CARLO, IL MIO SOLO AMICO
1
Nel 1970 avevo dodici anni, l'età migliore; non perdevo il mio tempo coi telegiornali o sfogliando gazzette, dei problemi del mondo e del campionato di calcio me ne infischiavo, evitavo anche accuratamente d'infilarmi in problemi di cuore che già tormentavano molti miei compagni di classe. Mi ritenevo un saggio, vedevo le fanciulle come il fumo negli occhi.
" Sono insopportabili, pettegole, smorfiose, come può morirci dietro un ragazzo con del sale in zucca? "
Queste stupidaggini le ripetevo a mia madre, che mi ascoltava, sorrideva, taceva e, con mia grande rabbia, scuoteva la testa, sembrava non condividere il mio... vangelo. Nemmeno ci provavo a portarla dalla mia parte. Anche con lei una discussione sarebbe stato tempo buttato via, la mia mammina era una donna e le donne, è risaputo, hanno sempre ragione, e quando non l'hanno la pretendono. " Crescerai e capirai, " con queste parole concludeva invariabilmente ogni accenno di discussione accarezzandomi una guancia.
Io mi limitavo a comportarmi come un giovane della mia età anche se, mi sento in obbligo di precisarlo, ero un tantino sopra la media, molto più vivace, molto più brillante, più scaltro, più furbo... tradotto nel linguaggio caro agli adulti, significava che ero la disperazione dei miei genitori. Per quanto me ne fossero capitati di eccezionali, tanto che non ricordo un rimprovero non giusto, ugualmente non seppi sottrarmi ad una dozzina al giorno. Ma, se non sopportavo la carne ( più abile di un mago la facevo sparire dalla bocca e la nascondevo in una tasca dei calzoni per poi gettarla nel water a fine pranzo), se la mia indole meno ancora sopportava i villani, gli spioni, i presuntuosi, i secchioni, i bugiardi, i prepotenti, i ladri, i leccapiedi ed a queste belle categorie a modo mio gliela cantavo, abbia il coraggio di farsi avanti chi è tanto fesso da pretendere di darmi torto.
Ero figlio unico, non per scelta ma per un intervento al quale la mamma si era sottoposta.
" La mamma si è assentata per assistere una zia malata, per qualche giorno ce ne staremo a casa soli io e te, come due pascià." ( Mai sentita nominare, questa parente. Che fosse saltata fuori dalla calza della befana? ) " Mio padre proseguiva imperterrito ignorando il mio sorrisetto: " per noi sarà una specie di vacanza, puliremo la casa lo stretto indispensabile, alla polvere non baderemo, lo stomaco lo metteremo a tacere con dei panni imbottiti infilandoci anche i capperi ed i sottaceti oppure, se ci andrà, pranzeremo alla mensa ferroviaria. Per la colazione approfitteremo del bar della stazione, due cappuccini e due brioche... Okay? "
Questo mi aveva spiegato il mio buon papà, credendomi un perfetto scimunito. I fratelli mancanti mi ero guardato bene dal sostituirli con degli amici, a me non interessava averne, gli amici erano una seccatura ancora maggiore delle femmine, mi avrebbero distratto dai miei giochi cercando di coinvolgermi a parlare di ragazze, della Juve, dell'Inter... senza nessuno tra i piedi me la passavo meglio della regina d'Inghilterra.
Abitavo in una casa grandissima; il portone l'avrei varcato soltanto per correre al luna park a fare incetta di pesciolini rossi. Il mio fuori era il giardino della nostra abitazione. Era lì che mi sentivo sire di un regno composto di alberi da frutta mescolati con aiuole dai fiori coloratissimi; vi trovava posto anche un boschetto di abeti, cedri e un tasso con le bacche rosse ed i rami che penetravano in una stanza-deposito al pianterreno. Era un regno davvero senza paragoni! Lo rappresentava, come stemma d'insigne casato, una pianta di albicocche di una estensione smisurata. Era la casa di capistazione succedutisi a capistazione, ognuno aveva inteso dire la sua, in un angolo non mancava un orto con cavoli, carote, lattuga ed altre porcherie.
Come evadevo da scuola mi precipitavo a casa, pranzavo e poiché ero un bravissimo figlio nonostante quello che qualcuno malignava, sparecchiavo, asciugavo le posate, studiavo e, dopo la merenda, la mia coscienza mi autorizzava a trasferirmi in giardino per trascorrere il resto del pomeriggio in compagnia dei miei giochi, che erano la reincarnazione di sogni meravigliosi, che allora ritenevo realizzabili.
Mio padre era capostazione, questo mi permetteva, oltre ad un giardino a mia disposizione, una casa dalle innumerevoli stanze inutilizzate che perlustravo alla continua ricerca di chissà quali tesori nascosti. Talvolta la mamma si lamentava con il papà per i rumori dei treni e per gli schiamazzi dei viaggiatori; io, che ero molto lontano dal supporre che quelle parole nascondevano il suo desiderio di farsi coccolare, me ne stupivo e paventavo un momentanea " uscita di testa " della persona migliore del mondo. A me i treni scandivano i tempi della giornata, senza girarmi riconoscevo quale transitava, da quante carrozze era composto, il suo eventuale ritardo... Però, e ritengo per una sorta di contrapposizione, andavo pazzo per le teleferiche, per i cieli, per gli aerei, mi addormentavo fantasticando che da grande avrei pilotato un caccia della Royal Air, oppure con una navicella spaziale avrei raggiunto Marte, Giove, altre galassie...
L'estensione dei cieli era dentro ogni mio interesse, dentro ogni mio progetto. Molto più dei muri che tremavano per i rimbalzi delle mie pallonate, delle piante dei viali scorticate dalla mia supersonica velocità in bici, dei salti con l'asta che ogni volta mi portavano via lembi di calzoni. A questo punto mi sembra doveroso ripeterlo: a dodici anni non mi sarei definito un santo, e neppure sulla via della santità. I sei vetri che nelle giornate di pioggia e di neve nell'inverno dei miei nove anni avevo rotto giocando a pallone in camera mi avevano iscritto nel Guinness dei primati, uniti alle caramelle regalatemi dal vetraio; ci aggiungo le ringhiere delle scale di casa che salivo dall'esterno e ridiscendevo a cento all'ora senza appoggiare le mani sul corrimano, gli abeti dei quali conoscevo il numero dei nidi dei passeri e, per ultima ma non ultima, la... pipì che, grazie al buio della sera, dal balcone regalavo alle teste di alcuni passanti da me "selezionati" per la loro intollerabile arroganza.
" Assomigli a tuo nonno, " con un malcelato piacere la mamma mi sussurrava. " Anche lui alla tua età si divertiva a prendersela coi monellacci che spadroneggiavano nel quartiere. Non che il mio povero papà, combinasse le tue... imprese, ma indubbiamente era un gran bel tipo! "
" Raccontami della volta che salì sul pulpito ed improvvisò una predica dicendo peste e corna di alcuni politici..."
Cercavo di traviare la mamma. Se il guaio che avevo combinato, secondo lei, non era troppo grave, la mamma ci cascava e mi ripeteva storie che conoscevo a memoria, altrimenti anche lei si sentiva obbligata a castigarmi rinchiudendomi in camera, senza cena e coi libri davanti. Quando si hanno dodici anni non si capisce proprio come i grandi siano tanto crudeli e ritengano giusto che uno rimedi a delle presunte marachelle digiunando e studiando giorno e notte. Per mia fortuna mi ero accordato con Gesù, non sarei mai diventato adulto, raggiunti i tredici -quattordici anni, avrebbe bloccato la mia crescita ed io avrei vissuto un'eterna fanciullezza.
L'indomani, per concludere la quadratura del cerchio, ero atteso da una predica privata da parte del curato. Conoscevo una per una le sue parole: se non avessi cambiato registro la mia mammina sarebbe morta di crepacuore ed io sarei finito all'inferno con le fiamme alimentate dalle lacrime del mio rimorso.
Ma, in cima ad ogni mia avventura, che per tanti adulti privi di fantasia variava dalla monelleria alla mascalzonata, restava una teleferica, anticipatrice dei miei futuri viaggi nei cieli. Tornato da scuola e conclusi alla velocità della luce sia i doveri domestici che mi competevano sia gli stramaledetti compiti, pioggia o non pioggia, neve o non neve, il giardino e la teleferica erano miei complici sino all'ultimissimo, " perentorio " richiamo di salire per la cena.
