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Piccoli folli, piccoli eroi
La luna che si spalancava improvvisa tra gli alberi, carica di imponenza, ad illuminare la fredda nottata, era l'unico punto di riferimento, l'unico contatto col resto del mondo: infatti quella medesima luna piena, dall'aspetto denso di vita, raggiungeva anche i paesini addormentati, laggiù, ormai da tempo scomparsi alla nostra vista.
La montagna, ergendosi maestosa, ci aveva inghiottiti nel suo ventre: era soltanto una sfida tra noi, piccoli uomini impavidi, e lei, possente ed apparentemente invincibile. Eppure ci sentivamo come protetti, in quelle gole alberate : nessun segno di vita civile raggiungeva i nostri passi. Erano quasi le tre di notte. Una notte suggestiva e fantastica.
Avevamo arrancato con trenta chili sulle spalle, per le vallette verdi, tra fontanili e masserie. La vetta ci aveva sovrastato con superba indifferenza : eppure era conscia della nostra sfida. Arrivare all'alba abbarbicati alla croce di legno, che segna il culmine di quel gigante : quella era la nostra sfida, quello sarebbe stato il nostro trionfo. Avremmo sconfitto la vetta : eppure quella, fino a quando il tramonto si era dipinto dietro i suoi massi, ci aveva seguito dall'alto, sorridendo con un ghigno di beffarda ironia.
Eravamo in quattro : quattro amici veri. Almeno così pensavo. Per ciascuno vent'anni, o poco di più : un'età di frontiera, l'età che divide le illusioni dalla vita.
Sembravano parlarci, gli alberi del bosco, cingerci in un abbraccio impetuoso, tanto protettivo quanto difficilmente solubile. Il ruscello, indistinto nell'ombra, era per noi soltanto una scia di vaporoso crepitìo, che scorreva nervosamente tra i ciottoli e le pietre levigate : proprio come di giorno. Quassù nulla dormiva : capivamo che gli orari non sono altro che una convenzione della società.
Eppure era proprio l'ora notturna a dare a tutto un aspetto insolito e meraviglioso: sentivamo ad ogni passo nascere in noi emozioni profonde; emozioni difficilmente descrivibili con semplici parole.
Eravamo i padroni! Sì, ci sentivamo i padroni di tutto; pensavamo di essere noi i protagonisti, su quel fantastico palcoscenico generato dalla natura. Era come se al mondo esistessimo soltanto noi. Noi e la montagna.
Un sogno, forse è stato solo un sogno. Forse il sogno di una notte. Forse quello stesso sogno con cui, tempo prima, avevo rivestito di poesia la ragazzina che, con gli occhi fuggenti, mi osservava nel corridoio della scuola, mentre scendevo le scale col viso abbronzato, denso di sfumature d'ebano, di chiazze di pelle scorticata. Erano le insegne impresse dalle sferzate della tramontana, dai raggi di sole imprigionati dentro il ghiaccio, riflessi sul viso come smaglianti lame; penetrati sin dentro gli occhi dallo sconfinato specchio nevoso : erano le tracce manifeste di una precedente avventura di montagna.
Ed ero rimasto colpito da quello sguardo della ragazzina, l'avevo forse vista partecipe di quei sentimenti: nei miei pensieri l'avevo rivestita di poesia, quella poesia che emanano i laghetti piovani stesi sul divano d'erba fiorita, i sentieri fiancheggiati da campi di girasole, i silenzi delle mandrie assopite dietro le staccionate.
Così, in quella vecchia, già lontana, avventura, appena giunto sulla vetta, avevo afferrato la piccozza -quel giorno strumento vitale contro l'insidia di abissali crepacci- : con la punta, avevo tracciato sulla neve il nome di quella ragazzina. Un nome destinato ad essere prestissimo sciolto dal sole!
Un sogno, forse solo un sogno. È stato solo il sogno di una notte, ma certamente ha un preciso significato.
La notte era fonda, quando uscimmo dalla boscaglia e ci trovammo sul nudo crinale.
Gelide raffiche di vento frustavano i nostri visi nudi, mentre, col diradare della vegetazione, la pendice si faceva sempre più irta. Le intemperie incipienti prendevano a scagliarsi su di noi; eppure continuavamo a sentirci quasi dei privilegiati : in quelle folate violente era un dio che ci sferzava, comunicando con noi : quel dio che è nella natura... quel dio che "è" la natura.
