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Descrizione venusta scapigliata
Da lontano pareva un ragazzino, non fosse altro per l'altezza ridotta o il vestito alla parigino di Boulevard des Capucines che la imbacuccava dal basco al cuoio color caramello delle scarpe consunte, chiaramente riesumate da un guardaroba pregenerazionale; quanto piuttosto per il disarmonico su e giù delle spalle, che faceva ondeggiare quella figura immersa talmente in se stessa, come se un pensiero in fin dei conti allegro la abitasse. Nulla era visibile infatti che contraddistinguesse un sesso preciso. Solo da vicino quello che chiunque avrebbe potuto scambiare per un sottile jeans nero si rivelava per una calza corvina di lana grossa, tanto simpatica, fuori moda per le memorie da festività in famiglia che ricordava, quanto sdrucita e stretta appariva, a causa di cuciture recenti, raffazzonate, e la tonicità dei quadricipiti che la calzavano. Mentre la gamba sinistra spuntava indistintamente da sotto il bordo del montgomery verde loden, l'ultimo corno non allacciato dell'alamaro delineava uno spacco sopra la gamba destra, dal quale si poteva intravedere un paio di ridicole braghette, anch'esse scure, ed il maglione beige sottostante, troppo largo per quella stazza minuta, mentre dietro il lembo non più vincolato sventolava sbarazzinamente nel gelo, scosso dall'umida brezza levantina. La vidi che scendeva dal ponte de l'Anzolo, spedita ma distratta, e lì per lì non mi accorsi dell'accostamento al capitello barocco che il mio occhio le incollava al fianco, dalla prospettiva del campicello nel quale mi dilungai ad analizzarla. Solo più tardi avrei riflettuto su quanto il christus patiens avesse in comune con quella ragazza, immersa appunto in una patientia venusta.
Le mani intirizzite erano paradossalmente sprovviste di guanti, vista l'ermetica, benché conturbante, pesantezza dei vestiti, ma si proteggevano malamente dentro la doppia manica di maglione e cappotto. Sottili dita eburnee guizzavano infatti all'infuori per impugnare il telefonino, unico elemento davvero disarmonico nel profilo, mentre il cavo delle cuffie che si insinuavano dolcemente nelle orecchie di carciofo sbucava da una piega nascosta, che invitava il mio sguardo avido a scrutare ancora più addentro quel mistero infagottato. Gli occhi ed i capelli più bassi erano le uniche parti, eccezzion fatta per le punte delle dita, del suo vero corpo che non disdegnassero di entrare in contatto con il mondo esterno e di suggerire al passante che la guardasse l'immenso segreto di bellezza avvoltolato dai tessuti che la schermavano. E che segreto!
Mai i miei occhi avevano carpito un indizio così ricco prima di attaccarsi a quella silhouette, a quell'aura malcelatamente anonima.
Un poco, per la verità, si vedevano i capelli; la loro bellezza comunque era parsimoniosa, sicché anche senza rimirarli nella loro interezza essi potevano già esaurire tutte le loro qualità. In conformità alla pelle, più lattea e smunta quasi di quella di una norvegese (tratto questo che mi suggerì immediatamente una sorta di anemia o di cachessia non troppo latente) e agli occhi, i capelli erano biondi, più del platino stesso, ma con una venatura di bruno nel retrogusto visivo, quasi solo accennata nelle radici, e comunque sia infinitamente meno volgare. Come spesso, sempre accade, gli occhi avevano giocato la parte più subdola ed inconscia del rapimento, benché manifestamente diretta. Sembrava infatti che il gelo della nebbia e il murmure dell'acqua vicino ai nostri passi avessero macchiato quel dipinto con il loro personalissimo tocco, firmandosi indelebilmente sopra il naso proclive alla francese, insolitamente allargato. Sotto la fronte si riflettevano (sì, perché quegli occhi non brillavano di luce propria, ma vivevano solo nel riverbero di quella altrui) due globi cerulei, come ghiaccio o vetro liquido; ma non era quel ceruleo così tipicamente nordico o topico da risvegliarmi immagini o idee già scoperte. Anche su questo punto quella avvenenza era diversa. Non era quell'azzurro superiore, fulgido, magnetico delle bellezze prorompenti, bensì tutto l'opposto. Chine e melanconiche, le pupille incorniciate, schive e leggiadre iridi da ventenne, erano vacue e indifferenti, come rivolte in sé stesse alla pari del resto del corpo, e suggerivano addirittura un fastidio della propria indole, al punto che quel ceruleo si tramutava in un grigio perlaceo, opaco, per me tanto più poetico ed avvolgente nella sua sfumatura di declino.