La teleferica partiva dal boschetto di abeti. L'altra estremità del filo l'avevo fissata alla ringhiera del balcone della mia camera ; due ruote di bicicletta senza copertoni facilitavano il movimento in entrambi i sensi. Avevo costruito il carrello sfruttando il materiale del magazzino della stazione, nei pomeriggi di pioggia battente mi ero dedicato a rafforzarne la struttura con metri di filo di ferro.
Ad opera conclusa, avevo rivolto i miei pensieri alla cerimonia inaugurale. Avevo deciso d'invitare il curato e alcune autorità conosciute da mio padre, ma la mamma mi aveva scoraggiato, non doveva avermi nemmeno ascoltato, ed io avevo tanto contato su di lei!... Purtroppo i genitori quando c'è da pronunciare un " no!" non si tirano mai indietro.
Per un'occasione tanto importante una benedizione ed un brindisi erano più che doverosi, come era possibile che la mamma non lo capisse? Incavolatissimo scesi in cantina e scovai una bottiglia di spumante, ne scolai mezza ed inaugurai da solo la teleferica, immaginando di essere prima il sindaco, poi il vescovo, il Direttore Generale delle ferrovie, tutti pieni di parole di elogio per la mia opera... Probabilmente esagerai con i brindisi, la testa prese a girarmi come una trottola, per evitare che la mamma se ne accorgesse dovetti inventare che morivo di sonno ed infilarmi sotto le coperte prima di cenare.
Sulla teleferica caricavo oggetti che ogni volta sfidavano la legge di gravità. Per sostenere la struttura mi ero premurato di costruire a metà percorso, tra i rami dell'albicocco, una sorta di pilone. Quanto prima l'avrei resa elettrica. Cimento non insuperabile grazie alle mie non modeste prerogative, e senza dover ricorrere alla collaborazione di un adulto. Da Gesù, che mi aveva assicurato di apprezzare il mio passatempo, sarei stato illuminato al momento opportuno, anche questa collaborazione rientrava nei nostri accordi.
Purtroppo, anziché andare fieri delle mie imprese e precipitarsi a raccontarle ad amici, parenti e conoscenti ( e ai giornalisti, perché no? ) come in ogni famiglia normale sarebbe accaduto, i miei genitori erano disperati. E via con le prediche, cazz...! Esordiva il capofamiglia, impettito al centro della sala; la mamma, seduta, ascoltava e frignava. ( A malincuore devo ammettere che la mia mammina era pur sempre una femmina e le lacrime le produceva con un suo copyright. )
" Abbiamo sopportato la pipì fuori dai suoi... luoghi naturali, le scale scese come uno scriteriato acrobata e mille altre stranezze, ma all'ultimo tuo pazzesco, e pericolosissimo, gioco, il cuore di tua madre non ha retto. Vuoi proprio vederla morire? " ( Mentre intendevo le parole di mio padre per un momento venni assalito dal dubbio che fosse venuto al mondo adulto.)
Tanto casino perché i due mi avevano spiato mentre, per provare la solidità della fune, ero sceso lungo il filo della teleferica sostituendomi al carrello. L'urlo disperato della mamma ancora oggi mi colpisce e stupisce.
Dopo interminabili conciliaboli, che avevano accompagnato le mie troppe giornate agli arresti domiciliari, visto che di maturare in saggezza non intendevo saperne, d'accordo con il curato loro complice, i miei genitori decisero che Gesù Bambino, tramite le sue vie celesti, mi avrebbe portato un cane.
" Non ti va di giocare a pallone, e con il sinistro che hai saresti una discreta mezzala... non ti va di frequentare l'oratorio, non ti va di fare amicizia con dei ragazzi perbene, chissà che la compagnia dell'amico dell'uomo per eccellenza non plachi i tuoi ardori." Questa la loro conclusione.
D'istinto mi era venuta come risposta : " non so che cavolo farmene di un cane, io voglio un castoro, sono mesi che lo sogno. "
La richiesta di un castoro era stata una parola buttata là, avrei potuto chiedere un canguro, una giraffa, tanto i miei ( pardon, Babbo Natale ) me l'avrebbero regalato di peluche.
Mamma e papà mi fissarono sconcertatissimi. Mia madre tentò d'indirizzarmi se non sul cane almeno sul più piccolo dei felini. Ma io pretendevo un castoro, non mi sarei rimangiato quanto avevo detto. I gatti li detestavo quanto detestavo i cani, sempre a poltrire sui divani, i primi, ad annusare cacche i secondi.
" Perché insistete? " Ribattevo ai miei genitori, " mica deciderete voi ma Gesù Bambino. E di lui, che è saggissimo a dispetto dell'età, so di potermi fidare. Anzi, gli preciserò di non fregarmi con un pupazzo, io voglio un castoro in carne ed ossa. "
Per inciso, non che a dodici anni meno due mesi credessi ancora al lupo cattivo e alla fatina buona, i miei parlavano di Gesù Bambino per dare importanza al regalo. Li lasciavo dire, assecondavo una delle tante stranezze degli adulti.
Non mutai più la mia decisione. Ogni sera, prima di addormentarmi, recitati con la fretta addosso un pater, un'ave, un gloria, un angelo di Dio e quattro requiem per i nonni con la speranza che fossero già in Paradiso, giungeva il momento più atteso della giornata, quello dei sogni che, da qualche tempo, era diventato il sogno di un castoro.
2
L'attesa fu terribile, a tutti i costi dovevo mostrarmi quel bambino buono, studioso, saggio ed ubbidiente che i miei agognavano, ed a mia madre era costato più di una candela davanti all'altare della Madonna di Lourdes.
Fu un'attesa composta di giornate con tanto studio e tantissime privazioni. Chi me lo faceva fare? Più volte me lo ero domandato ma non avevo saputo darmi una risposta. Eppure avevo superato me stesso e mi ero trasformato nel più volonteroso, nel più studioso e nel più ubbidiente bambino del pianeta. Tralascio di citare il numero dei pomeriggi interamente dedicati ai compiti nell'emulazione di quel povero pirla di un Alfieri Vittorio, che evidentemente non aveva niente di meglio da fare che legarsi ad una sedia.
Dopo essermi attribuito l'attestato di figlio modello ebbi la certezza del dono. Predisposi il presepio con il muschio, le lucine, le statuine e la carta stagnola che sostituiva l'acqua, dopo aver scartato a malincuore la possibilità di costruire un collegamento idraulico per utilizzare quella del rubinetto. A Carlo - questo era il nome che gli avevo scelto - intendevo mostrare la sua nuova casa in tutto il suo splendore.
Tre o quattro giorni prima di Natale la mamma era venuta sul balcone della mia camera e, evitando di guardare verso la teleferica che mi ero rifiutato di smontare affermando che " prima sarebbero passati sul mio cadavere, " l'aveva sgomberato da alcune scatole per ricavarci uno spazio che, in caso di maltempo, proteggesse due vasi di gerani... Che bugia senza senso avevi trovato, mia dolcissima mamma!
L'ultimo giorno prima delle vacanze, dalla biblioteca della scuola mi ero procurato un libro sui roditori. Manco avevo predisposto il consueto elenco dei regali di contorno che, se avessi ascoltato i suggerimenti dei miei compagni, avrei riempito con la richiesta dei più triti e inutili giocattoli, aggiunti a dolciumi di ogni forma e sapore.
La notte della vigilia mi dimostrò che sia le lancette del mio orologio sia quelle dell'orologio della casa giravano in un modo perlomeno curioso. L'avevo detto più volte anche alla mamma, che non mi aveva prestato attenzione. " Che caspita hanno oggi i nostri orologi? Ritardano più dei treni di papà..."
Prima d'infilarmi nel letto mi ero aggirato per la cucina. Fingevo indifferenza, volevo bere una camomilla ma mi vergognavo di chiedere alla mamma di prepararmi una bevanda che avevo sempre definito pestifera o peggio. Ma la mamma più straordinaria del mondo Gesù l'aveva regalata a me, aveva intuito il mio desiderio e me l'aveva preparata, io mi ero limitato a sorseggiarla fingendo di buttarla giù per farle un favore.