Adesso non avevamo più la protezione del bosco. Eravamo in campo aperto, dentro uno scenario ancor più disadorno e sconfinato : eravamo totalmente esposti e sempre più battaglieri.
Le nuvole avevano preso a lambirci con le loro carezze umide, mentre picchiavano verso valle a velocità impressionante.
Nasceva ancora una diversa sensazione, mentre su, in alto, le cime prendevano a celarsi nella nebbia. Una nebbia solida ed intensa, che ora stava vincendo anche la battaglia con la luna.
Quassù nulla lasciava trapelare che al mondo esistesse l'uomo : non tracce di vita umana segnavano i nostri passi, se non forse un'eco attutita di remote stagioni.
Tutto appariva immutabile, eterno : i bassi cespugli, schizzati qua e là di bacche scolorite; l'erba inerte e rasa, inginocchiata alla stagione; le smussate pietraie battute da quel vento sempre più gelido e violento.
La casetta sotto la rampa finale : una traccia improvvisa di civiltà. Erano quasi le quattro di notte, ormai. La necessità di rifugiarsi nello stazzo di secco pietrame ci veniva intimata dalle ventate sempre più fredde e violente : capivamo che esse costituivano l'avanguardia di un vero uragano.
Aprimmo in fretta la malferma imposta in legno. Poi, appena dentro, prendemmo cognizione di quel piccolo riparo. Un buio pressochè totale; dalla copertura, costituita di laterizi appena appoggiati, frequenti crepe lasciavano filtrare spifferi glaciali.
Il telo di nylon, posto quale protezione sopra quel precario tetto: oscillava vorticosamente, sbatacchiato da un cupo mugghio; e si lacerava sempre di più ad ogni colpo, ad ogni passaggio delle folate travolgenti.
Erano raffiche improvvise, intervallate da istanti di apparente quiete. Poi, dal silenzio, tornavamo a seguire il fragore dell'onda di vento : progressivamente, con mormorìo sempre crescente e sempre più prossimo a noi, l'onda radeva l'erba, fino ad abbattersi sul nostro fragile rifugio. E noi quattro, invano, afferravamo il lembo di quel telone, cercando di prolungarne il più possibile l'agonìa : estremo riparo per i nostri corpi.
Come i primitivi, scoprimmo la necesità di far tutto con i pochi e grezzi utensili a disposizione. E allora, i primi bagliori crepitanti del fuoco appena acceso, quale antico retaggio di uomini della pietra, ci portavano, oltre che un minimo di luce e di calore, anche un nuovo motivo per quella notte indimenticabile.
Tra quelle mura di fragile pietra usurata, ci eravamo costruiti una piccola oasi : un'oasi dove restavamo in balìa del dio-natura; ove, pur dovendo lottare contro le sue terrifiche insidie, proprio perciò restavamo in contatto con lui.
La sfida tra noi e il colosso montano proseguiva. Un bicchiere di grappa, un fazzoletto di salume intirizzito sottratto allo zaino, il fuoco oscillante che svolazzava nella direzione dei colpi di vento : noi, quattro piccoli folli che si sentivano quattro piccoli eroi!
Ci sembrava quasi la parodia delle serate spesso convissute nelle nostre abitazioni riscaldate : serate con la tempesta all'esterno, a picchiare invano sui saldi vetri degli infissi, e noi dentro, in un festoso ciacolìo; con il vino rosso quale grande protagonista, a generare quel profondo calore con cui avvolgere l'amicizia; ad annebbiare di euforìa la mente insofferente, bramosa di evasione.
E poi via, insieme, per i vicoli solcati dai rigagnoli piovaschi, con la lucidità sfumata, a sfidare il mondo abulico con le artificiose immagini plasmate dall'ebbrezza; una allegrìa che ci compenetrava, evasa da ogni limite locale e temporale...
Qui il vento era sempre più potente, già da un'ora eravamo lì dentro, immobili, piegati come le dimensioni dell'ambiente consentivano; ad osservare i giuochi sincopati del fuoco, che era il centro delle nostre attenzioni : l'unico vero protagonista, ormai.
Enormi gocce di pioggia filtravano dalle fessure e colavano lentamente all'interno, raggelanti sui nostri visi e lungo le nostre schiene.
