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Lettera
Premetto che questo non è un racconto, né una storia. O per meglio dire, la storia è quella che si legge attraverso le righe, quella non detta, non esplicitata: il cammino di queste parole è la storia propriamente detta. Queste poche righe sono la traduzione, più o meno letterale, di un foglio ingiallito che ho trovato per caso in un libro piuttosto vecchio, nello spazio vuoto tra il dorso e la rilegatura. Il foglio, battuto a macchina, è, probabilmente, una parte di una lettera, ed è in inglese, ma alcune parole sono in italiano. Probabilmente la mia è solo una ennesima traduzione, o manomissione, di una lettera mai spedita, o mai arrivata a destinazione, o un cimelio che il destinatario portava con sé, ma che poi ha perso. Personalmente preferisco immaginarla diversamente. Preferisco che questa lettera non abbia un destinatario, ma che sia un qualcosa lasciato per tutti da un mittente ignoto, forse mai esistito. Una finta lettera per un finto destinatario, aperta a chi potesse comprenderla o a chi volesse leggerla senza preoccuparsi della pienezza delle parole scritte. Mi piace immaginare come queste righe siano arrivate a me, attraverso quali e quante mani siano passate. Immaginare lo stesso stupore che ho provato io nel ritrovamento di un qualcosa che non appartiene a nessuno. Immaginare che qualcuno abbia provato lo stesso piacere che ho provato io nel leggerla, e in qualche modo trasmetterla. Lo stesso piacere che si prova quando qualcosa che non ti aspettavi, ti lascia dentro un segno.
[...]e questo è indicibile, non so descriverla, ho difficoltà anche a ricordarne i momenti. È qualcosa che la mia mente ha cercato di eliminare completamente da subito. Come se in quei momenti, estraneo al mio corpo, non avessi potuto osservare niente.
Sono scappato, sono andato lontano, ho camminato per giorni e per fortuna avevo con me ancora le razioni di emergenza e il carcano. Ho disertato come il più infimo degli uomini e ora non so dove mi trovo, ma sapere di essere lontano da quelle esplosioni, dalle urla, dalle trincee, mi basta.
Ho lasciato i miei compagni, i miei amici. Ho lasciato Te: e questo non me lo perdonerò mai. Pur volendo, non potrei mai tornare, altrimenti sarebbero altri ad allontanarmi da tutto ciò che mi appartiene. E, almeno questa volta, voglio scegliere io. So che non durerò molto qui, mia amata, e non so perché stia scrivendo queste parole. Forse un giorno qualcuno le troverà, e spero abbia il buon cuore ti farti recapitare questo quaderno. Ma ora basta parlare della guerra, del Regno e di ciò che mi ha ferito.
Ieri ho sentito per la prima volta il silenzio e ne ho avuto paura. Pioveva, ma tutto era calmo, immobile, come quando chiudi gli occhi e inspiri profondamente. Il mio respiro era forte e il cuore sussultava, inquieto: come se da un momento all'altro potessi divenire preda. Il tanfo del sangue, impregnato sulla divisa era disgustoso, e quella pace sembrava esaltare quel fetore sgradevole. Temevo che un qualsiasi animale di quella foresta potesse sentirlo e cercarmi. Ma tutto era in attesa di qualcosa, e io sono rimasto lì, seduto, con la schiena contro le rocce, ad osservare le foglie, le piante e il terriccio umido. Guardavo lo scorrere dell'acqua tra le insenature alle mie spalle. Tutto godeva di quella pioggia che mi bagnava il viso, e le mani, sporche di sangue e terreno venivano lavate con delicatezza da quell'acqua fredda e sottile. Avevo la necessità di sentire il vento e l'acqua sulla mia pelle, sulle mie spalle, la terra sotto i piedi, il gelo entrarmi nelle ossa. Il sangue misto all'acqua si mescolava al suolo, e io non mi sentivo più sporco, non mi sentivo al dì fuori di quel luogo: non ero più estraneo a quel posto che sembrava conoscere le mie paure, sembrava volesse farmi suo e cullarmi. Come quando la mia testa era poggiata sulle tue gambe, e tu mi accarezzavi i capelli, con cure che solo una madre può dare. Il timore dell'essere stanato era passato insieme al senso di colpa per aver combattuto una battaglia non mia, e finalmente riuscii a dormire.