A letto mi ero addormentato quasi di colpo, non dopo aver compiuto l'ultima delle mie ultimissime ispezioni alle stanze che d'inverno non venivano utilizzate caso mai il mio regalo fosse disceso in anticipo dal Cielo e i miei genitori avessero cercato di tenermelo nascosto.
L'infuso naturalmente non ebbe successo. Mi destai di soprassalto, tutto sudato, sbirciai l'orologio e provai una delusione come soltanto un bambino è in grado di comprendere. Non erano neanche le quattro, inutile che mi stropicciassi gli occhi fissando il quadrante del mio orologio.
Mi sembrava di avere la febbre. Che dico? Un febbrone! Che il mio cuore fosse lì lì per esplodere. M'imposi di mantenermi immobile in compagnia del buio, consapevole di dover affrontare una lunga ed impari, ma anche affascinante, lotta con i minuti ed i secondi che mi separavano dal mattino.
Gioivo e soffrivo, la certezza e lo scoramento si alternavano con insopportabile tenacia. Pregavo anche, recitavo pezzi di rosari, intendevo i suoni della stazione, non erano i convogli del mattino, erano i treni merci notturni che transitavano e mi riconsegnavano ai loro orari, l'assonnato cicaleccio dei ferrovieri me lo confermava. Caspita, nessuna notte è nemica dei bambini quanto quella della vigilia di Natale!
Quando finalmente intesi la voce della mamma che mi autorizzava a tirarmi su dal letto, non mi precipitai in sala a cercare il mio regalo sotto l'albero dove anch'io avevo appoggiato un regalino con dentro un foglietto piegato in quattro zeppo di promesse, mi precipitai sul balcone della mia camera, dove Carlo mi attendeva. ( E come ce l'avessero collocato rimane un mistero che la mamma e il papà non vollero mai svelarmi.)
Lo vidi e mi vide. Sì : mi vide. Carlo non era un animale se non nel suo aspetto esteriore. Non guardava mia madre o mio padre, guardava me, subito aveva compreso che ero io il suo nuovo amico.
" Babbo Natale ti ha accontentato, " intesi da mio padre. Con l'ovvia aggiunta : "siine riconoscente, mantieni almeno un paio delle promesse."
Non gli badai, avevo ben altro per la testa. Mi ero inginocchiato davanti a Carlo, per prenderlo nelle mie braccia e salutarlo.
" Avvicinati, coraggio! "
I miei genitori trattenevano il respiro. Carlo mi ubbidì sorridente.
3
Le mie giornate cambiarono. Avevo accantonato giardino e teleferica, astronavi e aerei. Re dei pirati, avevo prosciugato il mio mare personale e scacciato gli alligatori. Salutavo con cortesia persone che i miei occhi avevano sempre ostentatamente finto di non vedere. Vivevo accanto a Carlo e conoscevo giorni indicibili: io che mi ero sempre vantato di non avere amici, neanche quello, pressoché doveroso, del cuore!
Gli parlavo, innanzitutto. Continuamente ed ininterrottamente. Docile, Carlo mi ascoltava. Quando m'interrompevo con un cenno del muso mi invitava a proseguire. Si riconosceva nel nome che gli avevo consegnato, credo ne andasse fiero. ( Gli avevo elencato i grandi Carlo della Storia che avevo trovato sull'enciclopedia). Sono consapevole della mia affermazione. Anch'io cercavo di non dimenticare che Carlo non era né un cane né un gatto od uno di quegli pseudo animali che s'intrufolano nelle case, spesso mi pizzicavo le guance quasi temessi di destarmi da un bellissimo ma crudelissimo sogno.
Un giorno ero rincasato imprecando per un brutto voto che mi suonava " grandissima " ingiustizia, e - ridiventato per un quarto d'ora l'eroe dei bei tempi passati - già stavo progettando il modo più efficace per farla pagare a quel mascalzone di un professore di mate. Ero indeciso se sgonfiargli le gomme dell'auto o se rompergli i vetri di casa o, perché no? compiere entrambi gli atti di giustizia.
Avevo spiegato quanto mi era capitato a Carlo che era corso a sedersi sulle mie ginocchia. Avevo concluso: " ce l'ha a morte con me, quello là." Quasi non fosse bastato, avevo aggiunto, con una notevole intonazione drammatica: " ho le prove che mi odia." E dopo un'altra pausa: " medito di denunciarlo ai carabinieri."
Mentre la mamma mi rimproverava per le stupidaggini che, secondo il suo parere, avevo pronunciato, notai Carlo che mi strizzava l'occhio in segno di complicità.
Come la mamma si allontanò, spiegai a Carlo come intendevo agire. Purtroppo la notte mi portò un attacco di stoltezza e rinunciai a fare coriandoli della vettura del prof. Non rinunciai però a guardare quel verme in cagnesco per un paio di settimane, a rispondergli sgarbatamente quando si sentiva autorizzato a rivolgermi la parola.
Carlo mi teneva compagnia quando sciupavo il tempo studiando ma, come aprivo il libro di matematica spariva. Evidentemente la materia gli piaceva ancor meno di quanto non entusiasmava me.
Dal momento che non sporcava se non sul balcone e al posto assegnatogli, ed era un esempio di pulizia, enumerando sussiegoso i suoi ed i miei nuovi meriti, avevo ottenuto dal papà, e successivamente dalla mamma, l'autorizzazione a lasciarlo girare per casa. Avevo faticato più di Ercole, ci ero riuscito perché avevo saputo sfruttare al meglio le mie doti oratorie. I miei però si erano dimostrati ossi veramente duri, avevano ceduto soltanto dopo avere visto con i loro occhi che prima di entrare in casa Carlo si puliva le zampe sullo zerbino.
" Il tuo... complice deve possedere un orologio che nasconde nel pelo, quando stai per tornare da scuola si piazza davanti alla porta d'ingresso. Ti anticipa di due o di tre minuti, non sbaglia mai, è un portento."
La mamma me lo aveva riferito con una punta di malcelato orgoglio, quasi si fosse dimenticata per un attimo del pedigree del mio amico. Lei ed il babbo si erano affezionati a Carlo, che a loro era riconoscente ma la sua predilezione la riservava tutta a me.
Vorrei, ora, descriverlo, rendere Carlo quello che fu, non limitarmi a definirlo insolito od una eccezione tra i roditori. Eppure queste parole, unite fra loro, faticherebbero a darsi un senso che appaia compiuto. Preferisco allora continuare ribadendo quello che io ero stato: ero stato il terrore della stazione. Preciso che, per rendere maggiormente plausibile la mia affermazione, come superavo la vetrata d'ingresso della stazione, un ferroviere si poneva alle mie calcagna. Walter, questo era il nome dell'incaricato, obbediva all'ordine impartito da mio padre da quando, impadronitomi dell'altoparlante, avevo soppresso la partenza di un treno e modificato il percorso di un secondo. O, scambiate le targhe dei bagni, avevo spedito i maschi in quelli femminili e viceversa, con mie grandi risate e ridicole minacce di denuncia da parte di un paio di viaggiatori.
Mi muovevo fingendo di non accorgermi di avere Walter alle spalle, confesso che ne andavo orgoglioso, consideravo questo poveraccio non uno spione ma una guardia del corpo, di quelle che proteggono i pezzi grossi. Questa simpatia verso Walter - un addetto alle pulizie dei vagoni - non m'impediva di tirarlo più o meno scemo. M'infilavo in angoli della stazione impossibili per un adulto, e quello sudando, sbuffando ( e sicuramente imprecando) cercava di non perdermi di vista. Se si fosse presentato davanti a mio padre, al signor Capostazione, avvertendolo che aveva perso di vista il figliolo, che cosa non si sarebbe sentito dietro?