E noi, quattro piccoli idioti, incastrati nel groviglio dei corpi, in posizioni incredibili, quasi compenetrati : forse compenetrati a sentire che quella era la nostra lotta comune.
Poi, ad un tratto, un'improvvisa ventata di particolare furore, scardinava la porta della capanna, trascinandola violentemente lontano. Ora eravamo all'aperto, era necessario recuperare quello stipite in legno e riposizionarlo per proteggersi.
Ma forse quello fu il richiamo del destino, la raffica mandata da un dio, per consentirci un brevissimo istante di fantastico spettacolo.
Per un attimo le nubi erano svanite di colpo, come d'incanto: la cima del monte si stagliava maestosamente al di sopra di noi, e riempiva possente la sfumata penombra;
i raggi della luna si sparpagliavano sulla neve, come brillantini sul viso femminile in una festa da ballo. Pochi occhi hanno potuto vedere un simile spettacolo, e solo chi l'ha vissuto può comprenderne l'emozione : restavamo affascinati, sgomenti, ammutoliti, quasi atterriti dalla sensazione di staripante potenza che quel picco innevato ci suggeriva.
Fu solo l'impressione di un attimo : le nuvole tornavano rapide, nel gelo pungente, mentre serpentine lucenti cominciavano a schioccare, elettrizzando la volta nera.
Fu impellente la necessità di recuperare la porta, rimontarla e rientrare di corsa nel rifugio.
Restavamo ancora avvolti nell'emozione : cercavamo di trattenere il più possibile, negli occhi e nella mente quell'immagine favolosa. Quante volte, da quella notte, ho cercato di concentrarmi e rivivere l'emozione di quella fuggevole immagine!
Un sogno. Quel fuggevole sogno era svanito : il sogno di quella ragazzina, che avevo immaginato pronta a donare la propria emotività a questo mio mondo di poesia; a cui pensavo di poter regalare questo mio ambiente pazzo e bizzarro, queste mie recondite emozioni, ritenendo di colmare, con esperienze e magiche fiabe d'oggi, la fantasia di cui la sua ingenuità era forse rivestita.
Poi l'avevo guardata, seduta con quel sorrisetto dal sapore di grezza ironia; come pensasse che, in fondo, fossi io ad avere un disperato bisogno di lei; come pensasse che fosse solo lei ad avere qualcosa da concedere. Un profumo particolare effondeva ora dal suo viso : il profumo dei frutti acerbi che si tramutano in carezze appassionate, che genera il turbamento di fantasie un po' perverse. Quassù, neppure in quel profumo avrei saputo discernere : confondere la stella cadente di una lunga primavera con una ragazza adolescente che sprizzava malizie elusive. Così quel sogno era fuggito.
Il sogno era ormai lontano. I fulmini avevano preso ad abbattersi rovinosi sulle rocce d'intorno: squassi di terrore nel sangue. Era una sensazione per noi nuovissima, l'unisono fra l'esplosione fragorosa ed il saettare della scintilla azzurrognola. Nei nostri pensieri, sembrò ora levarsi da ogni angolo della capanna un tintinnìo cupo di oggetti metallici: ferrei conduttori di morte.
Ora capivamo, nei nostri tremori, come e perchè gli antichi ellenici avessero creato il terrifico mito dell'ira di Zeus.
Ora, forse per la prima volta nei nostri venti anni, sentivamo seriamente accanto a noi la concreta possibilità di non tornare. Finalmente, avemmo paura : tutte quelle sensazioni, speranze, riflessioni che avevano accompagnato la nostra notte di avventura, rischiavano di restare lì, per sempre, incenerite dentro inutili corpi fulminati.
E allora, mentre il frastuono lancinante delle folgori trafiggeva i turbini della tempesta, dimenticammo la sfida, gli obiettivi di conquista e l'alba sulla vetta. E vidi l'immagine del "dopo". Vidi tutti i nostri conoscenti, tutti i personaggi di quel mondo al livello del mare: li vidi snocciolare frasi di seconda mano, quale epitafio per i quattro piccoli eroi caduti in un'avventura tanto temeraria quanto inutile. Al di fuori dell'ufficialità dello sgomento e del dolore, saremmo stati classificati solo come quattro piccoli folli: chi avrebbe percepito l'anima di quell'impresa?
