L’ambulanza corre veloce in mezzo al consueto e disordinato traffico, cercando di guadagnare più tempo possibile. Gli operatori della Croce Rossa sanno bene, che a volte, anche pochi minuti possono fare la differenza per evitare di superare quell’invisibile confine che divide la vita dalla morte.
Sulla barella giace disteso un bambino di circa nove anni, di nome Luca. Su di lui il medico del pronto intervento ha già predisposto i primi importanti presidi per la rianimazione, di cui la speciale ambulanza è dotata. Accanto a loro, confusa e disperata, c’è Alessia, la giovane mamma, che non potendo fare altro, tiene una mano sulla gamba del figlio, quasi a volergli trasmettere parte della sua energia vitale, per contrastare le conseguenze dell’improvviso incidente occorso a Luca, solo pochi minuti prima.
Incredula ed attonita, Alessia rivede la sequenza dell’incidente come se fosse un sogno, sperando che tutto ciò che le stia accadendo intorno sia solo un terribile incubo: suo figlio e lei, stanno camminando tranquillamente sul marciapiede, diretti al vicino semaforo. Lì avrebbero attraversato la strada per recarsi dall’altro lato per vedere alcuni negozi. Attendono che il semaforo pedonale dia loro il via libera ed appena si accende l’omino verde, Luca, con i riflessi e l’impulsività tipica dei ragazzi, scende con uno scatto dal marciapiede ed anticipa la mamma nell’attraversare la strada. In quel preciso istante, un grosso scooter, lanciato per attraversare l’incrocio, nonostante il giallo fosse già scattato da qualche secondo, diventato rosso, non riesce a fermarsi in tempo e piomba addosso a Luca che stava attraversando la strada. Nessuna manovra è stata possibile per evitarlo, in quelle condizioni, a causa della sicumera che sfacciatamente ed inconsciamente dimostrano molti guidatori delle due ruote e degli scooteroni in particolare, che hanno uno scarso senso del rischio.
Luca, investito in pieno, è scagliato a qualche metro di distanza e rimane inerte sull’asfalto. Alessia, dopo i primi attimi d’incredulità e d’incapacità a comprendere quanto succedeva, lancia un urlo straziante e chiamando Luca con quanto fiato ha in gola si precipita su di lui. Contemporaneamente altre persone si avvicinano e fra loro anche un uomo sceso da un’automobile ferma al semaforo che si qualifica come dottore e appresta le prime sommarie cure ed invita i presenti a non compiere mosse azzardate, invitandoli ad attendere l’arrivo dell’ambulanza, già prontamente chiamata da un vigile urbano, subito accorso.
“Evitate di toccarlo, per carità, anche lei signora! Potrebbe avere delle lesioni interne e si potrebbero causare altri danni. Aspettiamo il personale specializzato che sa come rimuoverlo con le dovute accortezze!”
“Dottore, Luca non parla, non risponde, non apre gli occhi”. Urla piangendo Alessia.
“Si, signora, lo vedo, ma è lo choc da trauma… ha sicuramente sbattuto la testa e, di conseguenza, ha perso conoscenza”.
Mentre il dottore pronuncia queste parole, tasta il polso del ragazzo, cercando di comprendere se il battito cardiaco è regolare o no. Si accorge che le pulsazioni si stanno affievolendo e, dissimulando la circostanza, confida nell’arrivo, più veloce possibile, dell’ambulanza, perché, se tarderebbe troppo, potrebbe succedere l’irreparabile. Continua a rincuorare Alessia che ormai è in preda alla disperazione, pur sapendo che la situazione clinica del bambino, anche a prima vista, per un occhio esperto come il suo, è disperata.
Sono stati dei minuti interminabili, quelli. L’ambulanza finalmente è arrivata, in un tempo breve, per fortuna. Il polso di Luca è debole, ma c’è!
Il dottore lascia spazio agli infermieri ed al medico, al quale riferisce per sommi capi la situazione clinica da lui rilevata e si fa da parte per assistere alle manovre per trasportarlo in sicurezza.
Luca è opportunamente immobilizzato e sostenuto con l’ossigeno. Lo stimolatore cardiaco non è stato necessario.
È caricato sull’autoambulanza, sulla quale sale anche Alessia, che, alla vista dei soccorsi si è un po’ calmata.
Eccola, ora, su quell’ambulanza che corre verso l’ospedale.
Appena mezz’ora prima la sua vita scorreva serena e tranquilla, in pochi attimi tutto è cambiato totalmente e all’improvviso!
“Dio mio fa che non sia grave, fa che possa guarire presto e senza conseguenze…Ti scongiuro Signore…non permettere che…”
Questa silente preghiera d’Alessia si soffoca nella mente, non volendo nemmeno lontanamente pensare all’irreparabile.
L’ambulanza s’infila nel pronto soccorso dell’ospedale. Medici ed infermieri, già informati via radio, sono pronti a riceverlo e a compiere i primi e più importanti controlli vitali e fisiologici.
Alessia resta sola nella sala antistante, con la sua angoscia e disperazione. Trascorrono pochi minuti e la raggiungono il marito Massimo, i genitori di entrambi ed altri parenti ed amici, che si stringono intorno a lei nel lodevole, quanto inutile, intento di darle conforto e sostegno.
Ogni tanto le scappa un grido che lacera i timpani e gli animi delle persone presenti e degli operatori sanitari, che si sentono tutti raggelare:
“Lucaaaa…non lasciare la tua mamma! Lucaaa, Lucaaaa! Dio…non puoi farmi questo|”
Nessun dottore è ancora uscito per informare i genitori sulle condizioni di Luca, ma Alessia con quella sensibilità istintiva che lega una madre ai figli, avverte dentro di sé che si sta per compiere un destino infame, che la priverà del suo amato bambino.
Gli infermieri le danno un sedativo per calmarla.
In quella grande sala scende un freddo innaturale. La tristezza e lo sconforto s’impossessa di tutti i presenti, anche di coloro non direttamente coinvolti dalla vicenda.
Sono trascorse quasi due ore dal ricovero, quando due medici, la cui apparente età fa presumere trattarsi di primari dell’ospedale, si avvicinano ad Alessia, Massimo ed agli altri parenti.
Si qualificano come il primario del pronto soccorso ed il primario del centro di rianimazione dell’ospedale.
Con il loro linguaggio professionale ed algido, non immune, però, da imbarazzo e commozione, illustrano la situazione di Luca ai genitori:
“Luca è ora ricoverato in una delle stanze della rianimazione, le sue funzioni vitali sono monitorate continuamente, l’attività respiratoria è naturale e, quindi, non assistita. Presenta delle fratture scomposte agli arti inferiori ed alla clavicola destra e nessun segno di grave trauma interno”.
“Allora la situazione non è gravissima!” Replica subito Alessia “ Vero dottore?”
