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100
Fuori casa fa freddo. Il sole del mattino non ha ancora deciso il suo destino e uno statico torpore avvolge il mio risveglio, come ogni domenica mattina di questo acido inverno.
Il rischio è di caderci dentro, nel grigio, nel malumore, nella pigrizia.
Stamattina no, stamattina vinco io. Non senza sforzo mi sveglio ed inizio a vestirmi, deciso a farmi una bella nuotata prima dell’abbondante pranzo domenicale.
Nuotare è così, una cosa un po’ vocazionale, la si odia o la si ama. Decidersi a vestirsi per andare in piscina comunale, soprattutto in inverno, è un po’ come stare con un solo piede in equilibrio su una ringhiera: a volte cado dalla parte sportiva, dinamica, e la giornata mi si apre in maniera inaspettata, l’ossigeno migliora l’umore ed arrivo ad essere contento di me stesso; altre volte cado dalla parte sbagliata della ringhiera, resto nel mio letto, tutto ciò che riesco a concretizzare è inedia e senso di vuoto.
Oggi sono caduto bene, e dopo una leggera colazione sono sveglio e pronto a saltare in auto e dirigermi in città. Il tragitto in auto la domenica mattina è uno dei momenti che preferisco: in tranquilla solitudine, con la radio accesa e nessuno sulle strade, un senso di onnipotenza si impadronisce di me e compatisco i “poverini” che rimanendo a letto si stanno giocando la mattinata.
“Bene, bene?" dico a me stesso?" oggi viene fuori un bell’allenamento”. Già perché peggio di nuotare la domenica mattina, c’è solo nuotare molto la domenica mattina, imbarcarsi in uno di quegli allenamenti di fondo senza pause che richiedono una notevole dose di voglia ed autocontrollo.
Una volta parcheggiata la Ford pago l’ingresso e mi faccio dare la chiave dell’armadietto numero 26, il mio numero preferito, ed ormai il numero del mio armadietto “di fiducia”.
Mi cambio ed eccomi pronto a tuffarmi, molto professionale, con calottina di silicone ed occhialini essenziali ma tecnici. Un ultimo sguardo per decidere la corsia, l’unica rimasta vuota, e sono pronto al primo impatto con l’acqua, pronto alle prime bracciate, a chiudermi in me stesso per una liquida ora.
Il contatto col mondo reale resta solo per quei brevissimi istanti in cui la testa esce per prendere fiato, quei pochi decimi di secondo fatti di aria umida, caldo, mattonelle, spruzzi, calotte che si muovono, voci che rimbombano, fischietti, pareti alte, cronometri appesi ai muri, spelacchiate boe rosse e blu, primi raggi di sole che filtrano dai finestroni alti.
Subisco come sempre le prima vasche, prima di prendere un ritmo lento ma costante che mi consenta di arrivare al traguardo che mi sono prefissato.
“La corsia vuota, tutta per me ?" penso tra una bracciata e l’altra?" che colpo di fortuna, la giornata promette bene”.
Presto il gesto sportivo del nuotare perde di significato, e la mente inizia ad aprirsi ai mille pensieri di cui è intasata; ogni bolla che esce dalla bocca o dal naso è lo sfogo di un ragionamento, il risultato del districarsi e svilupparsi dei miei desideri o preoccupazioni.
In questo sottile equilibrio di sentimenti, è proprio il bilancio tra pensieri positivi e negativi a decretare l’esito di una lunga nuotata, il fatto di riuscire a sopportarla, di subirla, o addirittura di aggredirla.
Continuo con le vasche, il conto mi dice che ne ho fatte tredici ed in effetti sto andando nel senso in cui sono partito, per cui vasca dispari…
Alla fine della vasca come sempre alzo leggermente la testa, un attimo più del solito, mentre cambio direzione; questa volta l’attimo diventa un secondo, diventano due.
Perplesso, mi accorgo che intorno a me la piscina si è svuotata: sono sempre solo nella mia corsia centrale, ma non c’è più nessuno che nuota nelle altre.
Gli sciabordii della scia che mi segue lasciano presto posto ad un irreale silenzio.
Nemmeno il bagnino è più al suo posto, sulla squallida seggiola da giardino, ed immagino che sia andato a prendere qualcosa nello stanzino degli attrezzi.
L’orologio a parete segna le 11. 30, e l’improvvisa solitudine non è l’unica cosa che sconvolge la mia già precaria tranquillità. Attraverso la plastica verde degli occhialini mi accorgo che le finestre della vecchia costruzione non lasciano più passare i raggi di un pallido sole invernale, ma che là fuori si sta facendo buio, che la notte sta prendendo il posto del giorno.
“Sarà un temporale” giustifico a me stesso, pronto a riprendere la nuotata anche per rompere quell’ insopportabile momento di tensione.