Ed ora io, totalmente inzuppato dal sudore delle nuvole e dell'angoscia, come potevo dar loro torto? Come potevamo, in quegli sguardi privi di parole, evitare di chiederci chi mai ce lo aveva fatto fare?
In quell'istante desiderai il ritorno : sognai una stanza illuminata, piena di persone, gli abbracci, il dialogo; sognai la possibilità di tornare a casa per poter dividere con chi era rimasto le nostre emozioni. Per raccontare quelle avventure, partecipando agli interlocutori, e trasmettendole, le intense sensazioni di quella esperienza.
Allora compresi che proprio quello è il pregio della solitudine : solo essa consente di illudersi che davvero possa esistere un ritorno, con abbracci e dialoghi, con gente che è davvero felice di riaverci e che partecipa delle nostre emozioni, che possa condividerle: che insomma possa far sentire terminata quella avventurosa solitudine.
E in un attimo, tornai a vedere la mia città di provincia: la piazzetta malinconica col cinguettìo dei passeri sempre più smorzato; io solo, presso il moletto, con le mani congelate a cercare rifugio nelle tasche del cappotto; il vento pigro ad increspare l'acqua del porticciolo, l'odore dalle barche ad espandersi nell'aria, quello stesso odore che emanano le alghe e le conchiglie; ed io, ancora solo, ad osservare vecchi pescatori legare ed annodare gomene usurate: quasi un'antica tradizione che, dal mare aperto, richiama l'eco di antichi drammi e dolori, non dissimili da quelli svelati dalle insidiose vette appanniniche.
Poi, il monotono cammino fra le vetrine scintillanti di inganni, con i gruppetti di sedicenti amici, nel ronzìo fastidioso delle cantilene con cui ciascuno esalta le proprie epiche gesta : imprese motoristiche, audaci impennate, spinelli aspirati, risse vinte, sterili conquiste amorose. Le grosse moto rombanti senza riposo, arcionate da baldi fusti con aspetto sprezzante : e le ragazzette a contendere isteriche per salirvi dietro, per potersi ostentare abbarbicate a quegli idoli di acciaio, con la Marlboro pendente dal labbro, quale emblema di superata iniziazione; principesse dagli abbigliamenti continuamente mutati, sempre variopinti come la ruota del pavone. Questo era il mio ritorno. E chi poteva condividere l'emozione di quella luna adagiata in mezzo alla neve, chi mai aveva cercato in qualche modo quel contatto con un dio?
Ora il telo di nylon era completamente squarciato, lasciava filtrare un lievissimo chiarore, che ci illudeva, facendosi scambiare per l'approssimarsi del giorno.
Poi, laggiù, in lontananza, le timide luci del paesino intorno al lago: ci sembravano tante fioche stelle cadute in terra; restavamo a fissare quei tenui lumicini lacustri come un disperato appiglio, come l'unico contatto ora possibile con il mondo civile.
Per tante altre volte, da quella notte, chiudendo gli occhi, ho rivisto quelle pallide luci lontane!... E allora ripensavo ancora alla quotidianità, e mi rendevo conto che solo chi vive certe esperienze riesce ad uscire dal grigiore e a trasformare in stelle i lampioni di un borgo appenninico. Forse gli altri non conoscono le stelle, forse esse sono troppo più in alto dei loro valori!
Era esploso, violento, il nervosismo del sonno mancato. I nembi furiosi si erano momentaneamente assopiti, anche se a tratti riesplodevano improvvisi, mentre il gelo aveva steso la sua coltre su tutto l'ambiente.
Avevamo avuto paura. Ed anche tanta: non sentivamo alcun dovere di nasconderlo.
Non avrebbe avuto alcun senso l'avventura, se fossimo stati davvero impassibili : l'impresa ci appariva grande proprio per questo, perchè eravamo uomini fragili, che possono essere sconfitti, annientati, polverizzati.
Più volte, nel corso di quella notte, avevamo maledetto l'idea della partenza: ma forse proprio in quei sovrumani terrori potevamo sentirci realizzati.
Il chiarore del mattino, ora reale, penetrava sempre più distintamente tra le fessure della capanna. L'acqua meteorica aveva ormai invaso tutto; il fumo asfissiante di quel fuoco monotono trasportava vampate fetide, che alimentavano la nostra nausea e la nostra stanchezza. Le nuvole, stanziate fin sotto di noi, avevano ormai totalmente offuscato la vista dei monti.