La titubanza dei dottori a rispondere subito alla pressante domanda della mamma, genera un senso d’angoscia in tutti.
“Dottore…mi risponda c’è qualche altra cosa che dovremmo sapere…ce lo dica!” Esclama Alessia, alzando il tono della voce.
“Si, signora, anche se potrebbe essere prematuro affermare quanto stiamo per dirle, c’è un altro problema e…grave”.
“Oh, mio Dio!” Sbotta Alessia, sorreggendosi a Massimo.
“Ecco signora, dobbiamo dirle che il trauma cranico subito da suo figlio è molto grave. I rilevamenti strumentali segnalano la mancanza completa di qualsiasi attività cerebrale. L’encefalogramma è tragicamente ed inesorabilmente “piatto”.
“La nostra esperienza e la letteratura scientifica, in casi come questi, non ci forniscono alcuna speranza e c’inducono ad affermare, con gran tristezza, che suo figlio Luca può considerarsi clinicamente morto!”
“MORTO! Lei dice morto? Ma se respira ed il suo cuore batte ancora…come fa a dire che è morto?”
“Signora ha ragione! Ma. Ripeto, è la nostra esperienza e la scienza che ci portano a questa conclusione. Questa condizione d’inattività cerebrale, i traumi subiti in più parti del corpo, pur se non esiziali, se presi singolarmente, ci fanno concludere che, in queste condizioni, non si sopravvive a lungo”.
Un silenzio oppressivo è calato nella sala.
“Luca, in ogni modo, sta in osservazione strumentale e se ci sarà qualche minimo accenno di miglioramento glielo comunicheremo tempestivamente. Ma, la nostra serietà professionale e la nostra etica, c’impongono di dirle la reale situazione, perché non si creino false illusioni, che renderebbero più tragica tutta la vicenda”.
“Domani avremo un altro colloquio e la aggiornerò sulle condizioni di Luca”.
“A domani signora e…mi creda, siamo dispiaciuti e tristi anche noi. Non ci si fa l’abitudine a certe situazioni… non ci si fa”. Continua a ripetere il professore, mentre si allontana insieme al suo collega.
Nei giorni seguenti, Alessia e Massimo insieme ai parenti si alternano ad “assistere” Luca, che riescono a vedere solo attraverso il vetro che divide la camera asettica della rianimazione, in cui è continuamente sotto controllo.
Qualche volta il professore consente ad Alessia, dopo averle fatto indossare indumenti sterili, di stare accanto a Luca. In quei pochi minuti concessile, Alessia parla in continuazione con Luca, gli accarezza il volto, gli prende delicatamente una mano, avendo cura di non toccare i sensori ed i tubicini collegati agli aghi che lo nutrono ed attraverso i quali gli iniettano i medicinali.
Ogni volta che esce dalla stanza, si rinnova lo strazio della separazione.
Un giorno mentre Alessia è assente, perché portata a forza a casa, per farla riposare per qualche ora, la situazione clinica di Luca subisce un peggioramento, come previsto dal professore, si affacciano delle difficoltà respiratorie e Luca deve essere intubato.
Il professore, verificato lo stato dei parametri vitali e delle ultime analisi, chiama a casa i genitori:
“Salve, sono il prof. Antoniutti” “Dica professore” Risponde Massimo. “Ci sono novità o problemi?”
“Si, purtroppo, dott. Leandri. Vi pregherei di venire in ospedale, che vi devo parlare”.
“Non è mica…” La frase resta monca per l’emozione.
“No, no! Però ho bisogno di parlare con entrambi i genitori”.
“D’accordo, professore, arriviamo quanto prima”.
Massimo posa la cornetta del telefono, con un grande sforzo, come se fosse diventata improvvisamente pesante. Raggiunge Alessia, che sta in salotto sulla poltrona ad occhi chiusi e le si avvicina con delicatezza:
“Alessia…amore, il professor Antoniutti ci chiede di andare in ospedale…ci deve parlare”:
Alessia apre gli occhi e sobbalza sulla poltrona. “Luca, Luca…è successo qualcosa a Luca?”
“No, Alessia calmati, è tutto come stamani, però il professore insiste nel volerci parlare. È chiaro che questo colloquio non promette niente di buono, quindi, prepariamoci ad ascoltare qualche notizia cattiva”.
Alessia fissa il marito con gli occhi smarriti, forse, pensa che le sta nascondendo qualcosa, ma non ha più forze per reagire e disperarsi.
“Sì, Massimo, andiamo subito…andiamo!”.
Dopo poco più di un’ora, Alessia e Massimo sono nello studio del professore, seduti davanti alla sua scrivania, con quale stato d’animo è facile comprendere.
“Signori Leandri, vi ho chiamato perché l’evoluzione clinica di Luca sta mostrando tutti i sintomi che vi avevo accennato sin dal primo giorno. Il peggioramento è lento ma inequivocabile. Stamane lo abbiamo dovuto anche intubare, per facilitargli il respiro”.
“Oddio, ora è pure intubato!” Esclama con rassegnazione Alessia.
“Si signora! Anche le analisi del sangue e delle urine, mostrano dei valori che indicano che anche il sano e giovane corpo di Luca potrebbe cedere, non a breve, ma, forse entro un mese, due al massimo”.
Segue una pausa di silenzio, nel corso della quale a parlare sono solo gli sguardi dei genitori e del professore.
“A questo punto, ho deciso di affrontare con voi, l’argomento di un’eventuale donazione degli organi di Luca. In questi giorni ho compreso di trovarmi di fronte a due persone sensibili ed intelligenti che, pur piegate da questo gran dolore, non avrebbero rifiutato di valutare la nobiltà e la grandezza insita nell’atto di acconsentire alla donazione degli organi di Luca, prima che siano deteriorati dal peggioramento delle sue condizioni e, quindi, inutili a salvare e ad alleviare altre esistenze”.
Appena pronunciate queste parole, il professore si appoggia sullo schienale della sedia e trae un gran respiro e resta in silenzio, per dare il tempo di assimilare la sostanza del suo discorso, ai genitori che, ovviamente, non avevano, nemmeno lontanamente, valutata una simile ipotesi.
“Ma…professore, è ancora vivo… non si può fare!”
“Signora, sì. Sono queste le condizioni in cui una donazione degli organi ha più possibilità di successo: quando il corpo è ancora vivo e sano, ma il cervello è irrimediabilmente spento…morto”.
“Allora non abbiamo più speranze?” dice Massimo.
“No! Mi dispiace. Scusate la franchezza che rasenta la brutalità, ma la sincerità e la realtà servono a togliere ogni residua speranza ed illusione!”
“Ma se non siete d’accordo, non insisto. Noi continueremo a curare Luca finché sarà necessario, con la stessa dedizione posta finora, anche se e ne sono pienamente convinto, sarà solo un inutile accanimento, che non porterà a nessun risultato”.