Mia cara Elisa, la mia mente è piena di ricordi piacevoli, addolciti dal tempo e dalla tua mancanza. Non so descriverti che sensazione sia la tua mancanza, so che mi fa sentire vivo attraverso occhi diversi, quelli che non conoscevano il dolore e la sofferenza. Gli stessi occhi che un tempo guardavano la tua bellezza, increduli e innamorati.
[...]Ricordo di quando uscivamo di notte nascosti dall'ombra, ed arrivavamo al mare, dove giocavamo, con i piedi nudi nell'acqua, a rincorrerci. Ricordo il tuo viso illuminato dal bianco pallido della luna, e il tuo imbarazzo celato dai tuoi capelli lunghi ogni volta che ci fissavamo per qualche secondo. Sorridevo perché abbassavi il viso e guardavi altrove.
I nostri stupidi litigi, le nostre chiacchierate e quelle lunghe camminate taciute dal tenerci per mano. Ogni singolo momento della nostra vita mi passa davanti, e non ho bisogno di socchiudere gli occhi per rivederci. La malinconia delle mie parole è ciò che è di più lontano da quello che voglio esprimere: non sono triste, non più. Ho capito, stando qui, che il tempo non è un dato di fatto, ma è come il fruscio del vento tra le fronde degli alberi, è come lo scorrere del fiume: costante, continuo, indivisibile, non è mai lo stesso. Un perenne presente dove i miei ricordi si fondono all'avvenire, guardo le cose da fuori, eppure vi sono immerso dentro. La mia ferita è ormai infetta, ma la lentezza con cui la natura respira ti fa godere di ogni attimo, e sebbene so che non mi rimane molto tempo, che le forze mi stanno abbandonando, continuo a crogiolarmi della vista dell'alba, e degli animali che si abbeverano al ruscello. Non fanno più caso a me, probabilmente per loro sono già una carcassa, seduto a terra, immobile e poggiato ad una parete rocciosa, indifeso... mi ritrovo a scoprire nella natura una pietà, una clemenza e una commiserazione maggiore di quanta ne ho mai potuta vedere tra gli uomini. Ma non sono arrabbiato con chi mi ha ferito, anche prima della guerra: so che è sta la paura a ferirmi e non un essere umano.
Elisa, sono stanco. Non ho la forza di rileggere ciò che scrivo e, sicuramente non durerò quanto le mie parole, quindi non potrò giustificare i miei errori, i miei pensieri, impressi nella carta. L'unico mio rimpianto è quello di non aver potuto descrivere tutto ciò che ho provato, tutta la mia felicità nello stare qui a scardinare quelli che sembrano segreti, celati nella natura, ma che invece sono così palesi, così chiari. Basta solo stare lì a guardare per un po' di più, a osservare meglio ciò che succede. Senza farsi prendere da se stessi, lasciarsi andare a quel fruscio delicato del vento, lasciarsi abbandonare dal tempo. Che bellezza tutto ciò [...]
Queste sono le ultime parole di un soldato, probabilmente italiano. Queste pagine, scritte a mano, sono state trovate, per caso, in un vecchio baule, di una casa che presi in affitto durante uno dei miei viaggi in Germania. Ovviamente è in tedesco, ma alcune parole sono in italiano, forse chi prima di me, affascinato da parole come "fruscio", "malinconia", "tempo" le ha lasciate tali, e così farò anche io. La voglio tradurre perché credo in un ciclo continuo della vita, e sono altrettanto convinto del fatto che questa lettera prima o poi arriverà al suo destinatario. Come dice il soldato, il tempo è un continuo presente, e quindi questa lettera non è in ritardo: è solo nel posto sbagliato e sta aspettando che Elisa la legga.
J. L.
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- ti devo dare una brutta notizia... ELISA... non è più tra noi
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