A Carlo avevo raccontato, ingigantendole imprese che avevo taciuto anche alla mamma perché su alcune cosette non potevo fidarmi nemmeno di lei. Carlo aveva riso dello scherzetto giocato al reverendo curato, la mamma se le avessi accennato che avevo nascosto nel vano scope la tonaca del suo prete prediletto avrebbe tirato in piedi una tragedia greca. Il curato poi, con quel suo viso da finto santo mi avrebbe imposto di espiare con la recita di trecento rosari, venti per sera, sarei pronto a scommetterlo mettendo in palio la bottiglia di vino delle messa che gli avevo sottratto per provarne il sapore.
E " tanto più " fui il terrore della stazione e dintorni, tanto maggiore fu la mia trasformazione. Il merito spettò tutto a Carlo. Se a qualcuno potrà apparire più rassicurante, definirò questo castoro un trastullo, un compagno di giochi, una sorta di animale domestico, in ogni caso non esprimerei che una prolungata menzogna. Non era un mammifero appartenente alla famiglia dei roditori, e neppure un amico od un compagno di giochi, per me era molto di più, era un fratello e da fratello si comportava.
Mi permetto di elencarne i pregi.
1 ) Era saggio.
2 ) Non eccedeva nel cibo.
3 ) Era prudente.
4 ) Era metodico; terminato il pranzo si concedeva un riposino di una ventina di minuti.
Anche se gli era pesante sopportare il chiuso delle stanze, dopocena non si allontanava ma mi teneva compagnia finché non mi fossi addormentato, allora scendeva dal balcone più abile di un ragno delle Dolomiti e se ne andava a spasso nella notte. Ritornava con la prima luce del mattino. Ero sveglissimo, ovviamente, ma preferivo fingermi ancora cittadino di un mondo dove le scuole non inghiottono i bambini. Lontano dal sospettare il mio trucco, Carlo si accovacciava in fondo al letto ed attendeva paziente il mio... risveglio. Il mio amico valeva proprio tutto il mio affetto, tutta la mia metamorfosi!
Una di quelle mattine il sonno fu più forte della mia volontà, quando aprii gli occhi era giunta inesorabile l'ora della scuola, non avrei potuto indugiare sotto le coperte neanche per mezzo minuto. Carlo non c'era. Finsi di giustificare la sua assenza con un contrattempo, ma già temevo il peggio.
Mi tirai in piedi ed eseguii il rituale che era misero destino di sei mattine su sette. Mi lavai le mani, mezzo volto, i denti. Mi vestii. Mi pettinai con la riga per darmi un aspetto più serio. Sistemai la cartella che non predisponevo prima di mettermi a letto fiducioso che durante la notte mi venissero due lineette di febbre e per un giorno avrei detto " ciao, ciao " alla mia carissima scuola... Ero davvero un figlio disubbidiente ( ed il Natale, aggiungo, periodo di folli promesse, ormai alle spalle). Quella santa donna di mia madre non ignorava quanto poco l'ascoltassi, insisteva perché preparassi la cartella prima d'infilarmi nel letto, me lo chiedeva più per abitudine ed io glielo promettevo mentendole senza ritegno.
Quella mattina avevo compiuto ogni movimento evitando di proposito di guardare verso la finestra. Tanto, mi ero ripetuto, l'avrei sentito arrivare... Vi era però una domanda che avevo evitato di pormi, la più semplice, doveva essergli accaduto qualcosa che era più di un contrattempo, di sua volontà Carlo non avrebbe tardato, sapeva quanto mi sarei preoccupato.
" Mantieni la calma, non preoccuparti. "La mamma mi aveva letto in viso. " Carlo tornerà prima di quando tu non immagini."
Le parole di mia mamma erano cerchi nell'acqua, non le intendevo, come diamine avrei potuto intenderle? Dentro di me pensavo, mi arrovellavo... Al diavolo la super colazione che la mamma mi aveva preparato, mi ero precipitato in giardino, avevo cercato Carlo per il piazzale e le vie intorno alla Stazione, l'avevo chiamato, l'avevo invocato. La mamma mi aveva seguito ed aveva ripetuto i miei gesti e le mie parole. Altro fiato e altro tempo sprecato. La più totale disperazione si era impadronita di me. Vedevo Carlo travolto dalle ruote di un camion o abbattuto dal fucile di un malvagio...
Anche mio padre era accorso, non so da chi l'avesse appreso.
" Il tuo Carlo mi è simpatico, " ufficialmente si era sempre rifiutato di ammetterlo. " In fondo è meglio lui di un barbosissimo gatto che dorme notte e giorno sulla poltrona e la riempie dei suoi peli puzzolenti." Rifacendosi serio: " tranquillizzati, figliolo, ti do la mia parola che lo troveremo dovessi mettere a soqquadro mezza città. Non appena in stazione incarico Walter di prendere due ferrovieri e di cercare Carlo in ogni angolo."
" È inutile che perdiate tempo a cercalo tra i binari, non l'ho mai portato, Walter può confermatelo. Cercatelo in giardino piuttosto, o nell'orto... Anche in solaio, una volta glielo mostrai e ricordo che gli era piaciuto, lo aveva trovato intimo... Papà, ti prego, lasciami partecipare alle ricerche..."
" Bastiamo noi. "
" Ma papà, conosco dei posti che tu neppure immagini..."
" No. A scuola ti distrarrai e l'attesa ti sembrerà meno pesante, credimi."
Bella roba! Bloccato in un banco troppo stretto per le mie gambe, con le mani che fremevano, che cosa non avrei dato per rendere meno immobili le ore! Gl'insegnanti spiegavano e interrogavano, blateravano e spaventavano, di loro mi sarei fatto non uno ma due baffi. Un compagno con il quale sfogarmi ( una sorta d'amico) avrei dovuto inventarlo lì per lì. Sentivo vicina solo la mia mamma, la mia buona e brava mammina. Non c'era stato bisogno di domandarglielo, come non sarebbe corsa ad avvertirmi se Carlo fosse tornato? Lei, in più, possedeva l'arma della preghiera : quando preparava il pranzo, quando si affaccendava per casa, quando mi sgridava... Contai undici apparizioni di bidelli nella classe quasi si fossero dati appuntamento, ma ogni volta non mi apparve il premurosissimo e delicatissimo sorriso della mamma a ridarmi la vita, ma avrei accettato anche quello di mio padre, o di Walter...
Quando suonò il campanello liberatorio, non ebbi bisogno di volare a casa per il tragitto più veloce che avevo studiato nei 290 minuti di scuola, calcolando i semafori, le auto, la calca della gente in giro solo per rompermi le scatole: la mia mamma mi aspettava in fondo alla scalinata. Bastarono le sue braccia sconsolatamente aperte per togliermi l'attimo di un'impossibile felicità. Anche il papà le era accanto, teneva lo sguardo a terra, mortificato.
" Per pranzo ti ho cucinato le patatine fritte con l'arrosto di vitello cotto come piace a te, " la mamma mi bisbigliò. Erano l'unica verdura e l'unica carne per le quali andavo matto. La mia mammina cercava di allettarmi ma sapeva di essersi affannata per niente, suo figlio non avrebbe inghiottito neanche mezzo boccone.
Mai avevo sentito i miei tanto comprensivi e generosi: due veri angeli. Cercare un difetto alla mamma era come cercare l'ago nel pagliaio; il papà quel giorno e nei successivi restò più in casa che in stazione trascurando quanto per lui era la vita. Entrambi mi spronavano a dedicarmi persino alle mie peggiori (per loro ) abitudini. Ma io ero disperato, non mi fregava più niente di teleferiche, di aerei, eccetera eccetera.
Sicuramente sollecitate dalla mamma, giungevano processioni di compagni che vedevano nel mio giardino l'Eden. Davanti ai miei occhi invece si mostravano la sua casetta vuota, le sue verdure preferite intatte e la sua vaschetta stracolma d'acqua che imputridiva. Ma non lui. Lui, il mio primo ed unico amico. Come avrei potuto prestare interesse alle cazzate emesse dalle bocche dei miei compagni? A quale svago avrei potuto dedicarmi per togliere Carlo dai miei pensieri per un solo minuto? Me la prendevo con Gesù, con la sfortuna, con il mondo intero, tutti colpevoli per la scomparsa del mio Carlo.
