racconti » Racconti drammatici » Policarpo lo scemo
Policarpo lo scemo
- L'hai trovato? - chiese la donna.
- E come no... Ho girato tutte le strade, ma alla fine l'ho agguantato, l'ho portato con una scusa dove nessuno poteva vederci, e gliene ho date tante, ma tante, che stavolta se le ricorderà finché campa, quant'è vero Dio! - rispose l'uomo entrando nella stanza.
- Ti ha visto qualcuno? E dov'è che l'hai lasciato?
- Sotto il ponte del mulino del prete, - spiegò l'altro, ancora tutto sudato ed accaldato, col respiro pesante - a farsi leccare le ferire da quella bestia che si porta sempre dietro... Voglio vedere adesso, voglio proprio vedere se dopo tutte quelle che gli ho suonate ce l'avrà ancora la faccia di ripresentarsi in paese! - E subito dopo, per tranquillizzare la donna: - No, non c'era nessuno che passava da quelle parti.
- Questo è l'essenziale... Speriamo piuttosto che l'abbia capita.
- Capisce, capisce quando vuole! Mi ci gioco l'intero raccolto di olive, guarda! Il male lo sente pure lui, eccome! "Basta, basta!", continuava ad implorare l'animale, "non ci torno più qua, non ci torno più".
- Calmati, Nicola, tieni, bevi. - E la donna gli versò del liquore.
Don Nicola si diede una rassettatina al gilé dopo essersi rimpannucciata la camicia, si ravviò i capelli con le mani, si sedette e cominciò a sorseggiare la "strega" fatta in casa. Poi, scuotendo il capo e con le tempie che gli pulsavano per la collera, riprese:
- Ma guarda tu la Madonna, se io, un galantuomo... mi debbo ridurre a quarantanni, e con la mia posizione, ad andarmi a sporcare le mani con uno straccione vagabondo di quella fatta! Eh, ma adesso basta! Nessuna pietà bisogna avere; avevi ragione tu, come una bestia campa e come una bestia bisogna trattarlo!
- Speriamo che sia la volta buona, e che questa vergogna abbia a finire finalmente. E che diamine! La situazione s'era fatta intollerabile oramai! - concluse la donna stringendo con forza le labbra.
Tale colloquio si svolgeva nel salone grande del palazzo appartenente ad una facoltosa e rispettabile famiglia di acculturati possidenti (avevano più terre loro che il marchese di Bisignano), e precisamente tra donna Annunziata e suo marito don Nicola, fratello maggiore di Policarpo, quello rimasto sotto il ponte del mulino del prete a farsi leccare le bastonature, pecora nera della benemerita razza dei Passaquaglia.
L'annoverare addirittura un patriota garibaldino negli ascendenti (pure la lapide sul muro, accanto al portone), oltre che maestri, avvocati, nonché un podestà, era ancor più motivo di onta per quelle onorate persone, ossessionate dall'esistenza nel proprio seno di un inutile idiota che le aveva ormai costrette a starsene rintanate in casa per la vergogna.
Ma Policarpo, idiota non era dalla nascita: era stato, quello, il regalo del servizio militare quando, dopo che gli avevano attaccato la meningite in caserma, invece di lasciarlo morire come sarebbe stato meglio per tutti, i medici dell'ospedale militare ebbero la bella pensata di restituirlo alla madre e ai fratelli nuovamente sano come un pesce nel corpo, ma con la testa che era diventata quella di un bambino di due anni.
Viva ancora la madre, il dispiacere che quel pezzo di giovane si fosse ridotto in tali miserevoli condizioni prese il naturale biologico sopravvento sopra ogni altro sentimento nell'animo dei fratelli, e pure la cognata ne fu mossa a compassione.
- Tutto quello che serve per il nostro Policarpo! E senza badare a spese! A costo di venderci poco per volta pure le terre della contrada di Pietratagliata! - dicevano col mento tremolante a quanti domandavano notizie sulla salute del ragazzo.
E così fecero per un pezzo: videro dissolversi cifre spropositate, il ricavo di tòmoli e tòmoli coltivati a frumento, i proventi di mesi di fatiche e sudore impiegati a contrattare, a vendere, a comprare, a sorvegliare; e tutto per farlo visitare da fior di professori. Lo portarono a Potenza, a Taranto, persino a Napoli, e una volta addirittura a Roma, ma senza il pur minimo risultato.
Sino a quando, morta la genitrice, con la coscienza a posto perché quello che si doveva fare l'avevano fatto (e chi poteva dire di no?), cominciò a prender corpo nell'animo dei congiunti, dapprima una subdola intolleranza, in seguito una franca ostilità nei confronti di quel povero scemo, fonte soltanto di grattacapi a non finire, dato che oltretutto andava guardato a vista.
Alla fine non ne poterono più e l'odiarono.
Per mesi Salvatore (l'altro fratello), Nicola e Annunziata ce l'avevano fatta a tenerlo rinchiuso in una stanza della grande casa, finché non ne furono più capaci, dato che non potevano mica montargli la guardia ventiquattrore su ventiquattro o spendere una fortuna perché qualcun altro lo facesse per loro... come se non fossero bastati tutti i biglietti da diecimila già buttati al vento tra professori e medicine!
E così, una volta lasciato privo di controllo, le fughe di Policarpo divennero sempre più frequenti: non si poteva tenerlo a freno nemmeno legato al letto, quello sciagurato. Né con le legnate se ne aveva ragione, perché la maniera di fuggire la trovava sempre, e se non era dalla porta era magari dal finestrino della cantina.
