dei principali danni compiuti da quel Demonio... le chiese, le parrocchie, fin anche i ricchi conventi della regione, si sono spopolati del tutto.. la paura per la sua potenza ha fatto fuggire i più, ai restanti ci ha pensato la particolarità di questo demone; quanto al potere secolare di cui parlate, non c’era bisogno di un diavolo perché esso cadesse nello sfacelo più totale, ma del resto, è chiaro come il centro dell’universo, che i poteri imperiali passano e decadono, solo la Chiesa resta”.
Giorgio era sempre più straniato da quelle risposte che mescolavano arroganza, ingratitudine per l’aiuto giunto e un certo grado di allucinata sconclusionatezza, ma, pensò tra sé, un simile disordine mentale doveva di certo essere stato causato dalle gravi difficoltà in cui il Mostro, Drago o Demonio che fosse, aveva gettato quei luoghi. Mentre rifletteva gettò, questa volta in maniera insistente, una serie di occhiate al monaco, che intanto non si era mosso minimamente, per vedere se anche lui fosse del medesimo avviso del vescovo.
“Oh, non curatevi di lui….è così da quando ha visto il demone di cui vi stavo parlando. Non parla e se parla dice sempre le medesime frasi o si limita ad affermazioni essenziali. La sfavillante mostruosità del demonio, l’ha reso quasi muto.” Disse il Vescovo spostando leggermente il capo, che non aveva mai variato la sua posizione frontale fino ad allora, per non perdere di vista Giorgio, che rispose dicendo: “ Sfavillante….. mostruosità…..?”. “Certo…è proprio questa la particolarità del diavolo in questione…il suo aspetto, tanto più terribile quanto splendente”.
“Vi prego, continuate…è ciò che devo sapere per poterlo affrontare!” Giorgio si agitò improvvisamente “ditemi tutto quello che mi può essere utile per la battaglia!”. Conoscere dettagli sul prossimo nemico da affrontare era un fatto che riteneva assai importante.
Ci fu un attimo di silenzio in cui il Vescovo si preparò ad esporre la sua versione dei fatti, poi, con fare ricco di compiacenza, disse: “Voi dunque, mi chiedete quale sia l’aspetto del Demonio…. e sia, Cavaliere.
Esso mostra un corpo allungato, elegante, sinuoso, per circa venti leghe, una grazia di cigno ne anima il collo, anch’esso assai lungo, mentre le zampe, esili, guizzano col fare leggiadro della cicogna. Eppure, esso è immenso anche in grandezza, terribile nella sua dimensione, gareggia col Baphomet per mole. Invero, si potrebbe dire che una così grande stazza sia più facile da colpire, eppure esso non viene ferito da arma creata da uomo, poiché le parti del suo corpo, la Natura non le ha fatte con la carne.”
“Cosa state dicendo? Vi prego di essere serio e di non sottovalutare la mia autorità”, il Vescovo non fece caso all’ammonimento di Giorgio e continuò la sua descrizione:
“La pelle del suo corpo, risplende come l’arcobaleno, mille pietre colorate ne compongono le scaglie. Sul dorso, una cresta di smeraldi lo protegge come una tartaruga, essi battono il più immenso dei boschi per intensità di colore.
I suoi nervi si intrecciano saldi, ben visibili nelle linee d’argento che ricoprono i fianchi. Le gambe, poi, tutte rosse come sangue, sfavillano di rubini grezzi, non secondi ad alcuna stanza di porfido. La coda, sempre guizzante nell’aria, esibisce pezzi d’avorio e madreperle. Non la tiene mai ferma, risuona come sognagli di metallo! Si potrebbe pensare di scorgere un punto debole nel ventre, invece esso è inattaccabile, poiché per intero è ricoperto di purissimi diamanti, non vi è spiraglio che consenta affondo, crepa che preceda rottura, così come i suoi artigli e le sue zanne, lance adamantine per frantumare la pietra. Gli occhi poi, paiono due topazi usciti da braci ardenti, infernali lapilli, gioielli dalla viscere della terra! Esso è di per sé un tesoro superiore a tutte le miniere, ad ogni collezione di re.
Ma la suo maggior fulgore lo rivela quando compare all’alba ed al tramonto, cioè quando esso dispiega le sue ali. Se vi capiterà di scorgerlo quando le spalancherà al sorgere del sole, esso vi abbaglierà senza possibilità di resistervi, poiché con membrane d’oro egli rende bianco e rovente ogni oggetto che lo circonda. Un secondo sole vi si mostrerà innanzi.
Al crepuscolo, invece, esse saranno fiammanti come rame ardente, calde come piombo fuso, faranno evaporare anche l’acqua.