SSSSBBAAAM…improvvisamente nel grande locale rimbomba il suono metallico di un oggetto che cade…una sbarra forse, che poi rotola fino ad appoggiarsi ad un muro.
Mi scuoto dall’ipnosi con una rinnovata angoscia, e decido che forse è meglio andarsene a casa, e che dopotutto la mattina non sarebbe stata propizia come previsto.
L’inquietudine accelera le mie bracciate nella vasca di ritorno, la numero 14, la più lunga di tutte, la più pesante, la più difficile. Quando piego la testa per prendere ossigeno, mi avvolge l’oscurità e la solitudine; ormai è notte fuori, e sono le 11. 30 di mattina.
E poi …PLIFFF…ho la testa sommersa, e davanti ai miei occhi, nell’acqua davanti a me, è caduta una goccia, assurdamente sola in quella enorme vasca di liquido. Lentamente si diffonde, come una voluta di fumo, si mischia con l’acqua e col cloro. È una sola goccia densa, e se non fosse che gli occhialini verdi potrebbero indurmi in errore, e se non fosse per l’assurdità di quello che mi passa per la testa, direi che è una goccia di sangue.
Annaspo.
Smetto di nuotare e per un momento sollevo completamente la testa dall’acqua, e mi guardo intorno come un naufrago in procinto di annegare, con gli occhi terrorizzati, in balia del panico che mi è più nemico dell’acqua stessa.
Nulla…non un’ombra, nessuno che nuota, nessuno sul bordo. L’acqua è acqua, solito elemento vitale, l’aria è ferma, nulla rimbomba. L’assurda goccia si è dissolta ed io continuo a chiedermi da dove sia venuta.
Devo fare presto, devo concludere la vasca, devo uscire da questa piscina, devo andarmene, devo scoprire se è giorno o è notte, fuori e dentro di me.
Bracciate convulse. Decido di respirare meno spesso sperando di arrivare prima a toccare le mattonelle azzurre e bianche.
A pochi metri dal bordo qualcosa sfiora la mia gamba destra; una spiacevole sensazione, la stessa che si prova al mare quando un’alga tocca leggermente la gamba, e il contatto inaspettato spaventa nonostante la sua innocenza.
Anche una immersione in mare è un equilibrio tra delizia ed inquietudine, due sentimenti che riassumono l’esplorazione di un mondo che non è il mio, che non mi appartiene ma soprattutto a cui non appartengo.
Istintivamente si rizzano tutti i peli del corpo, l’inquietudine si manifesta in un brivido freddo e mi volto di scatto per capire cosa ha toccato il mio polpaccio destro.
Mi si bloccano i polmoni, la notte fuori non mi preoccupa più: di fianco a me, ad un metro di profondità, oscilla un volto di donna, un pallido volto con gli occhi sbarrati che non fissano me…non fissano nulla, sono occhi morti, come morto è il volto a cui appartengono.
I capelli della donna sono sparsi nell’acqua ed arrivano a sfiorare la mia gamba, che immediatamente ritraggo. In un attimo realizzo che non si tratta solo di un volto, ma di un intero corpo, un intero cadavere che come in un film aspetta di venire a galla; pallore ovunque, le labbra viola, quegli occhi paurosamente spalancati, una nudità che la morte ha spogliato di qualsiasi erotismo.
Scappo, grido sott’acqua, completo in maniera scoordinata quelle poche bracciate che mi separano dal bordo.
L’inquietudine ormai è terrore, e non ho più tempo di cercare delle spiegazioni a quello che sta succedendo in questo posto.
Mi volto indietro solo un istante, ed il cadavere non c’è più, non lo vedo. È sparito, forse dissoltosi in volute fumose come la goccia di sangue, forse semplicemente affondato.
“Corri via, corri via…” mi grido dentro.
Prendo dalla bacheca la chiave 26 dopo essermi infilato le ciabatte e l’accappatoio.
BZZZ…rimango fermo, come pietrificato, mentre l’altoparlante di servizio comincia a vomitare un comunicato letto da una graziosa voce femminile “Si avvisano i gentili clienti che l’impianto sta per chiudere, si avvisano i gentili clienti...”
Forse questo dovrebbe tranquillizzarmi: in fondo è un segno di normalità, è il solito annuncio del solito stonato altoparlante. Il solito…
La voce continua gentile e melliflua ma non capisco più quello che dice. L’annuncio si è trasformato, è diventato qualcosa di incomprensibile. La signorina continua a parlare in una lingua che non ho mai sentito, che non assomiglia a nessuna lingua comune, ma sempre con assoluta tranquillità.
Ora non mi volto più, corro soltanto, diretto all’armadietto 26, corro forte cercando di non scivolare.
Davanti a me gli spogliatoi bui risuonano di armadietti che sbattono, di passi concitati che si sovrappongono ai miei.