Le mani, intirizzite, necessitavano di riparo entro guanti di lana, che le rendevano insensibili.
Tutto era pronto per la ritirata. Erano quasi le sette di mattina quando iniziava melanconicamente la discesa.
Restava un rosso ancora intenso a dipingere gli arbusti; talvolta qualche squarcio di montagna si apriva tra le nubi : restava una indimenticabile notte di emozioni.
La discesa fu molto più rapida dell'andata; il sole, quel giorno, rifiutava di mostrarsi, anche in basso.
Arrivati sul fondo del sentiero, con gli occhi provati ed appiccicati, tornammo a guardare, in alto, i picchi del monte, avvolti nella bufera. La sfida era finita : la montagna ci aveva sconfitti; la vetta che dovevamo conquistare prima dell'alba, rimaneva ora inviolata, a sovrastarci indifferente.
Ma era poi fallita del tutto, quella spedizione? Per qualche momento ci eravamo sentiti quattro piccoli eroi. Ora tornavamo a sentirci quattro piccoli folli. Come ci era venuto in mente di sfidare l'eterna montagna?
Eppure, in quella notte interminabile, avevamo vissuto e provato incredibili emozioni.
Avevamo scoperto tanti valori, veri ed immutabili : stavolta non avevo scritto alcun nome di ragazza sulla neve.
Adesso desideravamo ritrovarci, in pantofole, davanti ad un televisore, avvolti in uno scialle di lana, ingurgitando un piatto di minestra calda. Invocavamo la quiete di un salotto, la terra ben salda sotto i piedi, la noiosa sicurezza delle serate cittadine.
Ma sapevamo che, nonostante tutte queste considerazioni, presto ci avrebbe riassalito la nostalgia degli orizzonti sconfinati, dei passi incerti a ridosso di strapiombi sul nulla, del flusso energico e vitale dei torrenti, dei giuochi della luce lunare tra le chiazze di neve.
E, tornando a guardare la cima avvolta dalla nebbia, cercavamo di respirare il più possibile l'avventura, per poterla, dopo il ritorno, conservare più a lungo con noi.
Era una situazione all'apparenza paradossale : vivevo l'avventurosa solitudine come motivo per poter desiderare ed apprezzare il ritorno. Al tempo stesso attendevo con ansia il ritorno, quale motivo per poter rimpiangere questa solitudine.
È un circolo vizioso, uno strano ciclo. È il ciclo della vita: la felicità non consiste mai in un determinato stato, in una determinata condizione: la felicità può esistere solo nell'illusione dell'attesa, nella speranza che, quando l'attesa si tramuterà in realtà, l'obiettivo sarà raggiunto. Ma poi l'attesa non finisce mai : si tramuta semplicemente nell'attesa di qualcos'altro, in una speranza diversa.
E allora facevamo già una promessa : " Ci riproveremo! Presto torneremo!"
La nostra nuova sfida era lanciata.
E adesso potevo ripensare all'altro sogno: a quella ragazza con cui mi ero illuso di poter condividere queste emozioni, i sentimenti di questo mio pazzo mondo.
La rivedevo salire, con aria quasi annoiata, sulla nera BMW del figlio dell'avvocato: sotto il cappellino di pelliccia, gli occhiali da sole scuri nascondevano le emozioni di quegli occhi, che avevo immaginato tanto ingenui; sopra gli stivali alla moda, le calze velavano appena quelle gambe, che avevo visto tanto immature. Così l'avevo guardata volare via, io solo nella piazza della chiesa, con le mani sempre serrate nelle tasche, mentre l'assordante "disco-music", vomitata dallo stereo dell'auto, soffocava le parole che, forse, stavo affidando al vento.
E adesso, mentre rilanciavamo la sfida al colosso appenninico, ripensavo a lei, ad un'altra sfida persa, ad un'altra delusione. Una delusione che, forse, sentivo ora meno profonda. Perchè adesso avevo capito: in quel contatto mancato, lei si era espressa nei confronti del piccolo folle. Mentre io cercavo esclusivamente la donna per il piccolo eroe.
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Paola il 13/06/2014 14:30
Scritto in maniera magistrale, mi è piaciuto tanto, l'ho letto due volte sai. Complimenti hai uno stile scorrevole e per nulla monotono, e le descrizioni paesaggistiche sono davvero coinvolgenti.
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