“Ma, prima di tutto, siamo tenuti ad accogliere ed a rispettare la vostra decisione. Sappiate però, che non resta molto tempo per decidere…diciamo, non più di una settimana”.
Un’altra pausa densa d’emozione interrompe questo colloquio. Nessuno sembra voler riprendere a parlare, finché Alessia non si alza e, rivolta verso Massimo, dice:
“Andiamo a casa…, andiamo a decidere…!”
Il professore ha un sussulto emotivo, perché ha intuito che quella fragile madre, colpita così duramente dal destino, aveva già iniziato il suo percorso mentale che l’avrebbe condotta a donare gli organi del figlio, rendendosi conto che una morte, ormai inevitabile, potrebbe diventare fonte di vita per altri e che la tragedia di suo figlio, non sarebbe stato solo un maledetto incidente, come tanti altri, di cui, poi, si perde la memoria, ma un’occasione per farlo vivere ancora, per interposta persona.
“Signori Leandri…io sono qui…”.
“Già, professore…lei è qui…anche mio figlio è qui…” Risponde Alessia, quasi sussurrando.
Inutile dire che le ore successive sono state le più drammatiche e difficili di Alessia e Massimo, costretti già a soffrire del dolore dell’incidente ed ora, a rinunciare anche alla sia pur remota, speranza di un recupero alla vita del loro figlio.
“Dio, Dio…Massimo, solo pochi giorni fa, la nostra vita era ordinata e serena, avevamo un figlio…oh Dio, Massimo, già parlo al passato di Luca …”
Un pianto improvviso tronca le parole di Alessia, che si accascia sul divano con il viso fra le mani. Massimo si piega in ginocchio davanti a lei e l’abbraccia piangendo. Entrambi, restano così per alcuni minuti, finché l’angoscia si attenua un po’.
Massimo riprende lui il discorso.
“Alessia, il professore è stato molto esplicito e sincero. Le condizioni di Luca sono senza ritorno, il comitato bioetico dell’ospedale, valuterà, in ultima istanza, la realtà della situazione prospettataci dal professor Antoniutti, non ci resta che prendere una decisione che anche Luca condividerebbe, vista la bontà d’animo e l’altruismo che ci ha dimostrato in questi suoi…pochi…anni …di vita”.
Un groppo in gola blocca le parole di Massimo.
“Hai ragione Massimo! Luca sarebbe sicuramente d’accordo con noi. La sua disgrazia sarà utile a guarire ed a consentire una vita normale ad altre persone, ritengo più che giusto dare il nostro consenso all’espianto degli organi… Sarà, un po’, come se il nostro Luca continuasse a vivere, anche se in un’altra persona…”
“Domani mattina, andremo dal professore…”
“Si! Domani andremo dal professore”. Fa eco al marito Alessia.
Il giorno dopo, formalizzato il consenso all’espianto e con il nulla osta del comitato bioetico, le squadre chirurgiche, ognuna per la propria competenza, sono già pronte ad effettuare l’espianto degli organi che saranno inviati ai centri ospedalieri prescelti, in base alla compatibilità ed alla priorità dei loro pazienti.
Il professor. Antoniutti, accompagna Alessia e Massimo da Luca, per l’ultimo saluto al loro adorato bambino. I genitori opportunamente abbigliati entrano nella stanza asettica della rianimazione, mentre il professore resta nel corridoio, compreso dell’importanza del momento e preda anche lui di una sentita commozione. “Cazzo! Non dovrebbero succedere queste cose…non ci si abitua mai a questo strazio…mai!” Impreca ad alta voce il primario.
“Ha ragione professore… eccome se ha ragione!” Replica, la caposala del reparto, la signora Alberta, sopraggiunta alle spalle di Antoniutti.
“Tenga professore, prenda” Gli dice, porgendogli un fazzoletto di carta, con gli occhi umidi anche lei.
“Devo avvisare di tenersi pronti e di avviare il coordinamento delle operazioni?”
“Si Alberta, vai! Che si metta in moto la procedura…vai…e grazie!”
“Di cosa, professore? Questo è uno di quei momenti in cui penso che avrei fatto meglio a fare un altro lavoro, pur di non assistere a queste tragedie!” “Brava, anch’io!” Replica il professore “Ora vai, vai!”
Nel giro di qualche ora, tutto è compiuto!
Luca, espiantato del cuore, dei reni, del fegato e delle cornee, ha definitivamente concluso il suo breve viaggio terreno.
Per i polmoni l’espianto non è stato possibile perché le difficoltà respiratorie già manifestatesi, avevano reso gli organi inadatti al trapianto.
I suoi organi, destinati a più persone, sconosciute, invece continueranno a sopravvivergli, restituendo loro, una vita “normale”.
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È trascorso quasi un anno da quel maledetto incidente, la vita di Alessia e Massimo ha ripreso il suo corso “normale”, per quanto si possa ritenere normale una vita per dei genitori che, innaturalmente, sono sopravvissuti al proprio figlio.
Entrambi hanno ripreso le loro occupazioni, confortati dalla solidarietà e dall’affetto dei colleghi di lavoro. Anche i parenti e gli amici, continuano, con discrezione ma con costanza, ad essergli vicini e ad offrir loro le più svariate occasioni di distrazione.
C’è, però, un periodo della giornata in cui Alessia, rimanendo sola, nel buio e nel silenzio della notte, rivive, ogni volta, l’angoscia e l’orrore di quei giorni in cui Luca le fu strappato.
A nulla o quasi, sono servite le cure mediche per alleviarle il dolore e per consentirle di recuperare i suoi naturali bioritmi, così drammaticamente sconvolti.
In questa sua frequente insonnia, un’idea si presenta ricorrente e diventa sempre più importante. Un’idea che, lentamente e ossessivamente, si è trasformata in un desiderio irrefrenabile, la cui realizzazione è, ormai, una necessità impellente per il suo stesso equilibrio mentale.
Lei “sente”, con convinzione, l’esigenza di conoscere a chi sono stati trapiantati gli organi di Luca, il cuore in particolare, per conoscere l’effetto di questo atto d’amore e, soprattutto, per stare vicino un’ultima volta al suo Luca, anche se ad una sua sola parte.
Nella mente stressata di Alessia, questo desiderio, di cui non ha parlato con nessuno, nemmeno con Massimo, è divenuto una priorità irrinunciabile.
Nella sua mente tormentata si fa strada l’idea che il primo passo, per conoscere il destinatario del cuore di suo figlio, è quello di recarsi all’ospedale dove fu ricoverato e cercare di mettersi in contatto con qualcuno del reparto rianimazione. Non certo il professor Leandri, che, per ruolo, avrebbe, sicuramente, mantenuto la consegna del silenzio, ma, chissà, qualche paramedico, uno dei tanti che ha conosciuto in “quei” giorni: Uno di loro potrebbe impietosirsi e promettendogli la più assoluta riservatezza, forse, sarebbe riuscita a convincerlo di dargli le generalità ed il luogo di residenza del destinatario.