Ma accadde qualcosa. Una di quelle mattine mi destai di soprassalto con la certezza del passaggio di Carlo nella camera. Con lo sguardo corsi alla bacinella e ne ebbi la conferma, l'acqua era diminuita. Lui non c'era però. Lo chiamai ; lo cercai per le stanze ed in giardino, in pigiama, con le pantofole ai piedi incurante del freddo davvero sostenuto. Ma senza affannarmi, mi bastava. Se anche Carlo si era di nuovo allontanato adesso avevo la certezza che non era morto. Il mio più grande e taciuto timore era stato sconfitto. Non dalla follia di un'automobilista, non dalla perversione di un malvagio il mio amico mi era stato tenuto lontano.
Ne tacqui con i miei, lo preferii. Notandomi di buonumore e con un appetito che intendeva recuperare i giorni perduti, i loro sospiri di sollievo uniti al loro buonsenso mi evitarono una spiegazione che non mi era possibile neanche ricorrendo al mio metodo infallibile, che consisteva nel rispondere senza tralasciare nulla, anzi, riferendo anche i particolari più insignificanti, ovviamente dopo averli... aggiustati a modo mio.
Bell'amico, però ! Era venuto e se ne era andato senza salutarmi ma lasciandomi un segno inequivocabile del suo passaggio. Perché ?... Da che cosa o da chi era indotto a comportarsi in una maniera tanto crudele? Conoscendo poi quanto bene gli volevo... All'incontenibile felicità di saperlo vivo, al punto che mi ero precipitato in chiesa ad accendere una candela alla Madonnina di Lourdes per la grazia ricevuta dimezzando i già ridottissimi risparmi, si era sostituito il dubbio che era scaturito da quell'interrogativo. Quando riuscii a calmarmi ed a ragionare conclusi che Carlo non mi aveva abbandonato per assecondare i propri comodi, qualcosa doveva essere accaduto, una volta tornato me lo avrebbe spiegato, l'avrei preteso.
Avevo ripreso ad intendere le parole degl'insegnanti. Beh, tutte, o quasi... A sorridere ai compagni. Ad interessarmi della teleferica. Avevo in mente di proporre a Carlo di scendere sostituendosi al carico, si sarebbe distratto, se il suo fosse stato un problema di noia. Mi ero dedicato a ripulire il giardino dalle erbacce, con la medesima pignoleria che la mamma dedicava ai pavimenti. Ogni mia azione ed ogni mio pensiero erano rivolti al giorno in cui Carlo sarebbe tornato.
Il suo " gioco " mi era sempre più incomprensibile. Mentre dormivo, veniva, si dissetava, si riposava ma aveva cura di andarsene prima che mi svegliassi. Se il saperlo vivo mi aveva rimesso in corpo l'argento vivo, anche scervellandomi proprio non comprendevo il motivo - perché un motivo doveva pur esservi - del suo comportamento. In alcuni momenti venivo sopraffatto dalla collera e affermavo che, se l'avessi avuto tra le mani, l'avrei strozzato, come minimo.
La mia mammina sapeva che mai e poi mai avrei torto un pelo a Carlo, si arrabbiava quando affermavo di odiarlo, diceva che commettevo una colpa grave: e dagli anche a lei con 'sti peccati!...
I miei avevano acconsentito a non togliere dal balcone le cose personali di Carlo. Era stato il papà ad entrare sull'argomento : " quando le carrozze di un treno non vengono utilizzate, di norma le si spostano su un binario morto in attesa di una loro futura collocazione," aveva spiegato con il linguaggio che gli era abituale quando intendeva dare importanza alle sue parole, " ma, per una volta, figlio mio, ritengo che si possa compiere una eccezione."
Un unico appunto, già che mi trovo sull'argomento, debbo muovere ai miei genitori : si erano sempre rifiutati di considerarlo come un figlio, lo chiamavano Carlo, due o tre volte si erano arrischiati a dargli un buffetto, ma per loro era e rimaneva un animale. Alquanto intelligente, molto intelligente, insolitamente intelligente, indiscutibilmente intelligente, ma pur sempre un animale appartenente alla famiglia dei roditori.
Poi decisi di rompere gl'indugi e tesi un agguato a Carlo.
Vi avevo meditato a lungo, non ero un adolescente che avrebbe lasciato una decisione tanto importante all'improvvisazione. Avrei riposato nel pomeriggio, accidente da me sempre rifiutato e giudicato una sorta di affronto quando la mamma si era permessa di propormelo, purtroppo un sonnellino mi era necessario per rimanere sveglio durante la notte e... beccare Carlo. Alla mamma avevo accennato ad un principio di emicrania. Non doveva avervi dato molto credito se non era corsa a toccarmi la fronte, a chiedermi quali altri sintomi avvertissi, se in classe non avessi bisticciato, se per caso il prof di mate ci fosse ricascato...
Dopo avere augurato la buonanotte ai miei, con la luce che filtrava pigra dalle tapparelle, predisposi l'acqua e il cibo per Carlo; nel letto collocai un manichino con tanto di parrucca che mi aveva prestato l'unica femmina della classe che avevo giudicato semi normale, poi mi ero accovacciato sul pavimento, nascosto dietro la scrivania.
Carlo giunse quando la notte era molto avanti ed anche i vagabondi iniziano a prendere in considerazione il tepore del letto. Non io, naturalmente, io ero ancora sveglissimo! "Carlo, non mi vedi? Sono qui. " Mi guardò, neanche sorpreso." Se hai scelto di vivere così non te lo impedirò, torna ogni notte, a me basterà."
Non aggiunsi altro, m'infilai sotto le coperte senza spogliarmi, di colpo la stanchezza aveva presentato le sue credenziali. Mi addormentai avvertendo il respiro di Carlo che mi riscaldava il volto.
Il mio fu un sonno breve ma sereno. Per la prima ( e credo unica ) volta nella vita ebbi bisogno del suono della sveglia per riaffacciarmi tra i vivi. Non cercai Carlo, se ne era andato nuovamente ma adesso avevo la certezza che sarebbe tornato. Ritornò difatti ; ritornava quando le luci del giorno si affacciavano, si raggomitolava sul letto addossandosi ai miei piedi, rispondeva al mio saluto, si poneva le zampe sugli occhi e si addormentava. Non si avvicinava alla bacinella dell'acqua, né si nutriva. Era stanco. E sporco, il suo pelo intriso di terra e di polvere. Come se avesse trascorso la giornata lavorando.
Carlo veniva perché gliel'avevo chiesto. Il che, conseguenza di curiose elaborazioni compiute dal mio cervello, mi rincuorava e m'inorgogliva. Mi preoccupavano invece la sua stanchezza e la sua sporcizia. Se potevano confortarmi sulla sua salute, mi confermavano che stava lavorando a qualcosa che non intendeva, o non poteva, mostrarmi.
4
Che non fossi più lo scavezzacollo di un tempo lo dimostrava quanto mi fossi lasciato turbare da un secondo, banalissimo, avvenimento. Nell'intervallo, a scuola, mentre mangiucchiavo una merendina, con circospezione e colpetti di tosse si era avvicinato un mio compagno di classe. Uno fra i più insopportabili, che invogliava anche un neo santo a spaccargli due o tre denti, successivamente a collocargli sotto il sedere una montagna di puntine da disegno. Ripetente, colui, pettegolo, malevolo, maldicente, ciccione, le mani sudaticce, emblema di una razza che - ahinoi! - pare si perpetui. Conclusi i preamboli, tra sorrisi e sorrisetti, mi chiese di poter visitare la stazione. Richiesta per niente inconsueta, per colpa del lavoro di mio padre spesso venivo scocciato da queste richieste.
" Non mi sembri particolarmente interessato, " gli ribattei.
" Che dici? Vado matto per i treni, a casa ho cinque locomotive Rivarossi e dodici vagoni, più quattro scambi, due o tre incroci..."
Anche se avesse collezionato duecento locomotive e settecento vagoni - era una balla, ovvio - a me non andava di averlo tra i piedi e di sciuparci mezzo pomeriggio ma, sospettando che dietro la sua richiesta si nascondesse dell'altro, sbuffai e accondiscesi.
Il mio esimio compagno di classe, inteso il mio sì strascicato, non indugiò, quello stesso pomeriggio si presentò davanti al portone di casa. Era riuscito nell'impresa di recarsi a casina sua, di pranzare, di lavarsi i denti ( forse ) e di nuovo aveva attraversato mezza città in meno di due ore: roba da record mondiale.