La malinconia del suo essere donava al corpo un fascino che, sorridente ed allegro, non avrebbe raggiunto nemmeno in minima parte.
In tutto quel finito squilibrio e buon gusto temperato, ogni aspetto del vestire non si discostava dall'immagine spirituale che mi figuravo immediatamente. L'equilibrata imperfezione degli abiti, a differenza del portamento, era condotta da una mirabile sobrietà. I colori infatti della giacca muschio, il maglione beige, il nero, il caramello e l'ocra del basco (quest'ultimo forse la migliore fra le scelte, visto il volticino) conferivano ad ogni branca della visione un gradevole sentimento di arrendevolezza e desiderio di invisibilità; sentimento, questo, che ho sempre sentito come denominatore comune fra le anime larvatamente infelici.
Certo. Tutto era superbamente accentuato dall'atmosfera del luogo, coadiuvata dai consueti tempo e pressione. In caso contrario l'effetto non sarebbe stato altrettanto icastico e joyciano. Eh, già... Solo Joyce avrebbe potuto parlare di una simile visione, che, se vogliamo concentrarci su un ambito tanto azzeccato per tema come quello pittorico, nulla avrebbe avuto di chiaroscurale. Era un gioco del sonus medius, una cromatura né illuminata né oscura o dannata: aveva la bellezza della mediocrità non scontata.
Di fatto quella creatura sembrava essere stata disegnata da un pittore giovane e inesperto ai primi lavori, tanto vividi e appuntiti erano i suoi difetti, ma che non avrebbe saputo disegnare con maggior trasporto e libertà se non in quell'esatto istante pervaso di talento e di ispirazione mercuriali. Mi ridissi subito, sinceramente, che una certa armonia c'era in quel corpo... No. 'In quel volto' devo dire, giacché il corpo, nella sua interezza, mi era già sofferentemente ignoto (tale era il magnetismo di quella naiade cadaverica!). Questa armonia la potei notare solo più tardi, allorché toltasi il basco mi rivolse le prime parole che sentì emettere da quelle labbra, esangui e screpolate da un inverno troppo rigido per la loro fragilità. Aveva quel modo di non guardarti mentre ti parlava, ora protervo ed ora timido, ma molto più efficace di tanti sguardi ricambiati che ho provato in vita mia; ed era proprio quando non ti fissavano che percepivi quegli occhi chiarissimi piantati su te. Pareva, come il loro riflesso del resto, che nel volgersi altrove guardassero la tua immagine in uno specchio etereo oltre alla tua vista, illocalizzabile. E quando invece mi guardava diritto, la sua natura la spingeva a farlo con la testa inclinata, a mo' di cane in attesa dell'ordine, allo stesso modo di quando ci fermiamo ad ammirare dopo un acquazzone le pepite d'argento liquido lasciate sulle ragnatele; magiche biglie di minuscola madreperla. Credevo che, nel fissarmi, i suoi occhi palpitassero al ritmo dell'acqua alta, quieta nella sua minaccia inesorabile. Quel volto tanto enigmatico, sia per la sua posizione naturalmente interrogativa, sia per via di quella mezza cascata di fili paglierini, mi diede modo di riconsiderare la capigliatura che prima avevo affrettatamente valutato.
I capelli, tagliati di recente, dovevano essere stati lunghissimi e raccolti a coda di cavallo per lungo tempo (cavallo ugroffinico ironizzerei, visto il tipo). Ora erano tagliati a caschetto, ma senza una pesata precisione, tanto che ricordavano una di quelle polacche insipide tanto spesso visibili in città durante le vacanze. Pendeva dall'orecchio sinistro un grazioso orecchino di metallo, la cui foggia non era né orientale né occidentale; ipotizzai che, nell'intento della macchina che l'aveva forgiata, l'indistinta geometria dovesse rimandare ad un pianeta, o addirittura ad un astrolabio stilizzato. Ancora una volta fu una pendenza che sbilanciava il tutto con un gusto superbo, o semplicemente a me familiare. Un corto ma fitto ciuffo infatti le ricadeva sull'occhio sinistro mentre mi parlava per la prima volta, sicché io osservavo un volto diviso a metà, e per questo dalle proporzioni piuttosto sperequate; come tutta l'impressione che mi aveva dato del resto. La mezza cascata di miele, l'occhio vitreo come quello dei ragazzini ubriachi, e la pelle candida formavano un trittico efebico che esaltava le crescenze e decrescenze cromatiche, assai più di come solitamente si vagheggia dei contrasti.
