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Racconto vincitore nella categoria D'Onore al concorso di Scienza Narrata 2014!
"Nella mitologia greca, il vaso di Pandora è conosciuto come un leggendario contenitore di tutti i mali esistenti."
Christian Lerner era dinanzi ad una platea di ragazzi di età compresa tra i 14 e 18 anni, insieme ai loro genitori, e mentre esponeva il suo discorso si sentiva sempre più a disagio. Non gli era mai piaciuto parlare davanti ad una folla: aveva sempre l'impressione di non essere ascoltato. "Il mito narra" continuò "di una giovane donna, Pandora, creata dal fabbro Vulcano, su ordine di Zeus, per punire gli uomini della loro superbia."
Questa volta, però, quella di Lerner non era semplicemente un'impressione. V'era in quella sala un'aria distratta: i ragazzi, sebbene richiamati talvolta dai professori a seguire il discorso, erano impegnati in tutt'altre faccende - molti stavano usando il proprio smartphone di ultimo modello: chi aggiornava il proprio stato su un social network, chi chattava con l'amico lontano, chi si scattava foto di nascosto. Non meno distratti erano i genitori, presi quasi tutti da una singolare fretta di andar via: qualche padre era impegnato a parlare a telefono con chissà quale socio in affari su chissà quale grande progetto; alcuni guardavano freneticamente l'orologio al polso; qualche mamma, invece, era presa in un'interessante conversazione con la propria vicina di sedia, quasi come se una chiacchierata potesse accorciare il tempo che erano costrette a trascorrere in quella scuola.
Lerner si schiarì la voce e cercò un modo per destare l'attenzione dei presenti. "Conoscete tutti il Mito del vaso di Pandora, no?" alzò il tono della voce mentre diceva quelle parole, ma sebbene alcuni si degnassero di prestargli attenzione, ciò non fu comunque sufficiente a suscitare l'interesse generale. "Immagino sappiate che Pandora" riprese a parlare "ricevette dal dio Ermes il dono della curiosità, e da Zeus uno scrigno contenente tutti i mali del mondo, che lei però non avrebbe mai dovuto aprire. Ma la sua curiosità era talmente forte che ella non resistette. Aprì il vaso e il mondo fu invaso da mali che prima di allora non aveva mai conosciuto."
C'era ancora un brusio fastidioso nella sala. I ragazzi, che qualche secondo prima erano stati richiamati all'attenzione, adesso era come se si fossero sufficientemente annoiati: ripresero le faccende che avevano interrotto qualche istante prima, così come fecero i genitori.
Lerner, tuttavia, prese nuovamente a parlare, sempre più contrariato: "Pandora lasciò solo la speranza sul fondo del vaso, e quando fece uscire anche quella, il mondo, seppur trafitto dal male, poté confidare sempre in essa."
A Lerner non era mai piaciuta la folla. Non gli era mai piaciuta la confusione. Forse è per questo che aveva deciso di fare lo scrittore. L'idea della calma, della pace assoluta, mentre trovava l'ispirazione per scrivere un nuovo racconto nella sua casa in montagna, dove preferiva trascorrere le sue estati, lo rendevano libero. E in quel momento, invece, si sentiva soffocare. Aveva accettato di presentare il suo nuovo libro in quel liceo della sua città, con la speranza che in tal modo avrebbe potuto trasmettere agli adolescenti il messaggio espresso nel suo libro in modo diretto.
Aveva la gola secca. Bevve un sorso d'acqua dalla bottiglina che portava sempre con sé. "Chissà quante altre volte avrete sentito già parlare di questo mito" disse, stavolta con uno strano sorriso sulle labbra, che tutto trasmetteva fuorché divertimento. "Ne sarete stufi, immagino. Ma se provassimo a rapportare questo mito ai giorni nostri?"
Quelle parole parvero suscitare un minimo di interesse e Lerner ne fu quasi sollevato. "Se ci fosse una Pandora da qualche parte nel mondo, che oltre alla pazzia, alla gelosia, ai vizi, alla vecchiaia... avesse liberato anche un altro male? Un male dei giorni nostri, che invade la nostra quotidianità, che è dappertutto, in ogni piccola cosa, tanto che non possiamo farne a meno; un male che ci ha resi schiavi, incapaci di autodeterminarci: crediamo di essere liberi, indipendenti, crediamo di seguire la nostra testa, che le nostre idee non siano per niente influenzate dai mass-media, addirittura le sosteniamo così gelosamente come fossero uniche e originali. E invece siamo tutti così superficiali. Ma non è colpa nostra. No. Il fatto è che siamo così bombardati da notizie, informazioni - a volte persino inutili - che abbiamo perso il senso della conoscenza personale. Non siamo più capaci di riflettere. Così ci aggrappiamo a pensieri e ideologie comuni, credendo siano nostri. Ebbene, il male di cui parlo, signori, è la tecnologia."