" Ciao, " mi disse.
Mi limitai a rispondergli con un cenno del capo. In silenzio c'incamminammo verso la stazione. Incominciammo il giro turistico: io davanti, il fesso dietro, Walter a debita distanza da noi.
Come avevo previsto, il mio compagno non era minimamente interessato ai treni, mi seguiva, annuiva alle mie parole ma non ammirava la magnificenza delle locomotive e dei vagoni, apparteneva all'esiguo numero di ragazzi che non si emozionano al passaggio di un treno. Decisi di applicare la tattica che definivo " della ghigliottina, " quella che con imbecilli di quel calibro prediligevo. L'avrei condotto a vagare fra i binari dove le pensiline terminano, gli scambi incombono ed un poco di tremarella, per chi non sa districarsi, è doverosa. Bastava attendere... Neppure a lungo. Dopo meno di cinque minuti il bel soggetto gettò la spugna ; tremebondo, mi supplicò di allontanarci da quell'inferno.
Non appena al sicuro, mi rivolse la domanda che lo aveva indotto a compiere quella manfrina: " hai un cane? "
" No!" Il monosillabo della mia tanto immediata, quanto decisa, risposta.
" A scuola molti affermano che..."
Gli ribattei : " l'hai visto, per caso? "
Insisteva: " ce ne sono di posti qui... "
Finora mi ero trattenuto: " se ti ho detto di non possederlo offenderei la tua intelligenza e la mia dignità mostrandoti la cantina ed il solaio perché nessuno tiene un cane in cantina o in solaio."
Non si dava per vinto : " riferiscono di un cane che parla, che forse scrive..."
" Che è stato scritturato come batterista per una tournée con Morandi..."
Del responsabile, meglio, della spiona conoscevo il nome, il cognome e l'indirizzo, a quella sarebbe convenuto iniziare a tremare, o meglio, a predisporre i bagagli per l'espatrio. Prima però mi era imposto di escogitare un espediente per distruggere definitivamente le velleità di questo idiota alla ricerca di un cane parlante senza rendersi conto che per trovare bestie dotate di voce gli sarebbe bastato attendere l'indomani, quando ne avrebbe ammirato un gruppetto fissando i volti dei suoi (e purtroppo miei ) compagni di classe.
Ancora Gesù mi venne in aiuto. Sulla porta di casa si era affacciata la mamma. La vidi, mi vide, le gridai con tutto il mio fiato e con tutta l'ansia della mia età : " hai pronto il solito regalino per Buck? " Poi mi girai verso il citrullo e gli dissi a voce altissima in modo che anche la mamma udisse le mie parole : " è il cane del vicino, viene a farci visita ogni sera, ci affezionato perché lo rifocilliamo."
Prima di avere avuto il tempo di completare mentalmente un'avemaria, la mamma, sulla cui smisurata intelligenza avevo contato, mi ribatté : " non me lo chiedi un po' in anticipo? Sai che Buck giunge alle sette, puntualissimo."
Il buontempone alzò bandiera bianca, sbirciò l'orologio, balbettò che si era fatto tardi, a casa lo attendevano.
" Come, te ne vai già?"
Fingevo uno stupore che mascherava a fatica la gioia di levarmelo dalle tasche.
" Eh sì, purtroppo... Ho anche preso freddo, temo che mi venga un raffreddore, inoltre devo completare i compiti di matematica, ecc. ecc... A proposito, tu con la prima espressione come te la sei cavata?"
" Promettimi che tornerai, " tagliai corto, " con te ho trascorso un piacevolissimo pomeriggio. Ho notato che sei coraggioso, ti confesso che ne dubitavo, non te le sei fatta sotto nemmeno quando i treni ci sono passati a mezzo metro a cento all'ora..." Mi fissava sconvolto, non si rendeva conto che stavo prendendolo per il fondoschiena.
Non promise, si mantenne sulle sue, si scusò nuovamente e se ne andò verso casina sua, a farsi preparare una boule d'acqua calda ed una camomilla dalla mamma, ammesso che il mio compagno di classe avesse una casa e fosse stato partorito da una donna.
Mai avevo abbracciato tanto intensamente la mia mammina, che non mi domandò di riferirle il... casino che c'era sotto, preferiva restare all'oscuro, conoscendomi e conoscendo il detto del lupo che cambia il pelo ma non...
Torniamo a questo punto alla colpevole. Lo era la pseudo femmina alla quale mi ero rivolto per ottenere la parrucca, la mamma non ne possedeva. Ammettevo di essermi comportato da gran fesso. Per giustificare la mia richiesta non avevo trovato niente di meglio di raccontare a quella befana che avevo in mente di tendere un tranello ad un animale da me definito "stravagante."
Che cacchio mi era passato per la testa? Perché avevo inventato una scusa tanto strampalata? Perché non mi ero limitato a parlare di una festa mascherata? Forse il grand'uomo quale io mi reputavo il rischio ce l'aveva nel sangue.
" Non dirmi che in casa vostra tenete un lupo, una tigre..."
Mi ero convinto che fosse più scema della media delle femmine, e come tanti miei compagni le morissero dietro mi era enigma irrisolvibile ( qualora me ne fosse importato ).
" Perché non una giraffa od un ippopotamo?... Ascoltami, è un cane, beh non è un vero cane, ma è come se lo fosse... Basta, di più non sono autorizzato a riferirti, già mi sono spinto troppo in là. Promettimi che manterrai il silenzio a qualunque costo, se no, " guardandomi alle spalle e parlandole come se fossi stato un agente segreto, " ne andremmo di mezzo entrambi, neppure immagini che guai potrebbero capitarci..."
Sei o sette volte mi aveva giurato che avrebbe mantenuto il silenzio: e sui suoi genitori, e sulle sue bambole, e sui suoi rossetti, e sulla sua linguaccia... Purtroppo non era venuta meno alle prerogative del suo sesso, mezz'ora più tardi, od anche meno, aveva spiattellato il segreto a mezzo mondo.
Alla mia compagna faticavo a non rovesciare addosso un gavettone d'acqua con dentro ogni bene di Dio ogni volta che correva a gingillarsi nel bagno della scuola, temevo che, se pescato da un solerte bidello, avrei procurato più di un grattacapo ai miei genitori, e questo non lo volevo.
Ero preoccupato, inutile nasconderlo. Con la mamma fingevo, ma il suo silenzio ostinato nel non chiedermi niente era la conferma di quanto anch'ella fosse preoccupata. Come non immaginare che i miei compagni ficcanaso non sarebbero accorsi ad ammirare il cane che alle diciannove, puntualissimo come il tocco del campanile di San Marco, appariva?
Mi bastò tenere d'occhio i compagni di classe per individuare quelli che covavano la pessima (per loro ) idea. Ma se la sorpresa aveva un'ora esatta, il giorno scelto era il pezzo mancante del puzzle. E poiché è risaputo che la fortuna e Gesù aiutano chi li cerca, di nuovo li ebbi dalla mia, la sera decisa dai miei compagni coincideva con quella da me calcolata.
Avevo architettato, in uno lampo d'altri tempi, un'accoglienza che li avrebbe appagati e, soprattutto, mi avrebbe appagato. Avrei prelevato dal deposito della stazione alcuni razzi, di quelli che vengono utilizzati in caso di nebbia, li avrei legati tra loro e... bum! bum! bum! sarebbero piombati sulla testa dei deficienti. All'ultimo minuto vi rinunciai con già l'acquolina in bocca. Per mio padre la stazione ed ogni sua pietra erano sacre più di una mucca per gl'induisti, non mi andava di rattristarlo e di coinvolgere un incolpevole Walter. Avrei optato per un'accoglienza più blanda.