“Sì! Questa è la strada giusta, quella da tentare…per ora!”. Afferma, quasi ad alta voce, Alessia, durante uno dei suoi lucidi deliri notturni.
Un primo tentativo, lo mette in atto un sabato. Con una scusa qualsiasi, dice a Massimo che esce per alcune ore della mattina. Massimo, ovviamente, lieto che Alessia esca anche da sola, non solleva alcun’obiezione.
Alessia si avvia verso l’ospedale, lascia l’auto nel parcheggio adiacente ed entra, non senza emozione e con il cuore in tumulto, nel grande Istituto ospedaliero.
La strada per arrivare alla rianimazione è ancora ben impressa nella sua mente ed in pochi minuti si trova nel reparto.
Timidamente, ma senza esitazione, raggiunge la stanza del personale paramedico, per vedere chi è di turno e se è qualcuno che aveva conosciuto.
Il destino vuole che nella stanza ci sia la signora Alberta, la caposala, che in quegli angosciosi giorni aveva conosciuto bene e che le era stata sempre affettuosamente vicina.
Alessia si sente rincuorata da quest’incontro insperato, al primo tentativo, ma in cuor suo desiderato, perché sentiva che lei sarebbe stata la persona giusta.
“Buongiorno Alberta!” Saluta Alessia, entrando nella stanza.
Alberta alza lo sguardo e, con evidente sorpresa, risponde con cordialità:
“ Buongiorno signora Leandri!” Segue un’impercettibile pausa. “Come mai qui?”
“Signora, passavo da queste parti e mi sono ricordata di venire a trovarla. Era tanto che volevo farlo, sa?” “Mi sono detta, proviamo a vedere se c’è, così la saluto e la ringrazio ancora per tutto quello che ha fatto per…noi!”
“Grazie signora, ma non è proprio il caso che lei mi ringrazi ancora”. Risponde Alberta, non proprio convinta di quanto le abbia detto Alessia, ma capisce che Alessia è ancora molto scossa e l’asseconda con gentilezza.
Alessia fa un cenno d’assenso con il capo, ma non risponde subito e mostra qualche segno d’imbarazzo e d’indecisione.
Con molto tatto, Alberta le chiede:
“C’è qualche cosa che mi vuole dire, signora?” “Dica pure, non si preoccupi!”
Il tono accomodante e pacato d’Alberta scioglie la tensione d’Alessia.
“Ecco Alberta…io l’ho conosciuta ed apprezzata in quella triste situazione, ricordo che anche lei è madre…e…”.
Alessia s’interrompe, la commozione sta per avere il sopravvento.
Alberta, la invita a sedersi ed a rilassarsi.
“Signora Alessia, la prego mi dica pure quello che vuole, senza scrupoli. Non farei questa professione, se non capissi le persone!”
“Ecco, Alberta, non è vero che passavo qui per caso, ma che avrei voluta salutarla, questo si!”.
Alessia, fa un bel respiro e continua.
“Sono venuta apposta e speravo d’incontrarla, sennò mi sarei informata sui suoi turni e sarei venuta un altro giorno”.
“Bene, ha visto che mi ha trovata subito?” Dice, sorridendo, Alberta.
“Io desidero chiederle se lei mi può dire a chi è stato trapiantato il cuore di mio figlio!”
Questa domanda, Alessia, l’ha sparata tutta di un fiato.
Alberta, colta di sorpresa, è rimasta interdetta, ma, forse, nel suo intimo, non più di tanto.
“Signora, lei sa che c’è il segreto professionale, il rispetto della “privacy” ecc. ecc.”.
“Si, lo so Alberta, ma per me sta diventando una questione esistenziale…ora le spiego…”
Alberta interrompe Alessia e le dice:
“Ho capito signora, però non possiamo, in ogni caso, parlarne qui. Tra un’ora ho finito il mio turno e se lei mi attende giù, starò ad ascoltarla con più attenzione, ma non si aspetti molto da me!”
“Si, va bene e mi scusi dell’intrusione sul lavoro ma… continuiamo dopo. L’aspetto giù, così ci andiamo a prendere anche un caffè”.
“D’accordo signora, a dopo”.
Alessia ritorna verso l’uscita, non senza provare un brivido freddo nel ripensare a quando fece questo percorso circa un anno prima.
Ecco la signora Alberta che esce dall’ingresso dell’ospedale, guardandosi intorno.
“Sono qui, Alberta”.
“Ah, eccomi”.
“Andiamo qui di fronte all’ospedale, c’è un bar con dei tavolini dove ci possiamo mettere sedute e parlare, sempre che lei non vada di fretta”. Dice con tono gentile e conciliante Alessia.
“Nessuna premura, con lei posso anche trascorrere un po’ del mio tempo, ci mancherebbe altro!”
Questa affermazione sincera e rassicurante alimenta le speranze di Alessia.
“Andiamo!”
Si siedono ad un tavolino in un angolo del bar, gli altri tavolini sono liberi, quindi possono parlare con calma e discrezione. Ordinano due cappuccini e due cornetti e si pongono una di fronte l’altra.
“Signora Leandri, in questa ora non ho potuto fare a meno di pensare a lei ed alla sua richiesta e, mi creda, sono molto combattuta. Da una parte la mia professionalità m’induce a negarle ogni aiuto, dall’altra, come donna e madre, sono tentata di aiutarla, soprattutto se ciò può contribuire a ricostruire il suo equilibrio psicologico ed a donarle, finalmente la pace interiore e la serenità di cui, nonostante la tragedia, ha bisogno per continuare a vivere, anche se dovrà sempre fare i conti con il ricordo di Luca”.
Alessia guarda stupita e meravigliata Alberta, non aspettandosi di ascoltare, in sostanza, il discorso che lei voleva fare.
“L’ho sorpresa, vero? Signora Leandri…Alessia se mi permetti…”.
“Certo che te lo permetto Alberta!”
“Ti ho preceduto, ti dicevo, perché la mia sensibilità e la mia esperienza mi hanno fornito gli strumenti cognitivi per poter comprendere, con poco, certe situazioni, come la tua”.
“Già, purtroppo, il mio caso non è unico…” Afferma sconsolatamente Alessia.
“Io ho chiesto il tuo aiuto e non mi sono sbagliata a rivolgermi a te, solo perché voglio sapere se effettivamente la tragedia di mio figlio è stata l’occasione della speranza di vita per un'altra persona. Questo pensiero, che mi tormenta da mesi, è l’unico che può restituire un po’ di pace e quiete al mio di cuore. Almeno, così spero vivamente. Il costatare che un’altra persona, destinata a morire, vive grazie al cuore di Luca, mi solleverebbe molto e, forse stupidamente, mi piace pensare che, in qualche modo, Luca…continui a vivere”. Le lacrime soffocano in parte le ultime parole pronunciate da Alessia.