Da vicino la risultanza dell'ambiente, magico nel torpore di mattino non ancora sciolto dall'abbraccio del crepuscolo, era ancora più notevole. 'Formidabile' oserei dire, solo se la sua bellezza mi avesse mozzato il fiato o disciolte le viscere. Ma non era questo, l'ho già detto, il caso. Essa mozzava invece lo sguardo e corrodeva l'immaginazione.
La brina disciolta saliva, tramutandosi in nebbia di ottobre, solo più fredda e secca, intorno a lei, e cospargeva ogni cosa del suo alone, come a voler preservare una parte della calle all'immaginazione. Il marmo bianco della chiesa e i mattoni pallidi del muro opposto non facevano che inzuccherare ulteriormente il tutto. Escluse le pietre scure di sporcizia e umidità del terreno, il nitore dell'atmosfera e la luce soffusa circondavano ogni angolo, simili a quei sogni descritti nel cinema surrealista. Ed era infatti con la stessa lucentezza che il sole, a stento sbirciando sopra le cime dei tetti di tegole, intrideva quei capelli albini di un bagliore fioco, più debole dei lampioni nella prima sera, quasi quel chiarore fosse troppo debole e non riuscisse a rifrangerne la delicatezza assopita. Quel caschetto era un miele dunque imparagonabile all'oro convenzionale, ma lo ricordava timidamente, e ne ricordava la preziosità metallica pur senza averne il brilìo. Le sopracciglia, del medesimo tono, non erano perfette, ma i radi peletti in soprammercato si presentavano regolarmente in entrambe, ottundendo quindi quell'ennesimo difetto.
In generale aveva forse, in una metafora confusa, l'impressione della spuma marina, fin quasi della sua parte più spregevole, e cioè la mucillaggine. Ma a coronare il tutto vi erano le efelidi più grandi e allo stesso tempo (davvero inverosimile!) meno percettibili sulla pelle che avessi mai notato, al punto che parevano chiazze di caffè all'americana sulla superficie di latte tiepido. Le lentiggini dunque, che in me risvegliavano l'erotismo più irrazionale e le fantasticherie più sublimi che l'arte nella mia giovinezza mi avevano arso, erano l'unico elemento forse che potesse superare in qualche aspetto qualsiasi altra fanciulla.
Questa preziosità fisica, infinitesimale ma rilevante, aveva inoltre la capacità di arginare, e confezionare come ulteriore artificio gradevole, l'ultimo e più interessante difetto; il quale, com'è ovvio, divenne per me la concludente e più intrigante delizia: i suoi denti.
Corrosi dal fumo, tanto sugli incisivi quanto nel resto della dentatura, parevano ossa fatte di sabbia, più consumate del normale, insolitamente finto-trasparenti addirittura. Lo smalto era divenuto ocra, ancora panna acida, e l'attaccatura delle gengive mostrava un ricettacolo di tartaro che aveva dovuto essere stato rimosso più volte, vista la presenza non elevata rispetto alla avanzata perdita di colore originale. I bordi avevano perso il seghetto ed erano appiattiti. Ciononostante essi si presentavano in dimensioni non ridotte per le proporzioni della bocca, e senza sgradevoli spazi innaturali sembravano essere cresciuti, o corretti, adeguatamente per struttura e posizione. Tutta questa imperfezione era per me nuovamente sapida e immediatamente gradita. S'insinuò in me una attrazione chimica esagerata per quegli ossicini, tanto più che il mio fervore si rivolgeva ridicolmente non a carne e sangue femminili, ma ad una loro sterile appendice inorganica e malata. Questo pensiero mi risultò limpido solo nel pomeriggio, allorché compresi che nella mia estasi immotivata mi stavo convincendo sempre più oniricamente que toutes ses dents étaient des idées. Nonostante la loro stramberia questi denti avevano il potere di creare il sorriso più stonato e poetico della creazione, quasi non fossero abituati a compierlo, o la loro padrona non ne fosse capace...
Io non ho mai creduto al nomen omen. Ma quella dentatura unica me ne convinse fin nel profondo, quando da quelle tessere così liricamente sporche uscirono delle parole dall'accento ligure, le quali, melodiche ma contraltili fino alla cupezza, mi fecero rabbrividire:
<Piacere, Marella>.
In latino marella significa "malinconica".
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