Un ferroviere, che abitava con la famiglia nel casotto del passaggio a livello che immetteva nella stazione, possedeva un boxer dal pelo fulvo intenso che si agitava ed abbaiava con la frequenza con la quale un uomo che sta spirando ansima. Per quanto più innocuo di un moscerino, l'animale terrorizzava neonati e centenari, motocicli e tram. Dopo avere prelevato la bestia ( non era possibile rifiutare un piccolo favore al figlio del capostazione ) e avere a lungo e con ineccepibili argomentazioni rassicurato il suo padrone circa le mie intenzioni, l'avevo rinchiusa senza acqua e senza cibo nello sgabuzzino oltre l'orto. Avevo scelto il posto più lontano dalla casa, nessuno avrebbe inteso i guaiti dell'animale. Ad ogni buon conto mi ero premurato bloccandogli il muso con un legaccio.
Come i miei intrepidi compagni raggiunsero il muro e lo scavalcarono, slegai la cara bestiola e spalancai la porta ; affamato, assetato, torvo, il cane si slanciò fuori. (Con gli occhi rappresentai anche il levarsi dei razzi, il loro fragore, il loro bagliore... Ma, purtroppo, solo con gli occhi della mia indomita fantasia.) Fu, per i miei compagni, una fuga senza ombra di dignità... beh, avrebbe inteso essere una fuga se il sentiero non fosse stato cosparso di olio, di ortiche, di sassi bene appuntiti. L'anima santa di mio nonno materno aveva interceduto affinché, pur senza eccedere, per cinque minuti ritornassi il bucaniere che dal cielo aveva tante volte ammirato compiaciuto.
5
Quella stessa sera, ero in cucina con la mamma che sferruzzava. Non mi andava di mettermi a letto, d'impegnarmi nella lettura di un " buon " libro come mi veniva consigliato dalle persone che si erano autoincaricate di prendersi cura della mia crescita " fisica e spirituale. " Cercavo di parlare con mia madre, di trovare un argomento di conversazione. Poi, incapace di agguantarne uno mi dichiarai sconfitto e le augurai la buonanotte. Il papà l'avevo salutato a cena, era di turno alla stazione.
" Tuo padre vuole più bene ai treni che a me, " sorridendo, ma non tanto, la mamma mi ripeteva.
" Che dici, mamma? Tu sei tanto bella... Se non fossi la mia mammina ti ruberei al papà e ti sceglierei come fidanzata. " Mia madre sorrideva e mi ammoniva di non scherzare su certe cose. Non comprendeva che parlavo seriamente.
In camera, una volta tanto mi ero dedicato a preparare per tempo la cartella. Quando: lo vidi. Accucciato tra i miei libri. Mi aveva atteso. Di dosso era scomparsa ogni traccia di polvere e di terra. Il suo pelo riluceva. Ma era inquieto, nervoso...
Mi ci vollero alcuni secondi per comprendere che Carlo moriva dal desiderio di mostrarmi la sua sorpresa, quella sorpresa che - presto l'avrei compreso - me l'aveva tenuto lontano. Per farlo capire al suo tontissimo amico infilò le scale invitandomi a seguirlo con un movimento del capo. Scendeva i gradini lentamente, attento ad evitare rumori per non essere sentito dalla mamma che non si era mossa dalla cucina, sempre alle prese coi suoi lavori di rammendo. Si girava continuamente quasi temesse che non lo seguissi. Attraversò il giardino sino a quella parte che nei miei giochi ignoravo volutamente per una questione di " dignità, " era stata sfruttata come orto dalla famiglia del capostazione che ci aveva preceduti. Per sopprimere le tracce delle porcherie seminate avevo faticato come un condannato ai lavori forzati.
Stavo per venire a conoscenza del motivo che me l'aveva tenuto lontano. I miei occhi ed il mio cuore non avevano capito niente, avevano bisogno della prova di quanto Carlo avesse sofferto vivendo dentro una casa e, conseguentemente, di quanto smisurato fosse il suo affetto per me. Avrei dovuto sentirmi felice eppure non riuscivo a scacciare un senso di angoscia che mi avvertiva che presto l'avrei perso, quello che stavamo compiendo si sarebbe tramutato in una specie di rito d'addio.
Non m'ingannavo, purtroppo. Avevo letto che i castori non vivono più di dieci anni, ma non come sarebbe successo ero disposto a perderlo, non così, non così ! Dopo di lui, e sono trascorsi circa quarant'anni, odiai ogni animale. Mai avrei accondisceso a vedere girare un cane od un gatto nella nostra abitazione, disposto persino ad alzare la voce per impormi a mia moglie ed alle mie figlie che non comprendevano ( e non comprendono ) il mio rifiuto. Anche a loro non ho mai osato parlare di Carlo.
Carlo si muoveva troppo velocemente per il mio passo ; anche se mi orientavo nel buio meglio di un felino, scomparve alla mia vista. Non ebbi tempo di agitarmi, già Carlo era riapparso. Compii un movimento istintivo per avvicinarmi a lui quando mi sentii calamitare verso il basso, come trascinato dentro un vortice. Ero caduto in un precipizio di un paio di metri. Immerso dentro un buio totale, avvertivo di essere finito in una stanza. Invertendo ogni teorema, nella caduta i miei dubbi e le mie paure si erano dissolti. Non ebbi bisogno di chiamare Carlo, lo sentivo accanto a me.
Era mia abitudine conservare nelle tasche una consistente rappresentanza di oggetti da me giudicati " indispensabili " che concludevano innanzi tempo, e senza funerale, la loro esistenza se venivano agguantati dalla mia mammina. Tra questi, erano immancabili una scatola di fiammiferi ed un moncone di candela che custodivo avvolti in un pezzo di cellofan quasi fossero le reliquie di un Santo. Accesi la candela e vidi. Vidi e capii. Capii il motivo della sua assenza. Carlo aveva preparato la sua e la mia casa. Aveva lavorato come un forsennato per costruire un locale nel quale anch'io avrei trovato posto.
Farneticavo? Tuttora farnetico?... No! No! No! Per quanto possa apparire ( e sarebbe) la soluzione più tranquillizzante, la rifiuto. Vidi io Carlo che m'invogliava, lo vidi con gli occhi che avrebbero ammirato lo splendore dei volti delle mie figlie e di mia moglie, che si sarebbero rattristati non accettando l'inesorabile declino fisico di mia madre e del babbo, eppure quegli stessi occhi videro le dimensioni del locale, il sedile ricavato fra la terra e le rocce, dove mi sarei accomodato quando fossi sceso da lui. Sì, i miei occhi lo videro, lo ribadisco. Carlo aveva appoggiato sopra il sedile un pezzo di stoffa, chissà dove rubato, per evitarmi di sporcare i calzoni con gl'inevitabili rimproveri della mamma.
Io e Carlo incominciammo a dividere il nostro tempo. Trascorrevamo i nostri pomeriggi giù da lui o su da me, a giorni alterni. Sempre assieme. Ero felice. Eravamo felici. Immensamente felici. Per legarlo ancor più a me, non senza un briciolo di cattiveria, gli avevo spiegato che " per colpa sua " avevo messo la testa a posto. Era lungo l'elenco di quanto per lui avevo trascurato:
1) la teleferica, innanzitutto;
2) i progetti di un razzo che avrebbe raggiunto la luna ;
3) la gamma delle mie eroiche imprese alla stazione;
4) le scalate alle piante...
5) eccetera, eccetera...
Quasi non fossero bastate quelle reali, aggiungevo imprese che mancavano al mio Guinness personale inventandole grazie ad una fantasia che non potrei non definire fervida. Se invece, per prenderlo bonariamente in giro, gli parlavo di donne (pur sapendone probabilmente ancora meno di lui ) Carlo aveva la medesima reazione che provava per la matematica. Ma Carlo era soprattutto un amico. Seppure non articolasse parola ( od ero io a non comprendere il suo linguaggio ), quando mi mettevo a discutere di argomenti definibili seri mi mostrava il suo assenso o il suo dissenso.
Preferivo scendere nel nostro rifugio quando la mamma non era in casa per non insospettirla. Carlo l'aveva capito e non insisteva. Aveva anche capito che scendevo per accontentarlo, il nero troppo intenso del locale metteva un poco di trepidazione anche alla mia animaccia. Dopo pochi minuti Carlo mi trascinava all'aperto, quasi fosse lui a sentire la necessità della luce.
La sua lealtà è, nel ricordo, il mio più intenso rammarico, quel rammarico che derivava dalla consapevolezza della nostra diversità. Carlo era un amico, ma era anche un animale che veniva gratificato dal vivere sottoterra ed io, volendogli il bene che affermavo di volergli e con la mia super intelligenza, ancora non vi ero arrivato!