“Se si vuole, si può fare! In fondo non stiamo mica commettendo un crimine e se ciò può servire alla tua salute mentale e fisica, non sarà un’altra madre come me, che te lo impedirà!”
“Ti voglio dire che non sarà una cosa né facile, né semplice, conoscere chi sia e dove abiti la persona trapiantata. Le conoscenze e le amicizie che ho nell’ambiente clinico, sono numerose e riuscirò, con il dovuto tatto e con discrezione, ad avere le notizie che t’interessano. Non avere fretta, però? Dammi il tempo necessario!”
Alessia si alza e abbraccia Alberta con trasporto, dicendole: ” Tutto il tempo che vuoi, Alberta… tutto il tempo, sei un angelo, dentro e fuori dell’ospedale”. “Ti do il mio numero di telefono, chiamami, quando, puoi!”
“Ti do anche il mio, Alessia”.
“Grazie…Grazie infinitamente Alberta”.
Così dicendo escono dal bar, sulla cui soglia si scambiano un altro abbraccio e si salutano.
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Più di un mese è trascorso dall’incontro con Alberta.
La vita di Alessia e di Massimo continua a scorrere piatta e monotona, condizionata ancora, inevitabilmente, dalla tragedia del figlio. Anche l’ottimo rapporto che c’era fra loro, comincia a subire dei cedimenti, sotto il maglio della disgrazia.
Alessia è da poco rientrata dal lavoro e, meccanicamente, ormai, come tutte le sere, sta preparando la cena.
Il telefono squilla.
Alessia risponde: “Pronto, chi è?”
“Buona sera signora Leandri, sono Alberta”.
“Ah Alberta…Alberta chi, mi scusi?”
“Mi scusi lei signora, sono Alberta, la caposala della rianimazione dell’ospedale…”
“Oddio, Alberta, perdonami! Stavo soprappensiero e non ho compreso che eri tu!” “Hai, forse, quelle notizie per me?” Dice trepidante Alessia.
“Si Alessia…vorrei incontrarti proprio per questo. Quando ci possiamo vedere?”
“Quando vuoi tu Alberta, dimmi quando sei disponibile?”.
“Domani finisco il turno alle 16, 30, ci vediamo al bar della volta scorsa alle 17. Va bene?”
“Certo che va bene, Alberta…ci vediamo domani alle cinque…grazie, grazie”.
“A domani, allora!”
Questa telefonata, pur tanto attesa, è giunta inaspettata ed improvvisa, quasi Alessia avesse perso le speranze di conoscere il destinatario del cuore di Luca, presumendo che il tempo trascorso fosse un segno negativo e che Alberta non fosse riuscita a conoscere i dati del beneficiario.
L’indomani, puntualissima, Alessia è seduta al tavolino del bar nell’attesa di Alberta, che la raggiunge poco dopo.
“Ciao Alberta!” Esclama Alessia mentre l’abbraccia. Con altrettanta cordialità le risponde Alberta.
“Prendi qualcosa, Alberta?” “Si, grazie, a quest’ora va bene un succo di frutta!”
“Due succhi di frutta, per piacere!” Ordina Alessia, già preda dell’emozione per quanto le comunicherà Alberta.
“Come stai Alberta…il lavoro va bene? In famiglia…?” Il nervosismo di Alessia è talmente evidente che Alberta non risponde nemmeno e subito tira fuori della borsa un foglio, scritto a mano.
“Queste sono le notizie che mi hai chiesto. C’è l’indirizzo e il nome della famiglia. Per quanto riguarda la residenza, non l’ho messa perché abitano a Roma”.
“A Roma”. Esclama stupita Alessia
“Si proprio a Roma ed ho saputo anche un’altra cosa che spero non ti rattristi ulteriormente”.
“Al punto in cui sono, c’è ben poco d’altro che possa aumentare la mia tristezza”.
Dopo una breve pausa, Alessia incalza Alberta:
“Di che si tratta, dimmi!”
Nel frattempo il cameriere serve i due succhi di frutta, lascia lo scontrino e si allontana.
“Ecco Alessia, il beneficiario del cuore di Luca è un bambino che ha quasi la sua stessa età!”
Scende il silenzio fra le due signore ed Alberta scruta il volto di Alessia per comprenderne le reazioni.
“Alberta, comprendo i tuoi scrupoli, ma ti dico, invece, che questa notizia non aggiunge dolore a quello che provo, anzi, è un motivo in più circa la bontà del mio desiderio di conoscere…di sapere fino a che punto la nostra decisione di donare gli organi, sia stata giusta”.
“Meno male, Alessia. Io pensavo che darti la possibilità di vedere che chi ha ricevuto il cuore di Luca è un bambino come lui, avrebbe aumentato la tua disperazione”:
“Grazie Alberta, per la tua sensibilità ma non è e non sarà così!”
“Allora posso darti questo foglio con più sollievo. Resta inteso, Alessia, che queste informazioni che ho ricevuto, in maniera molto riservata e confidenziale, da dei cari amici che lavorano nell’ospedale che ha eseguito il trapianto, devono rimanere tali e mi devi promettere di non farne parola con nessuno, nemmeno con tuo marito, almeno per ora. Confido, inoltre, che se avrai l’occasione di vedere questo bambino, tu non faccia capire alla famiglia e al bambino, chi tu sia. Questo potrebbe turbare l’equilibrio psicologico del bambino e creare anche problemi a me, se la circostanza suscitasse dubbi nella sua famiglia, tali da sospettare un’indebita fuga di notizie”.
“Alberta stai tranquilla, in memoria di Luca e in segno di rispetto per quello che hai fatto, prima a Luca ed ora a me, non ti creerò nessuna difficoltà e nessun problema!”
Mentre pronuncia queste parole Alessia prende la mano di Alberta, quasi a voler suggellare con questo fisico contatto la sua promessa.
“Grazie Alessia, ne sono sicura e lo ero fin dall’inizio, sennò non avrei acconsentito ad aiutarti, nonostante la disperazione che leggevo nei tuoi occhi. Però, te lo dovevo, in ogni caso, chiedere d’essere attenta, questo tu lo capisci sicuramente”.
“Certo che l’ho capito Alberta e, ti dirò di più, una simile raccomandazione me l’aspettavo”.
“Alberta, sei una gran bella persona e….”
Un pianto sommesso, interrompe Alessia e Alberta, si commuove anche lei.
“Va bene, ora basta, tu hai capito, io ho capito, siamo a posto tutte e due, ma fermiamoci qui, sennò si continua a piangere!”
Alessia asciugandosi le lacrime con un fazzoletto accenna un sorriso e Alberta si rende conto che è la prima volta che la vede sorridere. “Buon segno!” Pensa
“Allora cara Alessia”. Riprende con piglio autoritario e deciso Alberta “…ci siamo dette tutto quello che c’era da dirsi, ora io ti saluto e spero di esserti stata veramente d’aiuto!”
