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La gentilezza
"Perché sono qui?" pensai, mentre stavo cercando di ricordare, o forse di capire cosa mi fosse acca-duto.
Il mal di testa non mi aiutava, questo era certo, ma almeno mi permetteva di restare sveglio e non ripiombare nel coma da cui ero uscito non so nemmeno io da quanto. Avevo perso il senso del tempo e dello spazio e, credetemi, non esiste sensazione peggiore.
Sapevo che qualcuno mi aveva legato - del resto non serviva essere un cervellone per capirlo - e che a imprigionarmi era un letto a piazza singola con un materasso piuttosto duro. Doveva essere uno di quei materassi ortopedici che vendono in televisione e che sono sempre in offerta speciale.
Ecco, ero talmente confuso che la mia testa si soffermava in ragionamenti futili, in ricordi che avrebbero dovuto mantenermi collegato alla realtà, alla vita di tutti i giorni.
Poi tornavo in me, e sentivo il panico divorarmi da dentro.
Se c'è una cosa che ricordo con chiarezza è che di tanto in tanto urlavo, con tutto il fiato che avevo nei polmoni. Urlavo al nero che mi circondava, perché di luce non ce ne era nemmeno uno spiraglio. E le mie grida ritornavano al mittente sotto forma di un'eco che mi faceva rabbrividire, che aveva il potere di farmi sentire più solo di quanto in effetti fossi, e anche quella è una sensazione che non auguro a nessuno. Dicono che la solitudine altro non sia che una condizione volontaria, una forma mentis, ma sfido chiunque a provare una solitudine forzata come quella che ho dovuto vivere io. Non fosse stato per le corde che mi stringevano i polsi, che maligne me li bruciavano con stolta mancanza di vita, mi sarei sentito come fuliggine sospinta per una infinita canna fumaria.
Cercai di mettere da parte le sensazioni e di mettere in moto il cervello, unica speranza di salvezza e tutto ciò che di me esisteva in quel momento. Una spiegazione doveva esserci per forza, seppur non avessi nemici, anche se dubito che una persona ordinaria come me possa averne di tali da essere confinata in una condizione del genere.
Avevo fatto un torto alla persona sbagliata? Pensai che avrebbe potuto essere una chiave di lettura interessante.
Avevo forse visto qualcosa che non dovevo vedere? Forse.
Girai la testa, il collo aveva cominciato a dolermi.
Sgranai gli occhi, qualcuno mi stava osservando. Se ne stava rintanato nell'angolo alla mia destra, in silenzio.
Smisi di respirare per annullare ogni rumore. Avvertii il fiato del mostro, regolare ma affatto tran-quillo. Stava aspettando il momento giusto per aggredirmi, per prendermi, per allungare i suoi artigli su di me.
Sapere della sua presenza non mi dava alcun vantaggio. Non potevo muovermi, e non potevo fare a meno di fissare quell'angolo che conteneva il mio aguzzino.
Avrei voluto piangere, ma i miei occhi erano troppo secchi per permettermelo. Sentivo le mani e i piedi freddi, le labbra mi si serrarono impedendomi di aprire la bocca. Mi voltai dall'altra parte, chiusi gli occhi e non so come mi addormentai.
Fu una luce accecante a risvegliarmi. Faticai a riaprire gli occhi, e quando finalmente ci riuscii la vidi.
<<Ciao amore.>>
Provai a parlare, ma era una vera e propria impresa fare uscire qualcosa da quella caverna inaridita che era la mia bocca in quel momento.
<<Hai sete amore mio? Dopo ti porto un bicchiere d'acqua.>>
Mi fissava con occhi stanchi e gonfi, contornati da occhiaie degne di Nosferatu.
<<Mi prendo io cura di te,>> aveva detto, <<non devi più preoccuparti di nulla.>>
Mi chiesi chi fosse quella donna, non l'avevo mai vista prima.
<<Ci sono io adesso.>> aveva ribadito, come se io dovessi capirne qualcosa.
Mi accarezzò la fronte, prima di appoggiarvi sopra le sue ripugnanti labbra sottili e umide.
<<Dopo tanti anni siamo insieme, finalmente.>>
Avevo cominciato ad odiarla.
Non era una donna, era la strega delle fiabe che tolgono il sonno quando si è bambini.
<<Vado a prenderti l'acqua, aspettami qui amore.>> mi disse, con un sorriso ebete che sapevo avrei ricordato anche quando mi sarei ritrovato in un loculo tre metri sottoterra.
Guardai in direzione dell'angolo dove avevo creduto di vedere il mostro del buio. Sorrisi amara-mente nel vedere il semplice incontro di due pareti, nient'altro.