Ormai ero sicuro che non si sarebbe più allontanato, non avevo più bisogno di ricorrere a trucchetti per tenerlo con me. Pensavo di mostrarlo ai miei compagni, sognavo che tutta la città lo conoscesse e lo ammirasse. Il sindaco gli avrebbe consegnato la cittadinanza onoraria, il vescovo lo avrebbe battezzato e cresimato...
6
Ma, bruscamente e, temo, ineluttabilmente, si presentò l'epilogo. Quei giorni che definii straordinari si succedettero ma svanirono. Come potrei, ora, parlarne? Vorrei non dire, non proseguire. Vorrei, o preferirei, affermare che Carlo non esistette, non lo conobbi, non dormì accoccolato sul mio letto, non accarezzai mai il suo volto, mai gli parlai... Mentirei. Io che nel giudizio degli adulti di allora fui un bambino monello, discolo, disubbidiente, colpevole di appisolarmi in classe, di rivolgere pernacchie ai miei insegnanti ed ai tanti che se le meritavano, non raccontai mai una bugia, e ne vado fiero. Anche " i peggiori delinquenti " possiedono un codice d'onore. Saranno, di conseguenza, le mie prossime, confuse e veloci parole, come celate dentro una nebbia che vorrebbe opporsi, per quanto anche i minuti di quei giorni siano rimasti in me ricordo nitidissimo. Saranno parole che riporteranno non quanto sognai ma quanto vidi, saranno vere come sono vere le parole che sin qui espressi. Vere, ahimè ! Vere e terribili.
Era una domenica, una delle poche, beate mattine nelle quali la mamma non sarebbe venuta a svegliarmi per cacciarmi a scuola. Non che dormissi, s'intende, ero sveglio da un pezzo e attendevo semivestito sotto le coperte : la festa intendevo sfruttarla dal primo all'ultimo minuto.
Quando sentii parlottare i miei genitori, mi tirai su e mi recai nella loro stanza, diedi alla mamma e al babbo il bacio del buongiorno e me ne tornai in camera. Contavo di portarmi avanti con i compiti, sacrificio indispensabile per avere la possibilità di dividere il pomeriggio con Carlo prima, con i miei dopo. Se il papà non aveva impegni alla stazione un cinema con i cow-boys e gl'indiani ci sarebbe scappato.
Mentre ero in camera a studiare ed il babbo in stazione, la mamma era scesa in cucina a preparare il pranzo prima di recarsi a messa. La sentivo canticchiare, era di buonumore, ma la mia mammina era sempre di buonumore, quando sapeva che sarebbe uscita con la sua famigliola lo era doppiamente.
La mamma ebbe un malore e svenne, la causa sarebbe stata diagnosticata in un brusco abbassamento di pressione dovuto alla stanchezza. Le successe mentre stava accendendo il rubinetto del gas. Non immagino, o mi è sin troppo facile immaginare, che cosa le sarebbe accaduto se la fuoriuscita del gas non fosse stata immediatamente bloccata. Fu Carlo, chi avrebbe potuto intervenire se non lui? Questo mi fu chiaro alcuni minuti più tardi quando ero accorso alle invocazioni della mamma che stava riprendendo i sensi.
La mamma mi abbracciava e piangeva. Anche il papà piangeva e mi abbracciava. In me aveva preso forma l'accaduto, e cioè l'intervento provvidenziale, se non miracoloso, di Carlo mentre stava salendo da me. Ebbi i meriti, me li presi e stetti zitto. Per i miei, per i vicini, per le tante persone intervenute ero il monello ridiventato savio, quanto avevo compiuto la tangibile dimostrazione del mio cambiamento.
Dapprima non mi ero stupito che Carlo non si fosse mostrato nel trambusto delle persone presenti. Saggiamente si era sottratto alle carezze ed ai buffetti, ma non l'avevo trovato neanche nel nostro nascondiglio. Più tardi, a letto, inutilmente e disperatamente l'avevo atteso contando i secondi di un'intera notte.
Al mattino avevo raggiunto la certezza che non l'avrei più visto. Non mi domandavo che cosa potesse essergli accaduto, non lo cercai per le strade e nella stazione, mi aveva turbato la mamma che mi sorrideva strana. Ogni momento trovava un pretesto per abbracciarmi, non bastava a calmarmi il ricordo del suo svenimento e lei che mi credeva il suo salvatore.
I giorni passavano nel silenzio di Carlo e negli abbracci della mamma. Incominciai a detestarlo. Avevo distrutto il nostro rifugio, buttato via la bacinella dell'acqua. Una sparizione l'avevo sopportata, una seconda - pur concedendogli mille giustificazioni - no.
La mamma sapeva, i suoi abbracci erano messaggi silenziosi. Non cucinava più carote fingendo di non accorgersi che le avrei rubate per darle a Carlo. C'era una spiegazione, come per ogni fatto, ma a me non andava di chiederla alla mamma. Se ne era andato ed io mi sentivo svuotato, umiliato. A scuola ridevo e scherzavo coi compagni, mi offrivo volontario nelle interrogazioni, era il metodo per punirmi di una colpa che ritenevo di avere commesso, il torto che aveva indotto il mio amico ad allontanarsi per la seconda volta, e stavolta definitivamente.
Venne ugualmente il giorno della spiegazione e della conclusione. Stavo facendo merenda ; mi ero preparato un panino gigantesco con prosciutto e giardiniera. In aggiunta una spremuta d'arance con un cubetto di ghiaccio.( La rabbia mi procura ancor'oggi un grande appetito nonché la capacità di dormire dal tramonto all'alba, io che di regola non mi assento da me stesso per più di cinque ore.) Ero seduto in cucina, con i gomiti sul tavolo. La merenda me la ero preparata di nascosto dalla mamma, preferivo che mi ritenesse in fase di digiuno e di penitenza.
Quando mia madre entrò nella stanza non me ne avvidi. Intesi la sua mano che mi accarezzava i capelli quasi con timore. M'irrigidii.
" È morto, " le sentii dire con un filo di voce. " Avevamo ritenuto, io e tuo padre, di tacertelo, ma soffri, ti mortifichi... "
" Sei contenta, adesso? Siete contenti? "
" Come potrei? I meriti sono tuoi, " gridò, " ma lui ha salvato la vita di tua mamma, Carlo ha chiuso il gas con la sua bocca, Pierluigi."
Mi ritrovai nelle braccia della mia mammina, dentro le sue braccia, racchiuso dalle sue braccia.
Mi spiegò, mentre piangevamo e ci abbracciavamo, com'era morto, travolto da un'auto la sera stessa, sicurissimamente stordito dalle persone e dal clamore. Lei lo aveva avvolto nel suo foulard più bello e aveva chiesto a Walter di seppellirlo.
Tutto terminò, Gesù non mantenne la parola e non bloccò la mia crescita, mi laureai, trovai un posto di lavoro, mi sposai e diventai quell'uomo adulto pressoché inutile, confuso fra i tanti adulti ancora più inutili. Carlo, come il discolo ed il savio che fui, la mamma ebbe un malore e svenne appartiene, lo esprime il verbo, al tempo più trapassato della mia vita. Ma nell'impossibilità di comunicarlo, non mi è vietato mantenerne il ricordo. Anche la mamma, ormai ridotta a caricatura della sua vitalità, non l'ha dimenticato. Per il pudore della sua educazione non me ne parla, è una storia ( od una fiaba ) che alle sue nipotine non racconta, quasi appartenga ad una galassia confusa fra questa terra ed il cielo lontano. Di Carlo sa più di quanto con i miei trucchi avessi cercato di nasconderle. Una volta si lasciò scappare che era a conoscenza del nostro rifugio, addirittura vi era entrata, con una tremarella che... La mia sorpresa e la mia curiosità ebbero come risposta un sorriso che per lei concludeva l'argomento. Che il mio Carlo insomma appartenga sempre più alla famiglia dei roditori, circoscrivibili a saggi e buoni animali, perché così è preferibile.
( A Carlo ed al più veritiero ricordo della più dolce delle madri. )
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