Paradossalmente, stavolta furono quasi tutti attenti all'ultima parte del suo discorso. Ma quando egli finì, la reazione dei presenti non fu quella che lui si aspettava. Qualcuno rise, qualcun altro lo guardò accigliato, altri lo guardarono come se fosse un alieno venuto lì con l'intenzione di conquistare la Terra e farla sottostare alle sue strambe regole. E così tutti, come mezz'ora prima, ripresero a chiacchierare e a navigare su internet coi propri cellulari.
Ad un tratto si sentì sminuito. Il grande scrittore quale era, autore dei migliori ultimi sei romanzi del suo tempo, vincitore del Galaxy British Book Award per tre anni di fila, si sentì, per un momento, un moscerino. Il suo discorrere, per quegli individui, era solo ronzio. A un certo punto avvertì qualcosa di strano: le digitazioni sulle tastiere degli smartphone e i ticchettii degli orologi fecero più rumore del solito; i cellulari che squillavano fecero interferenza con le casse e il microfono emise un suono così acuto che Lerner dovette tapparsi le orecchie. Stava perdendo la pazienza, non poteva stare rinchiuso lì dentro un minuto di più. Abbandonò l'auditorium e corse via, per schiarirsi le idee e prendere una boccata d'aria fresca.
"Signor Lerner!" La preside della scuola, una signora minuta e occhialuta, sbucò da un angolo appartato e gli chiese cosa stesse facendo.
"Mi scusi, ho bisogno di prendere un po' d'aria..."
"Va bene, riprenderemo fra cinque minuti."
Ma nel momento stesso in cui la preside pronunciò quelle parole Lerner era già sparito. Cinque minuti erano troppo pochi. In realtà non sapeva se sarebbe ritornato. Era arrabbiato. No, era furioso. Nessuno in quella sala lo stava ascoltando: erano tutti troppo occupati ad usare "aggeggi elettronici", come li definiva lui; gli stessi aggeggi che lui aveva sempre condannato. Non era un caso che egli usasse una vecchia macchina da scrivere modello Olivetti 367 invece di un moderno computer. E il paradosso era che lui si trovava lì per far comprendere quanto potesse essere dannosa la tecnologia, quanto li rendesse tutti superficiali, omologati. Sentiva di aver fallito.
La cosa che parve migliorare la sua giornata fu la vista di un parco giochi. L'idea del Kindergarten l'aveva sempre affascinato: Friedrich Fröbel era uno dei punti cardine, su cui si basava tutta la sua ideologia. Lerner era infatti dell'idea che un bambino dovesse crescere giocando nella natura e, così come gli avevano insegnato i libri di Rousseau (altro filosofo che aveva sempre ammirato), era convinto che un bambino dovesse crescere lontano da qualsiasi influenza della società, considerata di per sé corrotta dallo stesso Rousseau. Decise, dunque, di avviarsi verso quel parco giochi, ma mentre si godeva la vista di un gruppetto di bambini che giocavano con una palla, improvvisamente qualcuno inciampò tra i suoi piedi. Lerner abbassò lo sguardo e vide una testolina bionda.
"Ehi, piccola, ti sei fatta male?" Si rivolse in modo dolce alla bambina e per un attimo credette di poter sbollire la rabbia che aveva accumulato nei minuti precedenti. La bambina alle sue parole si guardò intorno disorientata e Lerner si accorse di un piccolo particolare: ella aveva tra le mani una console con cui presumibilmente aveva giocato fino a qualche attimo prima.
"Annabelle!" Una donna a pochi metri di distanza gridò verso di loro, probabilmente era la madre. "Smettila di importunare il signore e vieni a giocare con me, iniziamo una nuova partita!" Solo in quel momento si accorse di una seconda console, simile a quella della bambina, nelle mani della madre.
