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Due gocce d'acqua
GOCCE D'ACQUA
Mi ero appena seduta sulla panchina ad aspettare l'autobus. Lì per lì non l'avevo riconosciuto, mi era parso solo un ragazzo come tanti che aspettava il mezzo, con la musica a palla che rimbombava dalle maxi cuffie. Fu quando decise di rollarsi una sigaretta che un semplice gesto catturò la mia attenzione, quel modo particolare di piegare l'indice sul pollice mentre il medio faceva una specie di mezzo giretto nell'aria. Un gesto inconfondibile, che avevo visto fare milioni di volte.
Anche lui sembrò riconoscermi in quel momento. Con la mano libera abbassò le cuffie e inclinò la testa, come se avesse voluto mettermi a fuoco meglio.
"Tu sei Sonia.", disse, trascinandosi dietro le esse.
"E tu sei Mauro."
Certo che non avrei potuto riconoscerlo subito. L'ultima volta che l'avevo visto era appena sedicenne, dinoccolato, imberbe e alle prese con i postumi dell'acne che non sembrava aver voglia di sloggiare dalla sua faccia. Dopo cinque anni il suo viso era definito, le linee marcate. Le spalle erano robuste e dal corpo solido trasudava un senso di sicurezza, di compiutezza.
Con disinvoltura diede una leccata alla sigarettina appena rollata e mi chiese se ne volevo una. Mi colse alla sprovvista, ma risposi di sì. Non era mia abitudine. Quando si incontra una persona dopo tanto tempo si comincia a conversare, si raccontano gli anni passati, si colmano le distanze. Ma Mauro non sembrava essersi accorto di quel tempo trascorso. Prese tabacco e cartine da uno zaino di tela militare sdrucita e ricominciò l'operazione senza dire una parola. Le sue dita si muovevano agili, di nuovo indice sul pollice e giretto del medio. Punta della lingua sulla colla. Pronta. Era così che le avevo viste fare a Ivan per i tre anni in cui ero stata la sua ragazza.
Mauro mi passò la sigaretta e l'accese. Poi accese la sua e buttò un soffio di fumo girandosi dall'altra parte. Notai che i capelli gli scendevano quasi fin sulle spalle, come era solito portarli Ivan quando stavamo insieme.
"Vivi ancora qua?", chiese lui, a un certo punto.
"Sì, sì. Ho preso un appartamento in centro." E subito aggiunsi "Lo divido con due colleghe."
Mauro annuì appena con la testa. Mi ascoltava, ma teneva lo sguardo fisso in un punto a metà della strada, gli occhi socchiusi, le labbra contratte una contro l'altra. Non potevo smettere di notare la somiglianza. La musica continuava a venir fuori dalle cuffie appoggiate alle spalle.
"Ivan vive a Berlino."
"Lo so."; dissi. Abitava a Berlino da quando ci eravamo lasciati, cinque anni prima.
"Tu non sei cambiata.", disse Mauro. E mentre lo diceva mi aveva lanciato un'occhiata rapida, di soppiatto, un'occhiata che voleva sembrare furtiva ma che mi lasciò terribilmente turbata.
"Ho quasi trent'anni", mi sentii in dovere di dire, come se fosse una giustificazione.
"Non li dimostri.", commentò. Il suo sguardo era tornato assorto nella strada, l'orecchio rapito dalla musica.
Neanche un minuto dopo arrivò il suo autobus. Si alzò, gettò la cicca e raccolse da terra lo zaino e la custodia di una chitarra, di cui prima non mi ero accorta.
"Grazie per la sigaretta", dissi.
"Il mio gruppo si esibisce al Caledonian domani sera. Fai un salto se ti va."
Lo aveva detto in piedi, già sui gradini del bus, senza più guardarmi.