SBBAAAM….. SBAAAM…come un bambino misterioso il terrore, o chi per lui, sta sbattendo le ante degli armadietti, ostacoli alla sua fuga verso la notte fuori.
Non trovo l’armadietto, non trovo il 26. Tutti quanti gli armadietti, ovunque mi giri, portano scritto lo stesso numero.
Corro cercando il mio, ma è impossibile…0…0…0…tutti lo stesso, vuoto numero zero.
Ormai non mi controllo più, il terrore e la foga si sono impadroniti di me. Voglio solo tornare a casa mia, vorrei solo essere rimasto a letto, a subire questa fredda domenica mattina.
Correndo negli spogliatoio scivolo e finisco disteso sul pavimento gelido, in una pozza d’acqua.
Per la prima volta mi vedo riflesso sul pavimento.
Rimango terrorizzato da me stesso; non sono il solito me, la calotta e gli occhialini conferiscono un’aria spettrale anche alla normalità del mio viso.
Non so se riuscirò a sopportare tutto questo, la paura mi sta lentamente uccidendo.
A fatica mi rialzo, ho preso una brutta botta al gomito destro. Immediatamente mi rimetto a correre ma questa volta la mia meta è l’esterno, non mi preoccupo più dei vestiti, dell’armadietto, delle mie cose.
Voglio solo farcela a mettere fine a questo incubo, e darmi una spiegazione a tutto quello che sta succendo.
Lo spogliatoio sembra un labirinto, complicato come non mai. Maledico fra me chi ha progettato questi corridoi, che ora mi costringono a passare nella stanza delle docce per arrivare all’uscita dalla zona in cui mi trovo.
Faccio un passo nel locale docce, incredibilmente buio senza nemmeno una finestrella, e tutti i rubinetti si aprono improvvisamente, lasciando sgorgare e ribollire acqua caldissima da tutte le docce.
La stanza è subito satura di vapore, e l’acqua sembra non defluire ma si accumula sul pavimento, comincia a sommergermi i piedi.
Guardo in basso e con orrore scopro che ho i piedi immersi in dieci centimetri di sangue caldissimo, che turbolento mi si agita intorno, mentre il livello nella stanza cresce sempre più.
Tutto ciò non può essere vero, non capisco come l’acqua calda si possa trasformare così, e come sia possibile che la stanza si stia allagando in questo modo.
Non riesco più a muovermi, le gambe ingessate dal terrore che ormai mi ha vinto.
Il livello sale, velocemente, schifosamente, intorno alle mie gambe…alla mia vita.
Non so più come combattere, e dolcemente mi arrendo all’oblio del sangue caldo che avvolge il mio corpo, e che presto mi affogherà.
Mi ritrovo con la testa sommersa, anche se mi sembra di continuare a respirare.
Non vedo niente. Nessuna luce. Nessun suono.
Molte immagini si susseguono nella mia mente, come in una ricostruzione a ritroso degli incredibili eventi che ho appena vissuto…gli armadietti, il numero zero, le 11. 30, il buio, il volto cadaverico con i capelli sparsi, la vasca vuota, i muri scrostati, la goccia di sangue, le bracciate convulse.
Con un ultimo sprazzo della mente sto vivendo un incubo a ritroso, mentre il corpo soccombe alla liquida agonia dell’affogamento.
Lentamente, debole prima, poi più forte, torna la luce.
La vedo e la desidero come non mai. Comincio ad intuire qualcosa nell’oscurità. Il sangue sembra più leggero, sembra stia diventando acqua.
Il livello si abbassa, sparisce il volto cadaverico e lentamente cambiano i contorni della stanza che mi circonda, diventano più famigliari.
Finalmente ci riesco, riesco a voltare la testa e prendere una immensa, gioiosa boccata d’aria.
Con la coda dell’occhio intuisco due o tre calotte che si muovono nell’acqua agitata.
Davanti a me qualcosa di solido.
Poche bracciate e ci arrivo, spingo i muscoli delle braccia e della schiena fino a toccare delle vecchie mattonelle bianche e blu.
Il conto mi ricorda che sono a novantasette. Riemergo dal mio incubo ed il secondo di aria a fine vasca mi consente di vedere il sole fuori dai finestroni. Mi viene in mente che manca poco ad una bella doccia calda, manca poco a godermi un tranquillo pomeriggio di una tranquilla domenica di inverno.
Ancora solo tre vasche e potrò smettere di perdermi nei pensieri, potrò tornare ad imbrigliare la fantasia, uscire completamente dalla piscina fino a riprendere contatto con la realtà.
Senza nessuna paura, senza nessuna angoscia. Solo tre vasche ancora e ne avrò fatte cento.
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0 recensioni:
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- 10 anche per me! Complimenti, realizzato molto bene e senza annoiare mai!
- 10!!!! Scritto benissimo, lungo, ma affatto noioso. Cimentati, avrai un futuro... Bravo, Michele!
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