Annabelle sentendo il richiamo della madre e allettata dal pensiero di fare una partita con lei, corse subito verso la donna. Lerner era allibito: non riusciva a spiegarsi perché con una giornata così bella e piena di sole, loro preferissero stare attaccate a quell'aggeggio piuttosto che giocare con gli altri bambini.
La rabbia stavolta si tramutò in delusione. Era deluso da ogni cosa: dal mondo, dalle persone che lo abitavano. In quel momento arrivò ad una amara conclusione: quel mondo non gli apparteneva e lui non gli era mai appartenuto.
Corse. Corse per allontanarsi il più in fretta possibile da quel luogo. Non sapeva esattamente dove fosse diretto, ma mentre camminava vide in lontananza un bar e decise di entrarvi: aveva bisogno di un tè caldo per calmarsi. Si sedette ad un tavolino nascosto in un angolo del bar e ordinò la sua bevanda. Non era, quello, esattamente uno dei luoghi che lui definiva tranquilli: c'era molta gente che chiacchierava rumorosamente; la TV accesa trasmetteva il telegiornale e la telecronista aveva un non so che di fastidioso nella voce, e tutto ciò non fece che irritare maggiormente Christian Lerner. A un certo punto però quel chiacchiericcio rumoroso si affievolì e tutti vennero attratti da qualcosa che diceva la giornalista: Lerner, incuriosito da quell'improvviso silenzio, posò anch'egli, come tutti gli altri, gli occhi sulla TV e quello che vide - e sentì - contribuì, forse in maniera decisiva, a cambiargli la giornata. Un boss, un latitante, ricercato da ben dieci anni, era stato catturato quella mattina in un vecchio paesino di montagna. Niente che potesse essere particolarmente interessante per Lerner, non quanto almeno per le altre persone presenti nel bar, che immediatamente iniziarono a commentare, stimolati da un nuovo argomento che avrebbe occupato i loro discorsi per un bel po', fin quando non ne avrebbero trovato uno nuovo.
"Maledetto boss!" brontolò un vecchio barista al bancone, abbastanza forte da farsi sentire, mentre passava per la terza volta uno strofinaccio sullo stesso punto del piano in legno.
"Eh, già" rispose un cliente seduto su di uno sgabello proprio di fronte al barista. "Ne hanno messo di tempo per acciuffarlo!"
"Finalmente possiamo stare tranquilli" commentò un altro, seduto ad un tavolino, proprio al centro della sala, tra un sorso di birra e l'altro.
Il vecchio al bancone rise e si rivolse al cliente che stava bevendo la birra: "Se continui a bere di certo non si può star tranquilli."
E tutti esplosero in una fragorosa risata.
Ma Lerner non era interessato a tutto ciò: una sola frase, in realtà, aveva destato la sua attenzione.
"È curioso il modo in cui le forze dell'ordine siano riuscite a rintracciare il boss" aveva detto la telecronista, mentre venivano trasmesse le immagini del boss, al momento dell'arresto. "Un agente della polizia, infatti, ci ha riferito che il più abile boss dell'ultimo decennio ha inavvertitamente acceso il dispositivo GPS sul proprio cellulare: una piccola dimenticanza, che però è costata cara al pericoloso latitante."
Lerner non stava già più ascoltando ciò che diceva la giornalista. Quel dettaglio adesso non faceva che martellarlo: un dispositivo GPS. Un boss, ricercato da dieci anni, era stato rintracciato grazie al GPS. Per Lerner fu come una lampadina. Adesso era come se tutto ciò che aveva creduto e tutto ciò che aveva giudicato per anni si fosse posto sotto una luce diversa. Lui, che aveva criticato per anni l'epoca in cui viveva, l'epoca del dominio tecnologico, in cui un mondo virtuale era preferibile alla realtà, adesso si vedeva crollare in un batter d'occhio tutte le sue certezze. Un boss era stato arrestato grazie alla tecnologia. Quella stessa tecnologia che secondo lui rendeva atrofizzati e alienati tutti gli uomini. Ma forse si sbagliava. Forse doveva vederla sotto un altro aspetto, magari avrebbe dovuto parlare in un altro modo a quei ragazzi: non presentando loro la tecnologia come un male, ma come un qualcosa da poter gestire in modo che contribuisca a migliorare il mondo.
