Monna Monica! Quante gliene faceva passare a suo marito, Menico il piastrellista! Ora una gliela cantava, un'altra gliela suonava, ancora una gliela cantava e suonava insieme.
Menico, ch'era uomo impastato di santo, socchiudeva gli occhi e, nelle cervella, quell'armuàr senza stipi ch'era diventata si mutava nella carusa bella e sanguta d'un tempo, le di lei gracchie in cip cip di canarii.
Allora faceva conto di stirarsi la faccia con le dita e, guardandola a traverso i fumi della pipa, le sorrideva.
Ahi Maria!
Con la Monna non la passava liscia manco Signuruzzu: tanto le acchianava il sangue a vedergli stampata quella faccia di bumma, che poco ci mancava gliela sbattesse muri muri per il tramite del collo.
A levare occasione, Menico si raccoglieva i barattoli e sortiva per il Circolo di Vuccirìa.
Proprio qui, una sera, lesse la notizia che lo arrivoltò una notte sana risvegliandolo col cuore sghimbescio e una solida certezza ficcata tra le spalle: il sole morirà.
Dal barone Trabia, quella mattina, dovette rifare il lavoro due volte: le piastrelle gli si staccarono per la caucina troppo liquida, il muro venne gonfio che pareva pregno.
Al sant'uomo gli tremavano le mani, tanto che alla terza cazzuola sconocchiata per terra il barone lo pigliò e gli disse: "Menicu, chi fù? Hai a frevi? Caudu si. Suli forti pigghiasti?".
"Baruni, u suli c'entra ma no pi comu pensa lei", e gli contò paro paro il fatto.
Tornando a casa guardava il cielo: era impressione o davvero uno squarcio, come una rasoiata, lo traversava da una nube all'altra?
Ora pareva sul serio pigliato dalla febbre: il sangue gli squassava le vene, la testa gli firriava, le orecchie facevano ron ron.
Tanto ron ron che, quando Monna Monica riattaccò tiritera, Menico non potè sentir più il cip cip dei canarii.