Per tutto il giorno lavorai normalmente in ufficio. Sbrigavo pratiche, consultavo inventari, dialogavo con i clienti. La compagnia di assicurazioni era attiva come sempre. Rientrai a casa al solito orario, levai i tacchi e misi su l'acqua per fare un po' di pasta. Mentre l'acqua bolliva andai al bagno per preparare la doccia e mi scoprii a fissare la mia immagine allo specchio. Una donna adulta, distinta, in giacca e pantalone scuro, con una discreta acconciatura sulla testa. Della ragazza che cinque anni prima fumava spinelli dietro i bagni dell'università non c'era più alcuna traccia. Era un tempo defunto. Chiusa in bagno gettai i vestiti per terra e m'infilai nella doccia. Sentii le voci delle mie coinquiline che rientravano in casa mentre l'acqua veniva giù sul mio corpo nudo. Più l'acqua scorreva, più sembrava il tocco delicato delle dita di un uomo. Socchiusi gli occhi, lasciandomi andare a quel pensiero. Nella mente l'acqua prese la fisionomia delle mani di Ivan, il suo modo di tenermi stretta con i polpastrelli sotto la carne e gli occhi fissi sul mio collo, come se volesse mangiarlo. Spostai il viso sotto il getto in modo che un rivolo d'acqua calda mi scivolasse tra le labbra. Il calore mi fece girare la testa. Ricordavo i baci di Ivan, le sue carezze, la sua forza e l'esasperato desiderio con cui afferrava il mio corpo. Mauro, allora, girava per casa in boxer mangiando Fonzies. Teneva la televisione a tutto volume nella stanza accanto, mentre giocava all'Xbox, e a noi stava bene, così non ci sentiva. Era un ragazzino, un fratellino. Un'altra goccia d'acqua bollente mi scese giù per la schiena e lo sguardo affamato che avevo ricevuto quel pomeriggio tornò a colpirmi.
"Smettila Sonia. Hai quasi trent'anni, un lavoro serio, una posizione e dei principi morali.", mi dissi.
Poi, un altro rivolo d'acqua scese giù dalle natiche ai piedi.
Il Caledonian era un vecchio magazzino ristrutturato dove i giovani si riunivano per ballare rock alternativo, fumare e trovare compagnia. Ci andavo spesso fino a qualche anno prima. Avevo recuperato un paio di jeans stinti, le mie vecchie Converse e la maglietta degli Iron Maiden. È pazzesco quanto l'abbigliamento ci cambi, ci faccia sembrare diversi.
Il gruppo di Mauro stava già suonando quando arrivai. Facevano cover dei Metallica, tutti pezzi stranoti, che avevo imparato ad amare perché anche Ivan li suonava. La somiglianza mi lasciò senza fiato. Erano le dita, più di tutto, quel modo di muoversi sulle corde della chitarra, la posizione del braccio e delle spalle, l'inclinazione della testa e la smorfia della bocca quando un giro non riusciva alla perfezione. La sala era molto coinvolta. Una ragazzina con gli anfibi borchiati mi passò una birra e volle a tutti i costi che la finissi. Poi un altro tipo mai visto mi passò un cannone e mi sollevò in aria per farmi vedere meglio. Ero tornata indietro di cinque anni buoni, forse anche di più. Mauro muoveva le dita sulla chitarra e io vedevo Ivan muovere le dita sulla mia schiena. Non ci vedevamo da tanto tempo, chissà che aspetto aveva lui adesso. Non lo sapevo. Ma se Ivan aveva ancora il volto e il corpo che io avevo lasciato allora quello sul palco era ancora lui, esattamente come l'avevo lasciato. Ero tornata indietro nel tempo, doveva essere successo questo. Ero ancora una ragazza disoccupata, innamorata e divertita che voleva godere della musica e del suo compagno.
Uno sprazzo di lucidità sembrò risvegliarmi nel cuore di Nothing else matters. Smettila, Sonia, mi dissi, è solo un ragazzino. Sei una donna, che cazzo ci stai facendo qui, conciata come una liceale?
