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Il gatto nero
Un gatto nero ricorre in tutti i miei ricordi. Quando penso a un evento del passato, c'è anche lui. In tutte le mie immagini mentali è presente. Era un gatto randagio, che avevamo chiamato Rudolph. Veniva spesso alla nostra villetta, dove gli davamo da mangiare. Era un ottimo deterrente per i topi, di cui ci aveva effettivamente liberato poche settimane dopo la sua comparsa.
Abitavo con i miei genitori in una casetta con giardino nel quartire residenziale di Torino. La mia famiglia era piuttosto ricca e vivevamo agiatamente. Ricordo un giorno, quando venne un uomo a casa nostra per pregare mio padre di ridargli il posto di lavoro, ma lui (mio padre) lo aveva energicamente rifiutato e l'aveva cacciato insultandolo. Ricordo la faccia rossa e imbarazzata dell'impiegato, i suoi occhi gonfi e lucidi e la sua camicia bianca, in cui sudava abbondantemente. Rudolph era in casa, in quel momento. Ronfava su un tappeto color crema. Avevo cinque anni, circa.
Due anni più tardi comprammo una piscima. Mi piaceva sguazzare nell'acqua e un giorno cercai di convincere Rudolph a tuffarsi. Ma il gatto scappò via soffiando. In quel momento fui colto da un crampo allo stomaco. Ero nella parte della piscina dove l'acqua era più profonda e non toccavo per terra. Affondai nell'acqua e iniziai a contorcermi. Cercavo senza risultato di stare a galla, ma il dolore era troppo forte. I miei genitori erano in casa, occupati nelle loro faccende, così non mi sentirono urlare. Stavo annegando... ricordo poi le mani forte di mio padre che mi tiravano fuori dall'acqua. Mi aveva scoperto all'ultimo momento. Mi tirò fuori dall'acqua, mi fece stendere sul prato, premette il mio petto con entrambe le mani per farmi vomitare l'acqua che avevo ingerito. Mi salvò la vita.
Con il tempo mi ero affezionato al gatto. Era diventato il mio unico amico e cercavo continuamente la sua compagnia. Quando avevo dieci anni ricordo un giorno in cui ero nella mia cameretta, sdraiato sul letto, con Rudolph sulla mia pancia, che faceva le fusa. Sentii un forte urlo provenire dal giardino. Mi affacciai e vidi mio padre che barcollava, cercando di camminare verso casa, tamponandosi lo stomaco con una mano. Un uomo lo aveva accoltellato proprio davanti al cancello. Era un altro impiegato che era stato licenziato da mio padre.
Papà era un uomo forte e vigoroso, con lunghi capelli ricci e neri. Ricordo quando prese in braccio Rudolph per la prima volta, dopo essere stato indifferente nei suoi confronti per tanti anni. Con il gatto in braccio, mi guardava.
"Tu devi essere forte, Mario. La vita è dura. Sei stato fortunato a nascere in questa casa, con due genitori amorevoli che ti vogliono bene." Mia mamma ci osservava, poco lontano, e quando la guardai mi sorrise.
Era proprio così, e io lo sapevo. Ma mio padre sapeva anche essere un uomo cattivo. Un giorno comprò un canarino giallo. Poi comprò un pappagallo rosso. Diceva che intendeva portare un po' di colore nella nostra casa, che a suo parere era troppo bianca. Non capisco perché avesse deciso di usare a questo scopo degli animali. Furono proprio questi uccelli il motivo dell'incidente. Una bella mattinata di agosto Rudolph trovò la gabbietta del pappagallo aperta. Mia madre l'aveva dimenticata così, dopo avergli dato da mangiare, e l'uccello non sembrava essersene reso conto. Rudolph saltò sul divano e da lì poté raggiungere la cella dove albergava un piccolo essere vivo. Lo uccise con gli artigli per gioco e sparse le sue viscere sul pavimento. Mio padre andò su tutte le furie. Diceva di aver amato quel pappagallo, diceva che era la sua unica gioia in una vita che stava diventando sempre più grigia. Ma io penso che quel giorno fosse nervoso per motivi personali. In ogni caso acchiappò il gatto, organizzò un fuoco nel giardino e lo arse vivo.
Piansi a dirotto per dei mesi, perché io amavo quel gatto. Mio padre, quando si rese conto del male che mi aveva fatto, venne a chiedermi scusa. Ma era troppo tardi, Rudolph non c'era più e i miei genitori non mi comprarono mai un altro gatto. Non perdonerò mai mio padre per questo.
Iniziai ad andare a scuola. Come ho detto in precedenza, non ero molto socievole. Amavo la lettura e passavo le mie giornate leggendo Don Chisciotte e Manon Lescaut. Avevo tredici anni e amavo l'avventura. In quel periodo maturai anche l'idea di diventare uno scrittore. Iniziai a scrivere poesie e brevi racconti e li facevo leggere ai miei genitori. Dicevano che ero bravo e che sarei certamente diventato un grande scrittore, da adulto. Ero ossessionato dalla fretta di crescere. Non vedevo l'ora di diventare grande per avere una donna e un lavoro, come mio padre, che era un ottimo modello per me. Vedevo in lui un eroe, nonostante avesse momenti bui, direi quasi demoniaci, come quelli a cui ho accennato.