“Sì, Alberta, lo sei stata e… non finirò mai di ringraziarti!”
Un ultimo abbraccio ed entrambe si avviano verso le rispettive case.
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Nei giorni seguenti Alessia, dopo aver verificato sullo stradario dov’era la via in cui abitava il bambino trapiantato, non fa altro che pensare al modo migliore per avvicinarlo e incontrarlo, senza dare troppo nell’occhio.
Conosceva il nome, ma non poteva certo telefonare e chiedere un incontro. Tutte le possibilità che le venivano in mente, sono scartate. Non riesce a trovare una soluzione praticabile.
Decide, allora, di andare, appena possibile, all’indirizzo del bambino e una volta sul posto, vedrà se qualche cosa le offrirà un’idea per attuare il suo piano.
Questa strada, non è molto lontana dal luogo dove Alessia lavora. Appena può, chiede d’uscire un’ora prima, per fare il “sopralluogo” con calma.
C’è da aggiungere che, dopo la disgrazia, colleghi e superiori, si sono sempre comportati con la massima comprensione verso Alessia ed a loro modo, l’hanno aiutata e continuano ad aiutarla, come meglio possono, senza crearle difficoltà, consapevoli del suo stato d’animo, cosicché tutte le sue richieste, sono puntualmente esaudite.
In pochi minuti, Alessia arriva sotto casa del bambino, parcheggia, scende dall’auto e comincia a guardarsi intorno.
È una tranquilla strada di semiperiferia, con numerosi negozi e con palazzi non troppo alti e di aspetto dignitoso.
Si avvicina al numero civico 35 e scorre la pulsantiera del citofono. Il cognome Marchetti risulta, la sua posizione fa presumere che l’abitazione sia al 4/5° piano.
Per ora, tutto ciò, è un po’ poco, ma Alessia non si perde d’animo, scorge un negozio di panettiere, entra, acquista un po’ di pane ed un pezzo di pizza bianca, quando va alla cassa per pagare chiede alla ragazza, se lì vicino c’è una scuola elementare e se gliela può indicare.
“Si signora c’è una scuola elementare a pochi isolati da qui, a sinistra uscendo dal negozio”.
“ E…come distanza, più o meno, quanto sarà?”
“Non lo so di preciso, ma in meno di dieci minuti, ci si arriva a piedi”.
“Ah, bene, grazie. Sa, sto trattando un appartamento in questa strada e, siccome ho un bambino, mi volevo informare dove era la scuola”.
“Ah, ho capito”. Replica la commessa che già iniziava a guardarla in maniera strana.
Alessia ringraziando di nuovo esce dal negozio, posa il pane nell’auto e fa un giro per il quartiere.
Nel suo giro, nessuna particolarità della zona, colpisce la sua attenzione.
Oltrepassando una delle traverse della strada, vede in fondo ad essa una zona verde la cui grandezza non è valutabile dal quel punto. Decide di andare a controllare. Giunta in fondo alla strada, il verde che aveva visto, si rivela un piccolo ma ben attrezzato parco, con molte panchine, piante, fiori e alberi abbastanza grandi. Camminando al lato di esso, Alessia scopre anche l’esistenza di una grande vasca, con una fontana al centro.
“È proprio un bel parco”. Pensa e ritorna indietro verso l’auto.
A questo punto, Alessia ritiene che l’unica cosa che può fare è quella di ritornare la mattina presto ed aspettare che il bambino esca, con la mamma o con il papà, per andare a scuola, presumendo che i genitori, per ovvi motivi, preferiscano accompagnare il figlio alla scuola in auto, piuttosto che mandarcelo a piedi, anche se è vicina.
Non sarà semplice cercare di avvicinarlo e forse occorreranno diversi appostamenti e tanta pazienza ma Alessia è più determinata che mai.
Due giorni dopo, Alessia, alle 7, 30 è parcheggiata davanti al portone del numero 35, senza perdere di vista nessuno di coloro che entra ed esce. Dopo circa mezz’ora, vede uscire una donna con un bambino la cui età corrisponderebbe a quella che le ha detto Alberta. Li segue con lo sguardo finché non salgono in macchina e si avviano in direzione della scuola.
La tentazione di seguirli è forte, ma per non sbagliare Alessia ha deciso che, la prima volta, controllerà tutti quelli che escono dal palazzo in un orario compatibile con l’inizio delle lezioni, per verificare se ci sono altri bambini di quell’età o no.
Alle 8, 40, Alessia chiude il suo blocco degli appunti, sul quale ha registrato tutto ciò che reputava interessante e si avvia al lavoro, dove appena possibile avrebbe tratto le sue prime conclusioni.
Durante l’intervallo, rilegge tutto quello che ha annotato e arriva alla conclusione che sono solo due i bambini che potrebbero rispondere all’età di quello segnalatole da Alberta: Quello uscito alle ore 8, 10 e quello delle ore 8, 14. Senza un motivo apparentemente logico, Alessia propende per quello che ha visto per primo. Il secondo pur essendo alto uguale al primo, aveva un aspetto più grande ed anche la madre era sicuramente più grande d’età di quella del primo bambino e questo rafforzava la sua istintiva ipotesi. Anche quella strana sensazione provata quando il bambino si è affacciato al portone che l’ha fatta sussultare, nella sua mente alterata dall’emozione, voleva pur significare qualche cosa.
Decide, quindi, la prossima mossa. Una delle prossime mattine, li avrebbe seguiti fino a scuola e se il bambino si fosse fermato davanti all’edificio con i suoi compagni, nell’attesa della campanella, si sarebbe avvicinata ai bambini ed avrebbe chiesto ad uno di loro se “lui” era Marchetti o no, il nome di battesimo non lo sapeva, così sarebbe stata sicura se la sua intuizione aveva fatto centro.
Appena può, una delle successive mattine, Alessia aspetta che madre e figlio escano, li segue con la macchina. Si ferma in prossimità della scuola, quando vede che la mamma fa scendere il bambino dalla macchina, lo saluta e poi si allontana.
Alessia parcheggia l’auto come può e, a passo svelto, va dinnanzi la scuola. Individuato il gruppo di bambini dove c’era lui, aspetta il momento migliore per chiedere la conferma. Adocchia un paio di bambini che hanno l’aspetto più ingenuo e appena può, si avvicina a loro e chiede:
“Scusate bambini, avete visto se il vostro compagno Marchetti è già arrivato?”
I due, senza esitazione, le rispondono: “ Si signora, eccolo lì”. Indicandoglielo con precisione.
“Glielo chiamiamo?” “No, grazie bambini, volevo essere sicura che fosse già arrivato, sennò sarei andata a prenderlo a casa e l’avrei accompagnato io!” “Va bene così bambini, va bene così…ora andate pure. Ciao!”