<<Eccomi.>>
La donna teneva in mano il bicchiere con l'acqua.
Mi ero abituato di nuovo alla luce e la vidi nella sua interezza. Era mingherlina, indossava una ma-glietta della salute infilata in jeans slavati a vita alta.
Una sfigata, ecco come l'avrei definita se l'avessi incontrata per strada. Sì, una sfigata, se non mi fossi trovato legato a un letto fra le sue grinfie.
Mi sollevò la testa con delicatezza materna, mi bagnò prima le labbra, poi mi fece bere a piccoli sorsi.
Ricordo ancora il sollievo che avevo provato nel sentire l'acqua fresca farsi largo fra le ruvidità della mia lingua. Una vera e propria dose di vita.
<<Chi sei?>> riuscii a chiedere.
<<Tesoro, devi essere ancora un po' sballottato.>>
<<Chi sei?>> ripetei. Facevo ancora fatica a parlare, quindi quelle sei lettere componevano il mas-simo del significato con il minimo sforzo.
<<Sono Caterina! Sono invecchiata vero? Ma anche tu lo sei. Sono passati quasi dieci anni, diami-ne!>>
Cercai in ogni stanza della mia mente quel volto, quel nome. Dovevano dirmi qualcosa, per forza! pensai.
<<Il giorno che ci siamo conosciuti mi hai reso la donna più felice del mondo..>>
Rimasi in silenzio. L'esercizio di memoria era diventato quasi doloroso. Cosa era successo quasi dieci anni prima?
Non mi ero nemmeno accorto di avere le caviglie sciolte dal letto. La donna, Caterina, mi stava li-berando. Mi sciolse anche i polsi. Me li guardai come se fossero la cosa più bella del mondo, nono-stante le escoriazioni che mi sarei portato come ricordo per molto tempo.
<<Adesso che sei calmo e che ti ricordi di me non serve più che ti tenga legato al letto. Possiamo vivere la nostra storia. Non puoi nemmeno immaginare quanto ti ho cercato, amore mio!>>
La strega mi abbracciò come se fosse la cosa più naturale del mondo. La spinsi via. Mi girò la testa per lo sforzo, ero debole.
<<Sei cattivo! Sei cambiato, eri gentile!>>
"Gentile".
Capii di chi si trattava. Ricordai Caterina. Mi rividi per i corridoi del liceo.
<<Sei pazza.>>
<<Ti amo.>>
<<Ma tu non mi conosci..>>
<<Sei il mio uomo.>>
<<Ti ho solo aiutata..>>
<<Mi hai dato attenzione, come un uomo dà attenzione alla donna della sua vita. Mi hai sorriso, con sincerità.>>
Sembra strano, ma provai compassione per Caterina. Compassione e profonda tristezza.
<<Sono solo stato cortese. Ti ho aiutato a raccogliere i fogli che ti erano scivolati dalle mani, come avrebbe fatto chiunque.>>
<<Non è vero! Mi hai guardato come un innamorato.>>
Mi alzai continuando a guardarla. Tremava nascondendo il volto con le mani aperte, in segno di to-tale vergogna.
<<Devo tornare a casa adesso. Mia moglie sarà preoccupata.>>
Mi avviai verso la porta. Barcollavo, ma ogni passo mi rendeva sempre più felice.
<<Tua moglie non c'è più.>>
Mi voltai. Caterina mi guardava, e fredda aveva continuato a parlare.
<<Ho dovuto farlo, era solo un ostacolo per noi. Mi capisci, vero? Non l'amavi come ami me.>>
Le gambe mi cedettero, e l'ultima cosa di cui ricordo di quella casa è il buio che l'aveva pervasa.
Sono passati due anni dall'arresto di Caterina e dal funerale di Anna. Quella pazza me l'ha portata via con più di quaranta coltellate, e avrei preferito avesse fatto lo stesso con me, invece che costi-tuirsi alla polizia.
Gli psichiatri mi hanno parlato dell'"erotomania", dell'amore malato costruito sulla fantasia e che ha disturbato la fragile mente di Caterina.
Io so solo che quella stalker mi ha rovinato la vita.
Dio solo sa quanto vorrei tornare indietro, quanto vorrei non averla aiutata quel dannato giorno di più di dieci anni fa.
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- Ho letto volentieri questo racconto che, credo, sia raccontato al meglio delle possibilità che ha una trama di questo tipo. Infatti ritengo che la vicenda di questo brano abbia necessità di uno sviluppo più ampio rispetto alle poche pagine qui presenti. Il rischio è che possa essere poco verosimile se le descrizioni, specialmente psicologiche, sono troppo concise. Comunque complimenti e saluti.
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