Mille volte più sgargiante del pavone, imbattuto anche dalla fenice, esso supera coi suoi metalli ogni creatura del Mondo. Invero io credo che Satana l’abbia creato impiegando ogni tesoro del ventre infernale.”
Giorgio rimase senza parole. Non sapeva se credersi preso in giro o se invece erano stati i contadini a mentirgli.
Un imbarazzante silenzio venne a crearsi per qualche istante, poi si ricordò di un particolare che prima lo aveva colpito: “La descrizione che ne date, mi lascia alquanto perplesso…tuttavia, vi chiedo di spiegarmi in che modo la penuria di chierici e l’abbandono dei conventi sia legato all’apparizione di questo demonio.”
“Dopo quel che vi ho detto, dovrebbe risultarvi abbastanza facile da comprendere, ma, se non è così, ascoltate quanto segue. Non è di campi, di bestiame e di carne umana che esso si nutre. Infatti, se è pur sempre vero che è in grado di uccidere cento uomini in pochi istanti, il suo nutrimento sono le ricchezze. Esso si nutre delle pietre di cui è fatto. Mangia il lusso, divora le preziosità.
Nessuna turibolo d’oro o d’argento è scampato alla sua fame, nessun tesoro conventuale è stato risparmiato dalla sua ricerca. L’oro delle Nostre casse ha riempito il suo ventre.
E ad ogni razzia egli diventa più prezioso, la sua pelle si ricopre di nuove gemme. Come un serpente che muta le squame, così esso trova nuovo spazio sul suo corpo per i Nostri ori.
Tutti coloro che han tentato con la lotta o con le preghiere di fermarlo, sono periti o scomparsi, invero solo io ho resistito fino ad ora, custodendo tutto quello che mi è stato possibile trovare.”
“Un ladro di tesori, anzi un vero e proprio tesoro ambulante” disse Giorgio a voce bassa “E ditemi, in grazia di quale miracolo voi siete sopravvissuto insieme a questo monaco muto alla terribile bestia di pietre preziose? Da quel che vedo sembrereste una preda perfetta per un mangiatore di tesori…”
“In grazia della mia Fede che mi ha permesso di scampare fino ad ora alle brame di quel demonio…” disse il prelato con un visibile tono di stizza “fede che hai voi sembra mancare, visto che osate muovere insinuazioni contro un vicario di Dio..”.
Giorgio si sentì compunto, ma cercò di nasconderlo in tutti i modi: la sua fede messa in dubbio, questo lo spaventava alquanto.
“Non intendevo di certo mancarvi di rispetto, notavo solo che sicuramente i vostri meravigliosi paramenti dovranno far gola a questo demonio, soprattutto in una regione dove sembra che la cosa più necessaria sia il cibo per sfamarsi più che le ricchezze per distinguersi” rispose con tono molto più pacato.
“Se siete sufficientemente istruito?" ribattè prontamente il vescovo- per apprezzare la bellezza della veste che indosso in nome di Cristo, lo siete anche per rammentare gli insegnamenti di Agostino, Gregorio Magno, Basilio e tanti altri.” Giorgio capì che il suo interlocutore stava alzando lo stendardo di una logomachia volta a giustificare se stesso.
“Bavone e Tundalo, nelle loro visioni, ci parlano di giardini paradisiaci dove sorgono castelli interamente d’oro, cinti da mura di perla, argento, rubini. Le innumerevoli descrizioni della Gerusalemme Ultraterrena ci dicono che i Celesti Palazzi degli Atleti di Cristo sono composti di oro che si perde dentro altro oro, quello della luce di Dio.
Le miniere di Salomone erano sconfinate ed i suoi sfarzi lasciarono senza fiato la Regina di Saba.
Il Tempio di Gerusalemme ed il suo trono, soli valevano tutte le ricchezze del mondo.
Persino il Dio degli Eserciti ci compare seduto su un’arca di Cherubini d’oro, così come Giovanni nell’Apocalisse parla di meravigliosi candelabri e Pietro custodisce due chiavi d’oro e d’argento.
Ora, noi, che dobbiamo essere, per quanto possibile, il più perfetto riflesso della Parola Divina, non dobbiamo forse adoperarci per far si che la ricchezza della Nostra Chiesa sia un simbolo della celestiale preziosità che ci attende al cospetto di Dio?
Non dovremmo forse innalzare veri tesori per la gloria di Nostro Signore?
Imperatori romani camminavano su polvere di diamante e sovrani pagani sacrificavano ad idoli d’oro. E non è forse giusto e santo recuperare tali ricchezze, perfin batterle, riconvertendole come prova tangibile, materiale, del trionfo di Cristo?
Le ricchezze nascono dalle viscere degli inferi. E non è forse nostro compito strapparle a Satana per mostrale alla luce dello Spirito Santo?