Un giorno picchiò mia madre. Lei era una donna magra e con la faccia lunga, sempre atteggiata a un sorriso. Credo che mio padre fosse molto infelice. La picchiò sotto i miei occhi, dopo cena. Stranamente, anche in questo caso ricordo la presenza di Rudolph, che quella sera dormiva sul tappeto. Eppure, a rigor di logica, doveva essere già morto. Sono scherzi della memoria, probabilmente. Ma a pensarci bene, ricordo il gatto anche quando penso alla sera dell'incidente... Questo è assurdo!... Cercherò ora di rimettere insieme i pezzi di quel brutto episodio, sebbene mi costi molta fatica. Spero che servirà a dare un'immagine più completa di me.
Era una sera di autunno calda e umida. Ricordo la sensazione del sudore sulla mia schiena e l'impressione, guardando il cielo, che stesse per piovere. Tornavo a casa dopo essere stato in biblioteca. Era nato in me il desiderio di un tè caldo, così dopo essere entrato in casa andai in cucina e misi a bollire dell'acqua in un pentolino. Avevo sedici anni e avevo iniziato a fumare marijuana. La compravo da un mio compagno di liceo. Si mormorava che suo padre fosse in carcere. Quel giorno in cui mi stavo facendo il tè ero abbastanza sballato. Quando l'acqua bollì mi accinsi a spegnere il fuoco, ma con il gomito urtai un rotolo di scottex, che cadde sulla fiamma e iniziò a prendere fuoco. Cercai di spegnerlo ma era già troppo tardi e il fuoco si era diffuso in tutta la cucina. I miei riflessi erano troppo rallentati perché potessi reagire. Urlai con quanto fiato avevo in corpo che la casa stava andando a fuoco e mio padre arrivò pochi istanti dopo. Iniziò a urlare, mi prese per le spalle e mi portò fuori casa, strattonandomi più volte, e mi fece distendere sul prato (come quando stavo annegando). Il sole tramontava e la nostra casa bruciava inesorabilmente. Quando mio padre si rese conto che sua moglie era ancora dentro, si precipitò di nuovo in casa, nonostante fosse ormai quasi totalmente coperta dalle fiamme. Voleva trarla in salvo, ma mancò il suo obiettivo. La casa poco dopo crollò e i miei genitori morirono. Io ero seduto sul prato, vicino a Rudolph, e ho visto tutto.
Forse ora potrete pensare che io abbia ucciso i miei genitori. Ma vi sbagliate, perché è stato un incidente. Certo, se non fossi stato inibito da una droga leggera, forse avrei evitato di incendiare quel rotolo di scottex. Ma preferisco pensare che sia stato un semplice incidente, che avrebbe potuto capitare a chiunque, e vi assicuro che è stato difficile, per me, accettare questa conclusione. Ci sono voluti quattro anni di psicoterapia. Un uomo non può convivere con la consapevolezza di aver ucciso entrambi i propri genitori. È una sensazione orribile, che non auguro a nessuno.
Dopo che i miei genitori morirono, andai a vivere con i miei zii materni. Devo dire che loro non mi fecero mai sentire in colpa per quanto era successo. I carabinieri che mi interrogarono l'avevano già fatto abbastanza. Sì, perché avevano pensato che avessi appiccato il fuoco intenzionalmente! Così mi avevano torchiato per giorni e infine avevano accettato la mia versione dei fatti e mi avevano consigliato vivamente la terapia.
Dopo un anno ricominciai ad andare a scuola. Presi il diploma, poi iniziai l'università e presi la laurea in economia. Come ho già detto, non avevo nessun amico. Riuscii a trovare un lavoro in una banca di L, come impiegato. Non ero mai stato in questa località, ma erano gli unici che mi proponevano un'assunzione a tempo pieno. Sperando di lasciarmi alle spalle brutti ricordi del passato e una vita che fino ad allora era stata insoddisfaciente, lasciai Torino, e ricominciai una nuova vita a L. Contrariamente alle mie aspettative la mia vità non cambiò. Continuai a essere una persona solitaria e strinsi amicizia con una sola persona nel paese. Sognavo in cuor mio di trovare una donna da amare e diventare un buon padre. Ma le cose si complicarono.
C'è una cosa che non riesco a spiegarmi, che ho avuto modo di notare più volte ripensando a questi avvenimenti. Perché quel gatto è presente nei ricordi salienti della mia infanzia, anche quando non avrebbe dovuto esserci? Mio padre l'aveva veramente ucciso? O forse è proprio questo lo scherzo della mia memoria?
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- Inquietante racconto di una giovinezza ai confini...
Piaciuto. Ciao Stan
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