Decise che doveva tornare indietro. Bevve tutto d'un sorso il tè che aveva ordinato, lasciò la sua mancia sul tavolino e corse via, stufato anche dai futili discorsi delle persone presenti in quel bar.
Per la seconda volta, in quella stessa giornata, si ritrovò a correre quella strada, ma stavolta in senso opposto e con una motivazione differente.
Arrivato a destinazione, tutto trafelato e col fiatone, la preside occhialuta e minuta che gli si era rivolta mezz'ora prima, ora gli veniva incontro con un'espressione mista a sorpresa e sollievo. Doveva essersi preoccupata molto al pensiero che uno scrittore famoso e importante come Christian Lerner fosse scappato improvvisamente dalla sua scuola senza dare alcuna spiegazione. "Signor Lerner, finalmente, eravamo tutti in ansia: i ragazzi sono irrequieti e i genitori abbastanza impazienti. Molti stavano per andar via, se non fosse stato per il mio intervento. Per fortuna li ho tranquillizzati e sono riuscita a trattenerli per un po', ma se non si sbriga a rientrare in auditorium se ne andranno tutti! Ma, piuttosto, dove era finito?"
I ragazzi erano abbastanza irrequieti e i genitori abbastanza impazienti già durante la sua presentazione. Ma questo, Lerner, preferì tenerselo per sé. Ora aveva un altro obiettivo da raggiungere e doveva sbrigarsi. Superò la preside, scusandosi frettolosamente, e raggiunse l'auditorium. Controllò che il microfono fosse acceso con qualche colpetto della mano, attirando così l'attenzione del pubblico agitato di fronte a lui. D'un tratto fu silenzio. In verità erano tutti molto curiosi da come lo scrittore avrebbe giustificato quella sua assenza improvvisa. Ma Lerner non soddisfò la loro curiosità: sfruttò, anzi, quel momento di silenzio per sfoggiare un altro discorso, ma stavolta più improvvisato e più diretto.
"Dunque..." iniziò. In realtà non sapeva nemmeno lui cosa dire di preciso. E per uno scrittore come lui era piuttosto strano che gli mancassero le parole.
Tutti lo guardarono incuriositi e in attesa. Ciò non fece che metterlo ancor di più a disagio. Ma in compenso ottenne il silenzio e l'attenzione tanto agognati, ora non doveva far altro che dire tutto ciò che aveva trattenuto. "Ecco..." si schiarì la voce e cercò di riprendere il controllo della situazione "Sono contento che abbiate finalmente posato i vostri cellulari, ragazzi." Sorrise.
Sorrisero anche le persone sedute in sala, cogliendo l'ironia delle sue parole. "E mi fa piacere anche ricevere finalmente l'attenzione di voi genitori." Tutti risero di nuovo. "Ebbene, non voglio più annoiarvi con la presentazione del mio libro. Insomma, se avete voglia di leggerlo potete andare in qualsiasi negozio di libri e comprarlo. Quindi, be', ora che sono qui, meglio dare un senso alla mia presenza... Solo adesso, purtroppo, sono arrivato a tale conclusione, e cioè che il mio ruolo qui, oggi, è quello di farvi comprendere il senso profondo delle cose. Avete ragione se adesso state pensando cosa ne possa mai sapere io del senso profondo delle cose. Ma, vedete, il fatto è che viviamo tutti in una grande illusione - io compreso, certo. Siamo così abbagliati da tutto ciò che è fittizio da diventarlo noi stessi. Rifiutiamo i contatti umani a favore del virtuale, del finto. Ci nascondiamo dietro un muro elettronico e parliamo di sentimenti - e se quel muro dovesse sparire ne saremmo ancora capaci? Ci crediamo diversi, alternativi, fuori dal comune, immuni a tutto ciò che ha contribuito all'alienazione del mondo e dei rapporti umani; ma non ci accorgiamo che in realtà il nostro è solo un modo per sfuggire al vortice della conformità, della modernità: il problema è che siamo già dentro. E Dio - se esiste - solo sa se mai ne usciremo."