Non si aspettava una reazione del genere ed ha detto la prima scusa che le è venuta in mente ed è stata credibile. Ritorna alla macchina confidando che i due bambini non raccontino niente al bambino, che a sua volta potrebbe raccontarlo alla mamma.
Il contatto sicuro c’è stato. Ora sorge il problema di come avvicinarlo, anche per pochi istanti, in una situazione più tranquilla.
“Non posso venire altre mattine per vederlo solo andare a scuola ed in mezzo a quella confusione” Pensa ad alta voce Alessia mentre va in auto a lavorare.
“Devo trovare un’altra occasione…ci sarà pure. Uscirà con la mamma qualche volta per andare a fare una passeggiata e… già, perché no? Potrebbe andare anche a quel parco vicino casa a respirare un po’ d’aria buona. Spesso anch’io portavo il mio Luca nei giardini o a villa Borghese o a villa Pamphili!”
“Già, ma come faccio a sapere quando usciranno e dove andranno? Questo comporterebbe altri appostamenti ed altre difficoltà con Massimo per giustificare le mie assenze!”
Tutto il percorso per arrivare in ufficio è caratterizzato da questo colloquio ad alta voce con se stessa.
“Anche per questo ci sarà una soluzione e con un po’ di fortuna, come quella che ho avuta in questi giorni, potrò arrivare allo scopo originario: quello di guardare negli occhi questo bambino e di accertare che sta in buona salute”.
Nei giorni successivi Alessia non prende alcun’iniziativa, per non creare dubbi e per evitare domande imbarazzanti da parte di Massimo.
La vita familiare continua a scorrere come prima.
“Alessia, senti. Ti voglio dire una cosa”. “Dimmi pure, Massimo”. Risponde Alessia, con un tono di voce che Massimo ha quasi dimenticato.
“Ecco! È proprio di questo che voglio parlarti”. “Di questo... cosa? Se non mi hai detto nemmeno l’argomento?”
“Non è un argomento, è…una sensazione. Da quando Luca è…. Da allora, insomma, io e te, abbiamo passato un brutto periodo, che continua tuttora”.
“Si Massimo, è vero”. Replica Alessia, guardandolo negli occhi e continua:
“Mi devo scusare con te, ti ho trascurato ed in parte escluso dalla mia vita, come se il dolore per Luca fosse solo mio e non anche tuo e di questo mio inconscio egoismo, ti chiedo perdono”:
“Dai Alessia, non hai niente da farti perdonare, noi ci amiamo e ci comprendiamo, ci mancherebbe altro!”
“Ho preso il discorso non per questo motivo che tu hai appena detto, ma perché ti volevo dire che da alcuni giorni mi sembri…diversa. In alcuni momenti sei assente, come se la tua mente fosse affollata di pensieri che non conosco e che non condividi, malgrado ciò, mi sembra pure che tu stia recuperando lentamente la tua personalità e che ti stia pian piano rasserenando e questo non può che farmi piacere”. “Sto sbagliando o no?”
“No Massimo, non stai sbagliando!” Alessia, ora si siede anche lei e continua:
“ Il tempo è un unguento che cura anche le ferite più gravi. Certo la cicatrice resta e ben visibile ma, arriva il momento che non sanguina più. Io sono sul bordo di questo metaforico confine, che appena avrò superato, mi consentirà di riacquisire la serenità perduta e gli affetti trascurati, come quello tuo”. “Dammi ancora un po’ di tempo, non credo che ce ne vorrà ancora molto e la nostra vita riprenderà anche nel rispetto di Luca, quasi come prima e non più come ora e…”. Alessia s’interrompe per l’emozione.
“E…cosa volevi ancor dire Alessia”.
“E…chissà che non si decida anche di…avere un altro figlio…che vada affanculo il lavoro, la carriera,… e riprendiamoci la nostra vita per intero e senza compromessi!”
Massimo stupito dalla piega che avuto il discorso da lui introdotto, con ben altre intenzioni, abbraccia con vigore e con passione Alessia e restano così per diversi minuti incapaci di parlare.
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Il primo sabato di sole successivo a questo colloquio, Alessia decide di tentare la fortuna e subito dopo pranzo, con la scusa di andare in giro per negozi con la sua amica Michela, saluta Massimo ed esce per andare di nuovo davanti al numero 35 della via dove abita la famiglia Marchetti.
Sono già trascorse due ore ed Alessia comincia a dubitare di vedere uscire il bambino con la mamma e medita di ritentare un’altra volta. Gira la chiave d’accensione, avvia il motore ed inizia a manovrare per uscire dal parcheggio. Appena sta per immettersi sulla strada, vede aprirsi il portone del palazzo. Si ferma in quella posizione ignara delle insistenze di un automobilista che la invita ad andarsene per poter parcheggiare al suo posto. Alessia appena resasi conto che è la signora Marchetti e che non avrebbe preso l’auto, perché si era avviata sul marciapiede in compagnia del figlio, fa retromarcia e ritorna nella posizione originaria, scende, saluta l’automobilista incredulo, attraversa la strada e segue la coppia a distanza.
Il cuore le batte forte, nella speranza che si crei quell’occasione d’incontro, tanto sospirata.
Dopo pochi passi, entrano in una gelateria. Alessia si ferma e attende.. Quando dopo poco escono, Alessia ha un sussulto nel vedere il bambino con un grosso cono in mano e la mente inevitabilmente ritorna sulle immagini del suo Luca, anche lui amante dei grossi coni, il cui gelato sovrastante, qualche volta, cadeva per terra, lasciandolo sconsolato con la sola cialda in mano, perché non faceva in tempo a mangiarlo prima che si sciogliesse. “Lui li voleva sempre grossi!” Dice con tenerezza Alessia.
Riprende a seguirli con un velo di tristezza.
Ad un certo punto voltano a sinistra e per un attimo Alessia teme che la passeggiata sia limitata solo alle strade e a guardare i negozi ed in queste condizioni considera difficile ed inopportuno un tentativo d’approccio, Questa strada, però, dopo aver svoltato per altre due traverse, conduce anch’essa verso quel bel giardino che ha visto la prima volta che era venuta in questo quartiere ed è proprio lì che si dirigono.
La speranza si riaffaccia e continua l’“inseguimento”.
Il piccolo parco, in piena fioritura primaverile, si presenta di un verde inteso, molte piante sono già in fiore ed è frequentato da molte persone, grazie alla soleggiata giornata ed alla temperatura gradevole.
Il bambino si allontana dalla mamma, dicendole qualche cosa che Alessia non capisce, a causa della distanza. Scopre poi, che ha raggiunto degli altri bambini che evidentemente conosce, visto come lo salutano.
La signora Marchetti, adocchiata una panchina libera, la raggiunge e si siede. La posizione le permette di controllare l’attività di suo figlio, che segue, infatti, con sguardo vigile.