I primi tempi rimaneva via per giornate intere girovagando per il paese, dove i ragazzi avevano imparato a dileggiarlo, facendone bersaglio di sassaiole e altri giochi crudeli. Poi cominciò a sparire dalla circolazione per settimane e si seppe che vagabondava per le località limitrofe raggiunte a piedi o aggrappato alla scaletta del postale.
Per mangiare chiedeva la carità a quanti incontrava per strada o a chi aveva la compiacenza di aprirgli la porta. Faceva allora cenno con la mano alla bocca e ogni tanto veniva esaudito con un pezzo di pane magari pure unto di olio, o con dei fichi secchi.
Per dormire si rannicchiava in un cantuccio, avvolto in un cappotto, di solito davanti ai portoni delle chiese, e se preti e sagrestani non glieli facevano ruzzolare a calci, trascorreva in quel modo le notti.
Quando l'ignominia venne risaputa in casa Passaquaglia i fratelli divennero furibondi: si misero pertanto a dargliele ancor più di santa ragione, e forse lo fecero proprio a bella posta allorché gli spezzarono una gamba con un tubo di ferro, così per più di tre mesi Policarpo dovette per forza restare in casa, e non ci fu neanche bisogno di legarlo al letto.
Ma guarì, e sebbene rimasto sciancato per via della gamba curata male, riprese a comportarsi tale e quale a prima, continuando a mandare in bestia fratelli e cognata.
Per non parlare poi dei guai che andava combinando in casa, come quella volta in cui gli capitò in mano, non si sa come, una scatola di fiammiferi e fece come aveva tante volte visto fare alla serva con la legna del camino o a qualcuno dei suoi fratelli quando s'accendeva il sigaro.
Il fiammifero avvampò friggendo. Per la paura Policarpo lo lasciò cadere proprio sul letto, le coperte presero a bruciare, e senza l'accorrere di quelli che si trovavano in casa ben presto avrebbe preso fuoco l'intero palazzo.
- Centomila lire di danni! Centomila lire! - continuava a ripetere imbufalita donna Annunziata. - Così non si può andare avanti, non se ne può più! Bisogna rinchiuderlo! Dove volete, ma bisogna rinchiuderlo!
- E pagare tutti quei soldi finché campa? - intervenne don Salvatore, il fratello scapolo.
- E che dobbiamo fare? Permettergli di circolare come se niente fosse per le strade del paese chiedendo la carità, per farci ridere appresso... e continuare a mantenerlo in casa nostra dove non fa altro che malanni? Che se ne vada altrove a far guai! Io non lo voglio più vedere, non lo voglio più sentire! - E intrecciate le dita delle mani, con gli occhi al cielo: - Immacolata Vergine santissima, fammela tu questa grazia! - implorò. Poi, nuovamente rivolta ai due uomini: - Fate quello che volete, basta che me lo levate di torno prima di questo momento! - e scoppiò in un pianto convulso, dovuto senz'altro all'esaurimento nervoso che giusto qualche giorno prima il medico condotto le aveva diagnosticato.
- Fratello o non fratello, ci penso io! - intervenne don Nicola.
E fu così che, sotto il ponte del mulino del prete, raggomitolato nella cunetta di scolo dove s'era rifugiato per tentare di proteggersi dalle bastonate, Policarpo ne prese tante, quel pomeriggio... facendo capire alla fine che in paese non si sarebbe più fatto vedere.
Si spostò allora verso Senise e Noépoli, dove impararono ben presto a conoscerlo come "Policarpo lo scemo". E siccome faceva pena, quello storpio senza cervello, qualcosa da mettere sotto i denti per sé e per il bastardo che ormai lo seguiva dappertutto la rimediava sempre.
I parenti dal canto loro non se ne curarono ulteriormente, sicuri che, memore delle ultime busse, non si sarebbe più fatto vedere; e furono soddisfatti così, anche perché così avvenne.
Un giorno Policarpo s'arrampicò portandosi dietro il cane, com'era sua consuetudine, sulla scaletta del postale. Quando questo giunse sulla salita di Rotondella dovette ad un certo punto arrestarsi ansimando, perché quella vecchia ferraglia di motore aveva bisogno di raffreddarsi.
Policarpo scese dalla scaletta, si sedette per terra appoggiandosi con la schiena ad una delle ruote posteriori del veicolo, tirò fuori da una tasca della giacca un tocco di pane e ne gettò un pezzo alla bestiola. Quindi ne addentò un altro pure lui. Ma non fece in tempo a mandar giù nemmeno il primo boccone, che il postale fece improvvisamente marcia indietro.
Ci fu più d'uno che lo riconobbe dagli stracci che portava addosso e dal bastardo che guaiva impazzito: anche se aveva avuto la testa maciullata dalla ruota era chiaro che quel povero corpo non poteva appartenere che a lui, a Policarpo lo scemo.
I fratelli ne furono avvertiti e vennero invitati ad andarselo a prendere. Ma Salvatore e Nicola preferirono lasciarlo nel luogo in cui si trovava, nella cella mortuaria del cimitero di Rotondella, dove lo fecero seppellire in tutta fretta e senza tante cerimonie.
Il cane, che aveva seguito Policarpo nell'ultimo viaggio, nessuno fu capace di scacciarlo, nemmeno il guardiano del camposanto a furia di calci nel costato; e venne trovato morto per le percosse ancor prima che per la fame, col sangue che gli colava dalla bocca, due o tre giorni dopo, accanto alla fossa nella quale il padrone era stato seppellito.
Sul cumulo di terra sotto il quale Policarpo riposava restò per qualche tempo una croce di legno con due date e un nome, in seguito il sole e la pioggia cancellarono le lettere sulla croce; infine, quando un monello spavaldo la rubò per farci "mazza e pizzo", non vi rimase neppure quella.
1234
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0