Le persone ora non ridevano più, erano più che altro sconvolte. Era la prima volta che qualcuno metteva loro la realtà di fronte, così com'era. "La verità" continuò Lerner "è che tutto ciò ci sta bene. E per quanto possiamo criticare questo vortice annebbiante, non ne usciremo se mai ammetteremo di esservi dentro fino al collo. Come fare per capirlo? Basta chiedersi se si è davvero felici." Ragazzi e genitori erano ora sempre più sbigottiti. Insomma, ora perché tirava in ballo la felicità? Cosa mai ne poteva sapere lui della felicità altrui? "Avanti!" disse Lerner, rispondendo ai loro pensieri "sfido chiunque di voi ad ammettere di essere davvero felice vivendo in mondo completamente finto, artificiale."
E dopo una pausa ad effetto, riprese sempre con più enfasi: "La felicità non risiede nei rapporti virtuali, in un profilo virtuale o in un mondo virtuale. La felicità risiede nel vivere la propria vita, quella reale, non quella che ci costruiamo secondo gli schemi stabiliti da coloro che hanno più potere di noi. Purtroppo siamo tutti degli ignoranti: ignoriamo il fatto di vivere in una grande illusione, perché in fin dei conti le illusioni ci appaiono più accomodanti della realtà".
Ci fu un momento di silenzio, che servì a Lerner per trovare le parole per concludere il suo discorso e alle persone che lo ascoltavano per metabolizzare e riflettere su ciò che aveva detto.
"Sapete" riprese a parlare, stavolta in modo più pacato e disinvolto "nel mio libro - non me ne vogliate se prendo di nuovo in ballo il mio libro, ma è necessario - dicevo, nel mio libro parlo di una Pandora dei giorni nostri che libera dal vaso un male come la tecnologia. Ma in realtà il mio intento - e forse me ne rendo conto solo ora - non è quello di condannare la tecnologia, nel suo insieme, come un male assoluto. La tecnologia può essere anche molto utile. Sentivo, ad esempio, qualche minuto fa, la notizia di un boss latitante rintracciato grazie al GPS. Grazie alla tecnologia. Ciò che io condanno e denuncio è quella parte della tecnologia che vi ha resi, oggi, così distratti e troppo occupati ad usare i vostri cellulari, da non ascoltarmi." E mentre diceva quelle parole sorrise, quasi come un padre comprensivo che fa un discorso al figlio che gli ha disubbidito. "Ma ricordiamoci che Pandora ha liberato anche la speranza. E la speranza la possiamo identificare in tutte quelle cose, che grazie alla tecnologia, o alla scienza in generale, sono state migliorate. Pensate ai nuovi macchinari ospedalieri, che contribuiscono a salvare la vita di una persona; pensate al GPS e alle telecamere di sicurezza che permettono alle forze dell'ordine di rintracciare un criminale. Pensate a queste cose. Ecco, è in queste che noi possiamo confidare le nostre speranze. E non nell'alienarci davanti ad uno schermo."
V'era un silenzio strano, adesso, in quella sala. I ragazzi avevano posato i loro cellulari, i genitori avevano smesso di guardare freneticamente l'orologio al polso e tutti, persino i professori e la preside, adesso erano ammutoliti, affascinati, si può dire, dalle parole dello scrittore. Lerner capì guardando le espressioni sui volti di quelle persone di aver raggiunto il suo scopo e che quindi non doveva aggiungere nient'altro. Salutò e, così come era giunto, andò via.
La presentazione era finita. Tutti furono liberi di alzarsi e di andarsene: alcuni ripresero a parlare col proprio vicino, altri risposero al cellulare, altri ancora scrivevano SMS. Ma tutti se ne andarono da lì con una nuova consapevolezza. Le parole di Christian Lerner non avrebbero certo cambiato la loro vita - questo Lerner lo sapeva bene - ma innescarono in loro un nuovo spunto riflessivo. Come una pulce, che si sarebbe poi ripresentata in determinate occasioni e che li avrebbe spinti a ricordare quelle parole. E a riflettere.
A cura di:
Sara Ferrillo
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- Bello, coinvolgente, attuale. Interessante messaggio finale..
- Un racconto indubbiamente ben scritto che fila via liscio liscio, fin troppo, fino alla fine.
Con un messaggio positivo condivisibile: la tecnologia va bene, ma il suo uso deve essere accorto. Un saluto
- Un racconto ben congegnato e piacevolmente scorrevole. Divertenti le scene, molto realistiche, relative al pubblico distratto e allo sconcerto del relatore che, fuori dalla sua turris eburnea, sembra inizialmente un pesce fuor d'acqua.
Complimenti per la menzione d'Onore, un bell'incoraggiamento a scrivere ancora!
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