Ebbene, io non esito a dire che Dio vuole la sconfitta di quel demonio, per consegnare nelle mani della Chiesa i tesori per il suo trionfo!.”
La schiena di Giorgio, già tesa di suo, fu percossa da un brivido nell’udire tali parole.
“Capisco…” disse mentre era intento a risalire a cavallo. Non sapeva da dove cominciare nel controbattere alla sequela di follie pronunciate dal Vescovo e forse sarebbe stata solo fatica inutile, tuttavia non resistette a dare una risposta: “Farò tutto quanto è in mio potere per sconfigger questo…demonio e riportare le cose a quelle di un tempo” intanto un vento caldo che stava cominciandosi a levare sospingeva i ciuffi legati alla sommità della sua nuca ed i crini del cavallo al medesimo ritmo “ Ma vi prego di ricordarvi- e perdonatemi se da umile secolare quale sono mi permetto di dirlo- che tra gli angeli che caddero con Satana, vi fu anche Mammone, così innamorato delle ricchezze che, quando era ancora al cospetto di Dio, preferiva guardare il pavimento d’oro attorno al Suo trono, piuttosto che gloriarsi della visione del Padre. Pregherò perché in voi l’oro del pavimento e quello di Dio non si confondano.” Detto questo, Giorgio tirò le redini del cavallo senza degnare più di uno sguardo il vescovo, che intanto lo guardò con l’occhiata più carica di odio di cui era capace. Un semplice laico aveva osato fargli catechesi: “Farò personalmente menzione del vostro atteggiamento rasente la blasfemia al Santo Padre quando questa vicenda sarà finita...”
“Se, sarà finita…” lo azzittì Giorgio “ricordatevi che è proprio il Santo Padre che mi ha mandato qui per questo scopo. Occupatevi delle vostre ricchezze, sono certo che avrete maggior perizia che nel dialogo. Addio”.
Prima di andarsene, Giorgio gettò il suo sguardo sul monaco, che, per tutta la durata del dialogo, non aveva mosso il benché minimo ciglio.
Il cavaliere, già stizzito dalla discussione col vescovo, non aveva più tempo da perdere in convenevoli. Tagliò corto, dicendo: “E tu, monaco, hai qualcosa da dirmi in merito a questo demonio? Confermi quanto ha detto il Vescovo? Come è fatta la creatura?”.
Solo in quel momento, il monaco tirò su il volto per guardare il giovane cavaliere. Due occhi agitati, pieni di vita e di brama, penetrarono quelli profondi e castani del guerriero a cavallo. Giorgio si sentì spogliato. Spiato nell’interno. Un terrore lo pervase: sentiva che gli occhi di quel vecchio, in quel momento stavano leggendo il libro dei suoi segreti. Distolse immediatamente lo sguardo dal volto del vecchio, prima che esso potesse carpire le più recondite frasi delle pagine proibite, o almeno credette di farlo in tempo. Questo gli bastava.
Con fare più perentorio, ma senza mai guardalo negli occhi per un lasso di tempo troppo lungo, mostrando così che non intendeva lasciarsi studiare da quella sorta di muto inquisitore, disse : “Allora, possibile che voi non possiate dirmi nulla di utile?! Che non sappiate darmi quale descrizione del demonio?! Ditemi come diamine è fatto!!” La rabbia nella sua voce tradiva disagio.
Forse per questo, o forse non per questo, il monaco decise di dargli una risposta: lentamente, come se fosse il vento sempre più incalzante a sospingerlo, levò una delle mani dal manico del bastone, la poggiò sul terreno e raccolse un grumo di terra polverosa e ricca di sabbia che si trovava ai suoi piedi. Sollevò in aria la mano stretta a pungo, guardò Giorgio, il cui sguardo era di nuovo caduto vittima di quello del vecchio, dopodiché aprì lentamente le dita facendo cadere la sabbia in un nugolo polveroso trasportato dal vento. La sabbia scorreva via trasportata come fumo nel vento impetuoso. Scosse leggermente la mano in aria come per pulirla e poi indico verso un’altura situata alle spalle di Giorgio.
Il tutto durò pochi istanti, ma per il giovane sembrarono ora intere, interminabili momenti in cui si sentiva, senza apparente motivo, ammonito, giudicato, umiliato.
Non capiva il senso di un’azione che gli parve più fastidiosa di tutto il colloquio avuto col vescovo. Improvvisamente, come risvegliatosi da un torpore ipnotico, si accorse dell’indicazione datagli dal monaco e, dopo averlo guardato per un ultimo istante, dette un poderoso strattone alle redini e spronò il cavallo verso la direzione indicata.
La corsa verso la cima della collina era avvertita come una fuga dagli occhi del monaco. Qualcosa lo aveva ferito.
Fine terzo capitolo
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