Alessia, si avvicina con fare noncurante e si avvicina alla panchina.
“Posso sedermi signora?” Domanda con affettata educazione.
“Certo che può signora, ci mancherebbe…le panchine sono a disposizione di tutti!”
“Si lo so, ma gliel’ho chiesto perché pensavo che non fosse sola e che il posto, quindi, fosse già occupato!”
“No, non sono sola, sono con mio figlio, ma lui è laggiù in quel gruppo di bambini e non si siede sulla panchina… almeno adesso”.
“Ha solo quello di bambino, se posso permettermi?”
“Perché no? Si ho solo quello…per ora”.
“Anche lei pensa di averne un altro?” “Scusi la sfacciataggine, ma mi è venuta spontanea questa domanda, perché anch’io ho l’idea di avere un altro figlio”.
“Allora anche lei ha suo figlio con se, qui?”
“No, oggi no…sta da un’altra parte. Ma quale è suo figlio, fra quei bambini?
”È quello con la maglietta gialla”.
“Lo vedo. Un gran bel bambino. Mi sa che ha più o meno l’età di mio figlio, dieci anni. Vero?”
“No, ne ha un po’ di meno, ne ha fatti nove circa tre mesi fa”.
“Beh! Sono praticamente coetanei!”
“Si, vero”. Risponde Alessia
La signora Marchetti, incuriosita ed anche perplessa circa il comportamento di Alessia le chiede:
“Lei abita da queste parti signora? Glielo lo chiedo, perché non l’ho mai vista o per lo meno non viene quasi mai al parco, con suo figlio!”
“No, non abito in questo quartiere, sono venuta a trovare un’amica per fare delle compere insieme. Poco fa l’ho salutata e stavo ritornando alla macchina che ho parcheggiato a poca distanza e la vista di una panchina libera mi ha spinto ad avvicinarmi per sedermi un po’. Dopo due ore in giro per negozi…”
“Certo ci si stanca a camminare per negozi, con quell’andatura irregolare ed in mezzo alla gente”.
“Ecco perché mi sono permessa di disturbarla”:
“Per carità, signora nessun disturbo, anzi mi fa piacere scambiare due parole con qualcuno quando mio figlio gioca…ora che può permetterselo”. Risponde la signora Marchetti rinfrancata dalla spiegazione di Alessia e ben disposta al dialogo, avendo superato la diffidenza iniziale.
“Mi scusi, perché ha detto che ora può permettersi di giocare, se non sono troppo indiscreta?”
“Fino a poco più di un anno fa, mio figlio aveva dei problemi di salute piuttosto seri, che gli impedivano di svolgere attività fisiche impegnative come sono quelle dei giochi dei bambini, ad esempio. Adesso, fortunatamente, tutto si è risolto ed i dottori mi hanno assicurato che crescerà forte e sano come gli altri bambini”.
Ascoltare queste parole e soprattutto l’avverbio “fortunatamente”, ha provocato una forte emozione ad Alessia che è riuscita a nasconderla con gran fatica.
“Mi fa piacere che ora suo figlio sia in buona salute e, da mamma, posso ben comprendere cosa si possa provare”.
Alessia per l’emozione di quanto raccontatole dalla mamma, non se la sente più di andare oltre e pensa che sia meglio salutare e andarsene.
Mentre fa l’atto di alzarsi, Alessia è trattenuta dalla signora Marchetti.
“Aspetti, aspetti ancora un po’, che le faccio conoscere mio figlio. Mi perdoni quest’atto d’orgoglio materno, ma da quando sta bene sono rifiorita anch’io e questo mia condizione la voglio condividere con più persone possibili e poi lei ha un bambino come il mio!” “Ora lo chiamo!”
“Luca, Lucaa, vieni un momento qui da mamma, che ti devo dire una cosa” “Dai! Vieni!”
Alessia a sentire che anche questo bambino si chiama Luca, si smarrisce un attimo, il cuore le sembra che debba uscire dalla bocca e si rimette subito a sedere.
“Signora non si sente bene?”
“No! Stia tranquilla, signora è…che ho spesso la pressione bassa e, quindi, sono soggetta a dei leggeri capogiri. Ma è già tutto passato, ora sto bene!”
“Pensi la coincidenza, signora anche mio figlio si chiamav…. chiama Luca!”
“Ma guarda!” Dice sorpresa la signora Marchetti “Coetanei e con lo stesso nome!”
“E con lo stesso cuore!” Sussurra impercettibile Alessia.
Luca Marchetti si avvicina alla mamma e gli chiede:
“Che cosa devi dirmi mamma?”
“Oh, niente di particolare ti volevo presentare a questa gentile signora che ha un bambino quasi della tua età e che per giunta si chiama Luca come te!”
“Che bello, è qui? Così può giocare con me?”
Alessia non ce la fa a rispondere, le manca il fiato, l’emozione è troppo intensa…
“No luca, oggi non è qui, me lo ha detto a me la signora!”
“Che peccato ci saremmo divertiti insieme!”
Alessia prende tutte le forze che ha e rivolto a Luca:
“Sei proprio un bel bambino ed anche bravo, per quello che vedo, come il mio Luca”. “ Hai una gran mamma che ha un gran cuore e pure tu caro Luca hai un gran cuore!” Mentre pronuncia quest’ultima parte della frase, Alessia non ha resistito alla tentazione di carezzare Luca e di far scivolare la mano sul petto, per poi ritrarla con un movimento lento e misurato e portarla alla bocca.
Questo gesto non passa inosservato alla mamma di Luca che resta impietrita ed incerta se quel gesto può presupporre la conoscenza dell’operazione subita da Luca, di cui lei non aveva fatto il minimo accenno. Rimane senza parole a fissare con molta intensità il volto di Alessia che ricambia con un ampio e rasserenante sorriso, ma nel cui sguardo sembra comprendere qualcosa che tende a rifiutare, ma prova una strana sensazione, che non sa spiegarsi.
“Ora signora devo andare, aver parlato con lei…con voi, è stata una gran bell’esperienza, che mi ha dato tanta fiducia e serenità. Le faccio i miei auguri per il…suo splendido bambino”. “Addio!”
“Ciao!” Saluta Luca con voce squillante:
La mamma di Luca, frastornata dalla situazione e dai suoi pensieri, non riesce nemmeno a salutare Alessia, ma solo a seguirla con lo sguardo mentre si allontana.
Fatti pochi passi Alessia si volta indietro e guardando la mamma di Luca si porta la mano destra sulle labbra e poi sul suo petto sorridendo.
La mamma di Luca, in quel momento, crede di aver capito, ma non riesce a fare nulla. Vorrebbe correrle dietro, abbracciarla, ringraziarla, ma non ci riesce e, forse, pensa che sia meglio così.
Segue Alessia con lo sguardo finché non volta l’angolo.
Luca è già tornato dai suoi amici a giocare.
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