Il pensiero lo feci davvero, ma doveva esserci qualcosa dentro la birra che mi aveva passato la brunetta borchiata. Il mondo girava, la canzone continuava. E io non riuscivo a staccare gli occhi di dosso da Mauro.
Basta, ora me ne torno a casa, fine della buffonata. Mi girai per rggiungere l'ngresso quando urtai per sbaglio una tipa con un grosso boccale in mano e ritrovai bagnata dalla testa ai piedi. Gli Iron Maiden sulla mia Tshirt grondavano alcool.
"Guarda dove metti i piedi, troietta!", sbraitò la tipa.
Dovevo cercare un bagno, ma il mondo girava. Mi fermai un attimo accanto alla porta dell'uscita di emergenza.
"Ehi, hai fatto danno."
Mauro era alle mie spalle. Non mi ero nemmeno accorta che il suo gruppo aveva smesso l'esibizione. Notai che indossava una camcia di jeans sbottonata e che, da sotto, faceva capolino una felpa bianca che era stata di Ivan.
"Siete stati molto bravi", biascicai, con la bocca impastata.
Mauro mi si avvicinò di botto. Le sue spalle sfioravano la mia fronte. Era più alto di me, più solido e decisamente più sobrio.
Mi strinse una mano e mi condusse verso i bagni.
Uscirono tutti dalla toilette degli uomini quando lui mi trascinò dentro. Il mondo continuava a girare. Sentii che apriva il rubinetto dell'acqua.
"Leva la maglietta e sciacqua la faccia", mi disse. Poi il suo tono di voce si addolcì. "Stai serena, non c'è nessuno"
Feci come mi aveva detto. Non provavo la minima vergogna, mi ero spogliata centinaia di volte davanti a Ivan. Mi aiutò a sciacquare il viso, ma nonostante fossi confusa notai che il suo sguardo era scostante, diretto altrove. Lo vidi togliersi la sua camicia e la felpa. Aveva un tatuaggio sulla spalla di cui non ricordavo. Poi buio. E subito di nuovo luce e calore. Guardai il mio petto: avevo addosso la felpa bianca.
"Andiamo", mi disse, tirandomi dolcemente fuori dal bagno.
"Aspetta", risposi. Non avevo voglia di andare via da lì. E glielo dissi.
Lui inclinò di nuovo la testa e socchiuse gli occhi. Cazzo quanto gli somigliava adesso, era come avere di nuovo Ivan davanti, come essere di nuovo ventenni, di nuovo spensierati, innamorati, strafottenti. Infilai una mano fra i suoi capelli. La stessa consistenza, la stessa forma, uguale la sensazione. Giocai un po' a muovere le dita fra le ciocche, separandole e riunendole. Poi, d'improvviso, mi fermai a mezzo. Il mio indice aveva incontrato un ostacolo, una piccolo gibbo che correva longitudinalmente per dieci centimetri buoni.
"Me lo sono fatto cadendo dalle scale una sera, qualche anno fa.", disse. Aveva aperto gli occhi e mi fissava dritto adesso. "Vi guardavo dal buco della serratura, quando ho sentito Ivan avvicinarsi alla porta e scappando sono ruzzolato giù."
Ricordavo l'incidente. L'avevamo sfottuto per mesi per quella caduta senza senso.
"Ho sempre pensato che mio fratello fosse stato molto fortunato.", continuò.
Con delicatezza levò la mia mano dalla sua testa, ma io non opposi resistenza. Mi restituì la maglia bagnata e mi accompagnò all'uscita.
"Grazie per essere venuta.", disse, distogliendo di nuovo lo sguardo. Lo vidi rientrare e tirarsi dietro la porta.
Nel vialetto fuori dal locale c'era una stazione dei taxi. Ne presi uno e aspettai di tornare a casa, con le mie Converse e la felpa bianca.
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